IL PINO DI NOME “PIETRO”

In un angolo del fondo del settantottenne Teodoro Chidichimo, sito in contrada Manganello del Comune di Plataci, c’è una pineta costituita da vecchi e giovani pini alla quale l’anziano ha prodigato e prodiga tutte le sue cure e ne è tanto geloso da rifiutare di concedere ai tanti richiedenti lo sfruttamento della resina perché, dice, “i miei pini non debbono in alcun modo essere spogliati e molestati”. E fin qui non sembra esserci molto di strano, ma la passione di Teodoro per i suoi pini si spinge fino al punto di assegnare ad ogni singolo albero un particolare nome proprio. E tra tutti si è affezionato in modo particolare ad uno dei pini più piccoli, che ha chiamato Pietro e che cura come se fosse un figlio.

Nelle immediate vicinanze della casetta rurale di Teodoro e sua moglie abita la famiglia di Giovanni Troiano e spesso tra le due famiglie c’è qualche discussione, a volte perché gli animali dell’uno, sconfinando, vanno a pascolare nel fondo dell’altro, a volte perché l’undicenne Ferdinando Troiano, discolo, ladro e prepotente, si compiace di amareggiare l’anziano Teodoro. Una volta, per esempio, messosi a capo di una comitiva di monelli ed approfittando dell’assenza di Teodoro, gli scoverchiò parte del tetto della casetta rurale, buttandovi attraverso il varco alquante pietre, che ingombrarono il pavimento. Un’altra volta Ferdinando, o qualcuno dei suoi congiunti, gli uccise il cane da guardia. Ma malgrado ciò tra le due famiglie non si è mai arrivati alle mani o a denunce solo perché i Chidichimo, per istintiva paura essendo vecchi e soli, sopportano con rassegnazione danneggiamenti ed offese.

Il 18 luglio 1942 Teodoro rimane da solo in casa perché, essendosi rotte le sue scarpe e non avendone altre per sostituirle, sua moglie a metà mattina le porta ad aggiustare da un ciabattino in Villapiana, distante parecchi chilometri. Anche senza uscire, però Teodoro non smette di far buona guardia al suo fondo, specie alla pineta, che dalla casa è ben visibile.

La mattina del 18 luglio 1942 al piccolo Ferdinando Troiano viene in mente di fare a Teodoro un altro dei suoi soliti tiri di cattivo gusto, forse a ciò spinto dalla convinzione che il vecchio si sia allontanato dal suo fondo. Così prende una piccola scure e va nella pineta, gira un po’ e poi si ferma, sorridendo beffardamente, davanti a Pietro. Poi con la scure comincia a colpire l’alberello, che cade quasi subito e Ferdinando adesso ride di gusto, pregustando la soddisfazione che gli darà vedere e sentire la disperazione del vecchio Teodoro quando troverà l’albero abbattuto.

Ma Ferdinando non si è accorto che il vecchio lo ha visto, ha preso la sua scure e, scalzo com’è, lo ha raggiunto mentre è intento a ripulire il debole tronco dell’alberello dai teneri rami.

Il ragazzino non ha nemmeno il tempo di girarsi quando sente un fruscio alle sue spalle perché è già praticamente morto con il cranio spaccato in due da un terribile colpo datogli col taglio della scure, che gli fa schizzare il cervello tutto intorno. Poi il vecchio Teodoro, nella sua cieca collera (funesto rigurgito di tante altre mortificazioni precedentemente sofferte), lo colpisce altre quattordici volte: alla mano, al polso, all’antibraccio, alle due regioni glutee, alla regione deltoidea, al torace, alla fronte ed al parietale. Ed alla fine i colpi sono stati così violenti da spezzare tutte le ossa colpite. Uno spettacolo raccapricciante.

Teodoro, coperto di sangue e col respiro affannato, raccoglie la scure di Ferdinando, torna a casa e la posa a terra insieme con la sua, poi si ripulisce alla meglio, esce, chiude la porta di casa a chiave e parte scalzo verso la casa di sua figlia, distante circa sei chilometri.

La figlia resta sconvolta nel vederlo sporco di sangue e scalzo, ma Teodoro, impassibile, bacia i nipotini e la saluta dicendole:

Vado a costituirmi dai Carabinieri di Castrovillari perché ho ammazzato il figlio di Troiano

A tale annuncio, costei, esterrefatta, rompe in pianto attirando l’attenzione di una vicina, alla quale racconta ciò che il padre le ha confessato. La vicina, a sua volta, corre in paese per avvisare i Troiano. Urla, disperazione, pianti. Ma bisogna correre alla casetta colonica per cercare di salvare, se mai sia ancora vivo, Ferdinando. Arrivano a sera inoltrata, ma nessuno sa con precisione dove possa trovarsi il ragazzino e i familiari con i Carabinieri e altre persone cercano nei dintorni per tutta la notte, ma non trovano nessun indizio che possa confermare il tragico avviso. Poi, verso le 5,30 del 19 luglio, qualcuno si inoltra nella pineta e scopre l’orrore. Quando arrivano i familiari, il piccolo pino tagliato accanto al cadavere martoriato del bambino spiega loro il motivo dello scempio.

In questi stessi momenti il vecchio Teodoro sta camminando a fatica, scalzo com’è, lungo sentieri e boschi che lo porteranno a Castrovillari, dove arriva, sfinito, verso il tramonto. Al Maresciallo che lo interroga, racconta:

Ero stanco dei continui furti e danneggiamenti patiti ad opera del piccolo Troiano e quando ieri lo trovai intento a commettere altro furto, lo colpii alla testa col dorso della scure, ma solo per dargli una lezione e non per ucciderlo

Evidentemente sta mentendo con l’intento di diminuire la propria responsabilità, ma il cadavere del bambino parla chiaro e l’accusa che viene mossa al vecchio è terribile: omicidio volontario con la duplice aggravante del futile motivo e di averlo consumato con sevizie e crudeltà.

Quando Teodoro viene interrogato dal Magistrato, davanti all’evidenza dei fatti, cambia versione:

Sono stato trascinato al delitto dal fatto ingiusto del piccolo Troiano il quale, non contento di avermi rubato quindici lire e due ricevute di trecento lire che non volle restituirmi, si permise di buttarmi pietre e letame e poscia di tirarmi calci, colpendomi all’occhio sinistro ed all’inguine… acceso dall’ira lo afferrai, lo buttai a terra e lo colpii con la scure che mi trovavo addosso, senza sapere cosa stessi facendo

Potrebbe essere credibile, se non fosse nessuno gli notò lesioni all’occhio, ma, comunque, fare quasi a pezzi un bambino è una faccenda molto brutta ed il 29 aprile 1943 il Giudice Istruttore lo rinvia al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza.

La causa si discute nelle udienze del 2 e 3 luglio 1943 e la difesa chiede che Teodoro Chidichimo sia sottoposto a perizia psichiatrica al fine di accertare se l’imputato sia affetto da demenza senile, ma la Corte rigetta l’istanza sostenendo che in udienza non è emerso alcun elemento che renda necessaria la perizia, avendo l’imputato narrato con chiarezza le circostanze che lo indussero al delitto, ha mostrato di possedere sufficiente lucidità di mente e cioè di non patire limitazione della facoltà di intendere e di volere.

Piuttosto, la Corte focalizza l’attenzione sul movente, che non può non incidere sulle aggravanti contestate all’imputato. Teodoro Chidichimo nutriva, da gran tempo, odio mal represso che scoppiò, con la impronta dell’implacabilità, all’urto della nuova, duplice offesa: offesa al patrimonio che gli venne dalla recisione di “Pietro”, di quel giovane pino che, nel suo senile attaccamento, amava come cosa animata e viva, come una sua creatura, a cui era fortemente attaccato; offesa e dileggio alla sua persona per aver patito lancio di pietre e di letame, che se pure non lo contusero, come farebbe dubitare la prova generica, certamente lo irritarono e lo spinsero al delitto, senza alcuna mercé per l’adolescente, che colpì reiteratamente, violentemente con la precisa intenzione di togliere una volta per sempre la causa delle sue afflizioni. Conseguentemente, avendo egli compiuto il delitto nello stato d’ira, reagendo al fatto ingiusto della vittima, che avea attentato alla di lui persona ed alla di lui proprietà, non può negarglisi la diminuente dello stato d’ira.

Pare che le cose si stiano mettendo meglio per il vecchio Teodoro, ma non è che la Corte, concedendogli l’attenuante dello stato d’ira per fatto ingiusto della vittima – un bambino di undici anni – ha commesso un abuso? La questione che si pone è: può l’azione di un bambino essere considerata un fatto ingiusto penalmente rilevante? Si, per la Corte, che spiega: anche il fatto provocatore di un ragazzo, se assurga a forza motrice di un delitto, cioè se ha il potere di trascinare alla reazione, non può non costituire diminuente in favore di colui che dal detto fatto provocatore è stato spinto irresistibilmente a delinquere, specie se, come in concreto, il fatto stesso riposi nella cocciuta petulanza ed aggressività di un monello, insensibile ad ogni richiamo, ai danni di un vecchio che, per la sua stessa senile età, non è in condizione di poter resistere a spinte che importerebbero una eccezionale sopportazione. Poi la Corte continua: il legislatore, d’altronde, non ha distinto tra fatto ingiusto e fatto ingiusto, né ha spogliato d’ingiustizia la violazione di un diritto che vien commessa da un piccolo ribaldo, il quale, nell’esercizio della quotidiana violazione, metta a dura prova la pazienza e la resistenza di colui che è oggetto dei suoi scherni.

È quindi ovvio che se il vecchio Teodoro ha reagito ad un fatto ingiusto, non si può parlare di delitto commesso per futili motivi: il fatto che assume veste e gravità di causa ingiusta e provocatrice non può, per la sua stessa gravità, esser catalogato ed inquadrato fra i moventi futili i quali, per lo stesso grammaticale significato delle parole, debbono essere lievi, imprecisi e privi di forza trascinante.

Resta de definire se il delitto fu commesso con sevizie e crudeltà, come il numero e la gravità delle lesioni lascerebbe pensare. La Corte è netta: non sussiste nemmeno l’aggravante delle sevizie perché, dovendo avere queste il loro sviluppo nel tempo ed essendosi invece la morte provocata fulmineamente, non ebbero affatto luogo. Seviziato è colui che viene sottoposto a lunghe sofferenze, a duraturi tormenti, il che non vi è nel caso in esame. Non sussiste nemmeno l’aspetto della crudeltà poiché questa si avvera, come è comune opinione, solo quando l’omicidio è consumato “con animo sordo ai più elementari e comuni sentimenti di pietà, in modo da cagionare sofferenze con azioni brutali ed efferate”. La crudeltà deve incidere e colpire più il morale che il fisico della vittima. Si agisce con crudeltà se si aspetta la vittima nei pressi della casa per ucciderla sotto gli occhi dei familiari; se la si faccia assistere alla strage di altra persona e la si immobilizzi, assicurandola frattanto che a lei è serbata sorte uguale; se la si obblighi a suicidarsi per togliergli la speranza del riposo eterno, che è negato – per la nostra credenza religiosa – al suicida. Né la crudeltà può riscontrarsi nella reiterazione dei colpi perché essi, in concreto, sono indice della volontà omicida ed inconsulto sfogo di un animo senile esasperato, non già maturato proposito di cagionare sofferenze atroci ed efferate.

Chiariti tutti gli aspetti della causa, non resta che determinare la pena da infliggere a Teodoro Chidichimo, pena che, vista la sua età avanzata, sarà comunque un ergastolo, un fine pena mai.

La Corte, tenuto conto dei buoni precedenti penali dell’imputato, il quale è arrivato all’età di 79 anni avendo riportata la sola condanna di giorni 15 di carcere nel 1888, crede equo di irrogarla nella misura di anni 14, partendo dal minimo di anni 21, ridotti di un terzo per la provocazione, più pene accessorie, spese e danni.

Ma c’è ancora da applicare l’articolo 3 dell’amnistia del 17 ottobre 1942, n. 1156, in base al quale vengono condonati anni 3 della pena.

È il 3 luglio 1943 e non risultano ricorsi in Appello.[1]

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia  Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.