IL FRUTTO DELLA PROPRIA COLPA

A Gavassa, Rovacchi Ada a partorito un bimbo poi lanno sepelito e stata aiutata dalla sorella Ida che questa la messa sotto terra anche i ragazzi lo sanno tutti ne parlano abbiamo scritto al capitano dei carabinieri ma nulla si vede anche il medico sa che era gravida ora però lui ci guardi che tutti ne parlano lei stessa disse che era di 8 mesi.

È il 28 settembre 1923 quando Arturo Angelucci, Commissario di P.S. della Questura di Reggio Emilia, riceve la lettera anonima e incarica il Maresciallo Capo Specializzato Luigi Piscitelli di occuparsi del caso. La mattina seguente Piscitelli va nella frazione Villa Gavassa per fare una visita a casa della ventiduenne Ada Rovacchi e la sottopone a stringente interrogatorio, finché la ragazza ammette qualcosa:

Nella notte dal 16 al 17 volgente mese, verso le ore una, mi abortii dando alla luce un bambino di sesso femminile, nato morto. Per salvare il mio onore ravvolsi il feto in un panno e lo nascosi in un canale sottostante al fabbricato della mia abitazione.

– Ti ha aiutata tua sorella o qualcun altro?

Escludo in modo assoluto di essere stata aiutata nel parto da mia sorella Ida o da qualsiasi altra persona.

Piscitelli va a verificare il racconto di Ada ed effettivamente nel canale con apertura ad arco per lo scolo delle acque di rifiuto, dal lato di levante del fabbricato verso la campagna c’è qualcosa avvolto in un pezzo di stoffa. È il corpicino di una bambina, ormai in avanzato stato di putrefazione. La ragazza viene immediatamente arrestata e viene chiamato il medico condotto, dottor Romolo Lasagni, il quale non può che restare nel vago:

Oggi alle ore 16, rinvenuto un cadavere appartenente ad un feto nel condotto in prossimità dell’abitato Casino Giusti, posto in Villa Gavassa N. 15-16, sono stato richiesto dal Signor Maresciallo a visitarlo. Visitato il cadavere dichiaro che esso è di sesso femminile e che si ritiene di circa 8 mesi di vita intrauterina. Stante lo stato di putrefazione del piccolo cadavere, non ò potuto rilevare alcuna traccia di violenza sul corpo della bambina. Per stabilire, quindi, se il feto sia nato vivo o morto, occorre l’autopsia del cadavere. La data della nascita della bambina risale da 12-13 giorni.

Quando il 3 ottobre 1923 arriva un’altra lettera anonima – questa volta ben scritta con macchina per scrivere – è chiaro che a Villa Gavassa, qualcuno che la conosce bene, ce l’ha a morte con Ada Rovacchi:

Ill.mo Sig. R. Questore

Reggio Emilia

Ho letto nel giornale di Reggio l’arresto della giovane Rovacchi Ada ed ò rilevato che in esso sono contenute numerose cose insussistenti

1° La Rovacchi ha sempre dormito in una camera ove dormivano il padre Domenico e la sorella Erminia, di conseguenza che essa è stata aiutata dai suddetti nel fare scomparire il neonato

2° La Rovacchi ha poi avuto un altro figlio che tutt’ora vive ed è poi di pessima condotta morale dato che Ella si concedeva al primo che capitava e spesso succedeva che aveva intimità con più uomini in una sola sera

Quanto sopra è conosciutissimo da tutti i residenti a Villa Gavassa ed a conferma di quanto sopra la S.V. può chiederne al dottor della Villa, Sig. Lasagni Romolo.

Complimenti Sig. Questore per la giustizia che Ella ha fatto nell’arrestare la suddetta ragazza.

Grazie.

Beh, anche il dottor Lasagni non scherza in quanto a inimicizie, visto che tutti lo chiamano in ballo.

Quando il primo ottobre arriva il risultato dell’autopsia, Ada Rovacchi è nei guai fino al collo perché viene accertato che la bambina nacque a termine, viva, vitale e molto ben sviluppata, ma la causa della morte, avvenuta 15 e 20 giorni prima, non è individuabile con certezza. Ciò che è certo è che la vita extrauterina della bambina fu di brevissima durata.

La sottoscritta Rovacchi Ada, detenuta in queste Carceri Giudiziarie, imputata di infanticidio, à l’onore di rivolgersi alla S.V.Ill.ma onde farle noto le circostanze che hanno dato origine al reato da essa commesso. È la prima ammissione che Ada fa, scrivendo (facendo scrivere) una lunga lettera al Procuratore del re di Reggio Emilia. Poi continua. È necessario che la S.V. abbia presente che la sottoscritta, priva della propria madre sino dall’età di 15 anni, cresciuta quindi senza poter dar sfogo ai propri sentimenti, fu spinta dalla necessità della propria natura affettuosa, ad accettare le profferte di un giovane che riteneva serio e per bene. Bisognosa di avere un’anima in cui riporre le proprie speranze, a cui confidare le proprie pene, essa si diede anima e corpo a chi credeva che mai potesse approfittare della propria inesperienza e di un così necessario abbandono. Come conseguenza di tale rapporti, essa ebbe un bel giorno la certezza di diventare madre. Fu con animo lieto che essa comunicò al proprio fidanzato la notizia; notizia che egli accolse con gaudio apparente e che gli fece ripetere la promessa, già fatta tante altre volte, di addivenire ad un sollecito matrimonio.

I mesi però passavano, la gravidanza diventava ormai apparente e colui che l’aveva resa madre dilazionava e rimandava di giorno in giorno l’esecuzione delle proprie promesse. Man mano che si avvicinava il giorno in cui essa avrebbe dovuto mettere al mondo la disgraziata creatura, il padre della medesima rendeva le visite, prima quotidiane, sempre più rare, finché quando avvenne il parto era circa un mese che egli non erasi fatto vivo.

In quale stato d’animo, in quali condizioni essa abbia messo al mondo la sua creatura, potrà immaginare la S.V.

Maledetta dal padre suo, abbandonata dal padre del proprio bambino, essa perdette il dominio su sé stessa e le sembrò che l’unica via di salvezza fosse quella di sopprimere il frutto della propria colpa. Ciò che à compiuto in quel momento più non lo ricorda, se ne rese conto solamente quando, passato il primo momento di esaltazione, sentì nascere e svilupparsi in sé l’amore materno, che il dolore dell’abbandono e la vergogna della propria situazione, dovevano per un istante aver fatto assopire. Era però troppo tardi, il fatto ormai era compiuto: non restava per essa che dolore, vergogna ed espiazione.

Fu in questo stato d’animo che venne arrestata e che vive in carcere sino dal 29 settembre. Abbandonata da tutti, priva di ogni mezzo di fortuna e senza possibilità, quindi, di procurarsi una difesa anche modesta che la sostenga davanti l’istruttoria, parli per essa al momento del processo, essa non vede altro scampo che di rivolgersi alla S.V.Ill.ma.

Considerate le circostanze che ànno spinta la sottoscritta a commettere il fatto, considerate le condizioni economiche in cui versa la propria famiglia, di cui essa era l’unico e valido aiuto, che tiene una sorella tubercolotica, di cui essa era l’unico sostegno; ritenuto che prima che sia fissato il proprio processo, molto tempo dovrà ancora trascorrere e ciò costituirà forse la morte della propria sorella, rivolge viva preghiera onde voglia ordinare la sua scarcerazione in libertà provvisoria, assicurando che essa si troverà sempre pronta a rispondere in qualsiasi momento agli ordini della S.V.

È il 22 ottobre 1923. Nessun accenno all’altro, presunto, figlio; nessun accenno al nome del fidanzato, nessun accenno a quella vita sregolata di cui viene accusata dall’anonimo bene informato. La preghiera non impietosisce il Giudice che tre giorni dopo rigetta l’istanza.

Secondo la Questura su alcuni aspetti mente, invece su altri mente l’anonimo:

è risultato che essa, fin dal 1914, mentre era al servizio della famiglia Montanari Giustino da Prato di Correggio, all’età di anni 13 entrò in relazioni con tal Bassi Cesare col quale, pare, abbia avuto la figlia Lea di anni 3 [si tratta evidentemente di un errore di battitura, l’età corretta dovrebbe essere quella di 8 anni. Nda]. Dopo circa un anno, e cioè nel 1915, ebbe relazione intima col Montanari Giustino e poi con Giareni Umberto, morto nel 1917. Circa un anno addietro, la Rovacchi riallacciò la relazione col Montanari Giustino il quale, dopo 5 o 6 mesi, saputala incinta, l’abbandonò. In tale periodo e fino alla data del suo arresto, la Rovacchi pare non abbia avuto altri amanti e non si ritiene che sia facile ad accoppiarsi con chiunque. Risulta inoltre che essa dormiva in una stanza colla figlia Lea, mentre la sorella ed il padre dormivano nella stanza attigua al primo piano. La sorella ha dichiarato al Maresciallo Piscitelli di avere appreso dalla Ada che il suo parto era avvenuto al piano terreno della loro casa, ove vi è un’altra stanza, all’insaputa di tutti.

Intanto Ada scrive di nuovo al Procuratore del re per rinnovare la richiesta di libertà provvisoria, lamentandosi del fatto che ad un’altra detenuta, accusata del suo stesso reato, è stata concessa: per quanto la medesima possa essere stata considerata come ammalata, ciò non diminuisce per nulla la gravità del reato, che se è tale, resta grave sia per la ricorrente, come per l’altra la quale, nella peggiore delle ipotesi, avrebbe potuta essere ricoverata all’ospedale. Le condizioni di famiglia dell’altra non sono da paragonarsi, sotto tutti gli aspetti, a quelle della ricorrente, giacché oltre ad essere priva di ogni mezzo finanziario, essa ne costituiva l’unico sostegno ed era la sola che poteva curare ed aiutare la propria sorella gravemente ammalata di tubercolosi.

Ma neanche stavolta va bene: Ritenuto che altra domanda diretta all’identico scopo fu respinta e non fu impugnata dall’imputata nei termini di legge; ritenuto che non sono mutate le condizioni che hanno consigliato la reiezione di quell’istanza e che la malattia della sorella non è motivo sufficiente per consentire la liberazione dell’imputata, non accordiamo alla prevenuta il chiesto beneficio della libertà provvisoria.

In realtà il primo provvedimento non fu impugnato perché, Ada lo scrisse chiaramente, non aveva un avvocato che potesse provvedere ad informarla sulle cose da fare, ma questo che importa?

E che importa se tutti gli uomini che l’hanno usata negano di avere mai avuto rapporti con lei, mentendo spudoratamente?

Poste così le risultanze dell’istruttoria, non è dubbio che la Rovacchi è raggiunta da prove sicure di responsabilità. Se lo stato di decomposizione del cadavere non ha permesso di accertare il genere di violenza da esso subito, tutto ci convince però che la morte non fu naturale. Quantunque la vita morale non deponga troppo favorevolmente per lei, non può però non riconoscersi che la ragione d’onore sia stata la determinatrice del delitto e perciò la responsabilità va limitata. È il 7 gennaio 1924.[1]

[1] ASRE, Processi Penali, Corte d’Assise di Reggio Emilia. Negli atti manca la sentenza.