LA RASATURA DELLA BARBA

Verso le 19,00 del 13 giugno 1897 il falegname Giovanni Barbiero, il bracciante, nonché barbiere, Angelo Barbiero e suo padre Pietro, tutti da Pedivigliano, entrano nell’esercizio di vendita vino ed altri generi al minuto di Chiara Chiodo e bevono un mezzo litro offerto da Giovanni. Ad un certo punto questi fa a suo cugino Angelo mentre gli dà un buffetto sul mento:

Perché stamattina non mi hai voluto fare la barba?

Giovanni, a me, in tanti anni che ho camminato il mondo, la faccia non l’ha toccata nessuno! Che diresti se io – in questo momento dà un leggero buffetto sulla guancia del cugino – toccassi la tua?

Ne nasce un violento diverbio e, usciti dal locale, passano a vie di fatto, senza riportare lesioni né l’uno, né l’altro, grazie al pronto intervento di persone che li dividono. Giovanni resta davanti al locale, mentre Angelo va a casa, prende un bastone e si mette a camminare lungo la via principale del paese, facendo movimenti di ginnastica.

Venuto a conoscenza della lite, Angelo Barbiero, il padre di Giovanni, corre sul posto armato di coltello e si mette a minacciare sulla pubblica via gli altri due Barbiero. Giovanni, confortato dall’arrivo di suo padre, gli si avvicina ed estratto un revolver, non insidioso, spara tutti e cinque i colpi dell’arma contro il cugino Angelo e contro lo zio Pietro. Angelo, colpito all’inguine ed al fianco sinistro dai primi due proiettili, muore all’istante. Poi Giovanni punta il revolver contro lo zio e gli spara un colpo, che gli buca la giacca senza colpirlo e l’uomo trova riparo. Allora Giovanni, pur rendendosi conto che suo cugino è già morto, gli spara un altro colpo al collo forse per far venire allo scoperto lo zio, cosa che avviene e allora gli spara l’ultimo colpo, anche questo per fortuna gli buca solo la giacca. Ma Giovanni non ha nessuna intenzione di lasciar perdere lo zio, così lo raggiunge e lo colpisce in testa con la canna del revolver fino a che non vede zampillare il sangue e solo adesso molla la presa e scappa nel buio insieme a suo padre.

Avvisati, i Carabinieri di Scigliano arrivano prima che possono ed il Maresciallo Gentiliano Peccini inizia le indagini, mentre i suoi uomini partono alla ricerca dei due fuggitivi. Appresi sommariamente i fatti, il Maresciallo si fa l’idea che probabilmente Giovanni Barbiero ha sparato per istigazione di suo padre e che la mancata rasatura della barba potrebbe essere solo un pretesto per mascherare una vendetta covata per anni. In sostanza, Peccini viene a sapere che da parecchi anni esisterebbero profondi rancori tra i due Barbiero padri, sia a causa di lesioni riportate dal Barbiero Angelo per opera di Pietro e sia per il fatto che, avendo Pietro in costruzione una camera, Giovanni e suo padre pretendevano che il materiale edile occorrente venisse acquistato da loro. Non solo, ma siccome Giovanni fa il falegname, pretendeva fabbricare i serramenti e al rifiuto di Pietro, Giovanni gli avrebbe esploso contro un colpo di rivoltella in seguito a segni convenzionali fattigli dal padre e dopo la frase “e quando spari?”. Tutte circostanze da verificare.

Intanto bisogna ascoltare la versione dei fatti offerta da Pietro Barbiero:

Sei mesi fa il mio defunto figlio tornò dall’America dove era stato per nove anni di seguito a lavorare. Là aveva appreso mediocremente l’arte del barbiere, che qui ora esercitava, specie la domenica e le feste, in una botteguccia. Avantieri mattina mio figlio chiese a me e sua madre il permesso di recarsi a Motta Santa Lucia, dove era la festa di Sant’Antonio, a visitare taluni nostri parenti. Dopo poco mi recai anch’io a Motta, dove raggiunsi mio figlio ed ivi rifocillatici, sul tardi ci ritirammo in paese, perfettamente in stato di serietà, insieme con Antonio Rizzuto e Giovanni Esposito. In paese trovammo Giovanni presso la cantina di Francesco Barbiero e poiché mi avviai nella cantina per comprare un litro di vino nell’intendimento di berlo di fuori con mio figlio e con i compagni, Giovanni volle complimentarci alcuni bicchierini di vino ed a mio figlio un altro, che bevve a metà. Poi cominciò a rimproverare mio figlio dicendo che la mattina non aveva voluto fargli la barba. Mio figlio rispose gentilmente non esser ciò vero e poi si mise a mangiare poche ciliegie che gli avevano donato, ma Giovanni gli diede un tocco nella mano e gli fece cadere le ciliegie. Mio figlio, pazientemente, si limitò a dire “come? Le ho buscate queste poche ciliegie e tu me le fai cadere?”. E qui non debbo omettere che Giovanni aveva calpestato le ciliegie cadute, ma mio figlio, senza mostrarsene risentito, ne raccolse una rimasta intatta e la mangiò. Giovanni, quantunque nemmeno brillo, parlava ed agiva in modo provocante, anzi ritengo che ci aspettava, ben sapendo che a quell’ora noi saremmo stati reduci da Motta. Dopo l’incidente delle ciliegie ed appena mio figlio aveva pronunziato le parole di lagnanza, Giovanni, che assolutamente voleva provocarlo, riprese a rimproverarlo col solito pretesto di non avergli voluto fare la barba ed in pari tempo gli passò la mano sul mento, gesto che nei luoghi nostri viene reputato gravemente offensivo, al che mio figlio si limitò a dire “Giovanni, a me, in tanti anni che ho camminato il mondo, la faccia non l’ha toccata nessuno! Che diresti se io (e così dicendo urtò lievemente in modo cortese la guancia di Giovanni) toccassi la tua?”. Allora Giovanni disse al povero mio figlio, ponendogli contemporaneamente una mano sulla spalla come per spingerlo a camminare, “andiamo verso la via nuova che dovrò dirti un’imbasciata”. Mio figlio gli rispose “io non ho che venire a fare nella via nuova, io debbo andarmene a casa”. Io stesso, vedendo il contegno di Giovanni, dissi a mio figlio di andarsene, ma né l’uno, né l’altro facemmo a tempo di muoverci perché quegli diede un urto tale al figlio mio da farlo cadere a terra ed immantinenti gli fu sopra. Mio figlio si svincolò anche perché le persone che ivi si trovavano ed io stesso li dividemmo. Mio figlio allora s’incamminò verso casa ed io rimasi perché Giovanni, ch’era stato trattenuto, mi rinfacciò di non avere da lui e il padre comprato le tegole ed i mattoni per la camera che avevo costruito. Indi m’incamminai anche io verso la parte superiore della strada principale del paese ed a pochi passi indietro camminava Giovanni. Passata di una decina di metri la Casa Comunale vidi mio figlio che scendeva con un bastone per incontrarmi e quando fummo vicini mi disse “Tata, non te ne venisti? Andiamocene”. Intanto mi accorsi che scendeva anche Angelo Barbiero, il padre di Giovanni, con un pugnale in mano sicché, ad evitare tristi conseguenze che l’animo mi presagiva, gli gridai, visto che era a sette od otto passi da noi, “non è stato niente, portati a casa tuo figlio!”. Ma sventuratamente Mastro Angelo si fece sulla sinistra della strada, ponendosi di rimpetto al figlio che sopraggiungeva, e gli gridò “mena a revolverate!”. Difatti il figlio, girando un po’ per mettersi alle spalle mie e di mio figlio, si pose ad esploderci i colpi della sua rivoltella. Al terzo colpo contro mio figlio, Giovanni disse “questo è il colpo di grazia!”. Visto che ero rimasto illeso, Giovanni colla canna del revolver si dié a percuotermi sul capo e sulla fronte. A tali violenze caddi stramazzando sul cadavere del mio figliolo e Giovanni, non pago, mi calpestò.

Il racconto di Pietro Barbiero conferma l’impressione del maresciallo, ma è una ricostruzione di parte e c’è bisogno di altri riscontri. Forse le persone presenti ai fatti potranno chiarire tutto, ma intanto dei due ricercati non c’è nessuna notizia e a niente sono valse le perquisizioni fatte nelle case di parenti ed amici dei due. Poi, il 17 giugno, la svolta: Giovanni Barbiero si presenta in Questura a Cosenza e viene interrogato dal Delegato Federico Sedelmayer:

Il 13 andante, trovandomi sul calar del sole nella cantina di Francesco Barbiero a Pedivigliano, sono entrati Antonio Barbiero, suo fratello Pietro e il figlio di questi, Angelo, ai quali ho offerto del vino, che hanno accettato. Quindi siamo usciti dalla cantina ed appena sulla strada Angelo, con tono severo, mi disse queste parole: “con te ho un’obbligazione”. Io, che con lui non avevo mai avuto da dire, sono rimasto sorpreso, tanto che ritenni volesse scherzare, sicché ridendo gli domandai quale torto mai avesse ricevuto da me. Ma Angelo, mostrandosi sempre più risoluto, dicendo “vuoi vedere cosa mi hai fatto?”, mi cacciò per terra percuotendomi a pugni e sgraffiandomi sul viso e dandomi calci, cosa che fece pure il padre di lui. Poco prima che ciò accadesse, io mi ero ritirato dalla campagna in compagnia di Giacinto Mandarino da Cerisano e non ho pensato di difendermi servendomi della rivoltella che, debbo confessare, asportavo abusivamente, ritenendo che il fatto di cui fui vittima fosse l’effetto di qualche bicchiere di vino soverchiamente bevuto da padre e figlio. Poi entrambi si sono messi a correre precipitosamente verso la loro abitazione; poco dopo, forse dieci minuti, chiamato nella piazzetta da mio zio Pietro Arcuri, che è Sindaco di Pedivigliano, per raccontargli l’accaduto, ho visto venire incontro a me Pietro Barbiero e suo figlio Angelo in attitudine minacciosa. Il primo impugnava un lungo coltello di quelli che usano i pecorai, il secondo con un grosso bastone di legno, comunemente chiamato “piraino”. Quando furono giunti alla distanza di circa quattro metri io, estraendo la rivoltella, ho intimato loro di non avvicinarsi e temendo di dover soccombere ho esploso la rivoltella colpendoli entrambi. Mentre ciò avveniva, mio padre si avventò su Pietro Barbiero e lo ha disarmato del coltello. Poi mi sono rifugiato nelle mie stesse campagne. Per la verità debbo dichiarare che i primi colpi li esplosi per impaurirli e farli retrocedere, ma quando ho visto che poco se ne curavano volendo avere ragione di me, allora sono stato costretto di precisare il tiro. So che i parenti di costoro rivolgono alla mia famiglia gravi minacce, tanto che per mantenersi ritirata è costretta a trascurare persino le proprie occupazioni.

– Di quale tipo era la rivoltella, come l’avete avuta e dove l’avete nascosta?

La rivoltella a sei colpi era di lunga misura e di vecchio modello e mi era stata regalata da Saverio Ambrosio che presentemente si trova in America. Nel darmi alla fuga la buttai in un fondo di Stancato presso il camposanto e precisamente in un pezzo di terreno seminato a grano.

– Quanti colpi avete sparato?

Mi trovavo molto eccitato e non saprei dire quanti colpi sparai… faccio notare che sul viso porto ancora le tracce di graffiature prodottemi da padre e figlio e che mi sento ancora dei dolori alle spalle ed ai reni per le percosse avute

Nessun riferimento alla mancata rasatura della barba, per non dire dei vecchi rancori, ma è comprensibile. Il problema, semmai, è che questa dichiarazione contrasta con la ricostruzione sommaria fatta dai Carabinieri, soprattutto perché è difficile capire cosa intenda Giovanni quando parla di primi colpi esplosi a scopo intimidatorio, quindi presumibilmente in aria. Ammesso che la rivoltella fosse a canna lunga a sei colpi, quindi di grosso calibro, certamente tre hanno centrato Angelo e certamente due sono i fori sulla giacca di Pietro, quindi in tutto cinque e ne resterebbe solo uno. E qui c’è da un lato una conferma e dall’altro una contraddizione: secondo i risultati dell’autopsia tutte e tre le ferite riscontrate all’intersezione della clavicola destra con lo sterno, in corrispondenza della quinta costola ed all’inguine destro, erano mortali e ciò significa che la rivoltella usata era molto potente e non come sostengono i Carabinieri “non insidiosa” e che Giovanni Barbiero ha sparato subito con l’intenzione di uccidere.

Forse Giovanni si è reso conto di avere esagerato nella sua dichiarazione ed il giorno dopo il suo arresto, interrogato dal Giudice Istruttore, aggiusta leggermente il tiro:

Nella cantina si fecero degli scherzi e Angelo Barbiero si offrì di farmi la barba e poiché io me l’avevo fatta radere quel giorno, lo pregai di venirmela a fare la domenica successiva… – poi racconta nello stesso modo l’aggressione di cui sarebbe stato vittima e quindi arriva al punto cruciale, che modifica in questi termini – vidi venire incontro a me, bestemmiando, Pietro Barbiero e suo figlio Angelo armato di un grosso bastone e quando erano alla distanza di circa quattro metri, per intimidirli estrassi la rivoltella e gli intimai di voltarsi indietro. Poiché continuavano ad avvicinarsi e Angelo aveva alzato il bastone per colpirmi, esplosi la rivoltella e li ferii entrambi. Fu allora che Pietro Barbiero estrasse un pugnale, ma mio padre, accorso in mio aiuto, riuscì a disarmarlo. Poi mi diedi alla fuga.

– In tutti quanti colpi sono stati sparati?

Non ricordo se quattro o cinque, certo è che i primi due colpi li sparai per intimidire.

I conti continuano a non tornare, come non torna Mastro Angelo Barbiero, ancora latitante. Ma è il momento di ascoltare i testimoni.

Giuseppe Angotti:

Tra Giovanni e Angelo sorse un discorso e il primo rimproverò al secondo, toccandogli il mento, che la mattina di quel giorno non gli aveva voluto fare la barba. Angelo, prudentemente, rispose: “non è vero che mi hai interpellato per la barba, altrimenti ti avrei servito”. Dopo tal fatto, Giovanni invitò Angelo ad uscir fuori in tono provocante. Mi accorsi che si erano accapigliati ed io credetti miglior consiglio ritirarmi a casa e non so altro

Rosario Calfa:

In mezzo alla piazza mi incontrai con Angelo Barbiero. Quasi nello stesso tempo arrivò il Sindaco che domandò ad Angelo cosa fosse successo e questi rispose “nulla”. Pochi minuti dopo giunse Mastro Angelo, il padre di Giovanni, e domandò cosa fosse successo, ma nessuno rispose e quindi si avviò verso la cantina dove era avvenuto il primo stadio della lite. In quell’istante tornò indietro con un coltello in mano e fu trattenuto da Emilio e Antonio Costanzo ed il primo gli disse: “Angelo, invece di metter pace vieni a metter guerra?”. Alla vista del coltello, Angelo il barbiere corse verso casa e subito ne uscì con un bastone facendolo roteare a mulinetto per evitare di essere aggredito ma fu trattenuto dal Sindaco e da suo padre. Nel momento che si girava ebbe da Giovanni il primo colpo di revolver che lo investì in uno dei fianchi. Indi gli diede un altro colpo e, caduto a terra, gliene esplose un altro. Dopo questi tre colpi ad Angelo, l’uccisore ne esplose altri due a Pietro, che andarono falliti ma, caduto a terra, con la canna del revolver gli diede dei colpi sulla fronte.

– Il padre dell’uccisore disse qualcosa?

– Si, disse al figlio: “quando cominci? Ora è il momento di tirare revolverate!”.

Gli altri testimoni ascoltati confermano le dichiarazioni di Calfa e Angotti e, chiusa l’istruttoria, viene chiesto il rinvio a giudizio di Giovanni Barbiero per omicidio volontario, tentato omicidio, lesioni volontarie e di suo padre Angelo, ancora latitante, per concorso in omicidio, tentato omicidio e lesioni volontarie. Il 15 ottobre 1897 la Sezione d’Accusa accoglie parzialmente le richieste della Procura e rinvia gli imputati al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza, escludendo il tentato omicidio ai danni di Pietro Barbiero. Il processo a carico di Angelo Barbiero però deve essere stralciato visto che è irreperibile e il dibattimento viene fissato col rito contumaciale per il 14 febbraio 1898.

Il 10 dicembre 1897 invece si discute la causa a carico di Giovanni Barbiero e la Corte non ha dubbi sul fatto che l’imputato abbia sparato contro Angelo Barbiero per ucciderlo. Ritiene che non abbia sparato con la volontà di uccidere Pietro Barbiero, ma di avergli causato volontariamente lesioni personali colpendolo con la canna della rivoltella. Ritiene, inoltre, che entrambi i reati sono stati commessi in stato d’ira determinato da ingiusta provocazione. Tenuta presente l’attenuante concessa, la Corte condanna l’imputato ad anni 14, mesi 4 e giorni 20 di reclusione, oltra alle spese, ai danni e alle pene accessorie.

Il 14 febbraio 1898 si discute la causa contro Angelo Barbiero col rito contumaciale. Il Collegio Giudicante, letti gli atti ed ascoltati i testimoni, giudica colpevole l’imputato di complicità necessaria nei reati ascrittigli, di avere, cioè, concorso nel delitto di omicidio volontario ed in quello di lesioni personali con l’eccitare e rafforzare la risoluzione criminosa del figlio Giovanni, prestandogli aiuto ed assistenza efficace durante il fatto, col beneficio della provocazione semplice per quanto riguarda l’omicidio volontario. La pena viene fissata in anni 14 e mesi 4 di reclusione, oltre alle spese, ai danni e alle pene accessorie.

Il 28 febbraio 1898 la Suprema Corte di Cassazione rigetta il ricorso di Giovanni Barbiero.

Il primo aprile 1898, la Sezione d’Accusa dichiara condonati a Giovanni Barbiero giorni 20 della pena.[1]

Di mastro Angelo Barbiero non si hanno più notizie.

[1] ASCS, Processi Penali.