IL MISTERO DEI PRESERVATIVI

Mamma! Mamma mia!

Sono circa le 3,30 del 29 maggio 1943 quando alcuni abitanti di Melissa, già in piedi per prepararsi ad andare a zappare, sentono urlare queste parole e poi le detonazioni di alcuni colpi di arma da fuoco.

All’alba, in prossimità del punto in cui dalla Via Mezza si porta la Via Fischia, viene rinvenuto il cadavere del ventiquattrenne Ufficiale Esattoriale di Melissa Giacomo Cosentino, con i pantaloni sbottonati. Addosso gli trovano una bottiglia di vermouth vuota e una scatola di preservativi da tre pezzi, di cui uno manca ed uno è pronto per l’uso.

Ha la camicia forata sul petto e i segni caratteristici che lascia un colpo sparato a bruciapelo, probabilmente a non più di 50 centimetri. L’arma usata è una rivoltella calibro 9 e il proiettile, come assicura il medico legale dopo avere eseguito l’autopsia, ha perforato il setto interstiziale del cuore, è uscito attraverso la parete dell’orecchietta sinistra ed è caduto nel cavo toracico producendo copiosissima emorragia ed arresto immediato della funzione cardiaca.

Chi può avere voluto la morte di Giacomo Cosentino? Per gli inquirenti è un rompicapo.

Dalle prime indagini risulta che la sera precedente, nella bottega di Francesco Federico, verso le 18,30, Cosentino è stato minacciato da una donna di facili costumi, tale Dati, da lui sollecitata pel pagamento di un debito di imposta. Quella stessa sera, però, Cosentino si è trattenuto anche nella bottega di Giuseppe Amendola insieme a Giuseppe Barletta, Domenico Oliva, Giovanni Squillace e Francesco Palmieri per porgere un saluto a Francesco Amendola, fratello di Giuseppe, il quale presta servizio militare e, venuto a Melissa per qualche giorno in breve licenza, doveva ripartire la mattina appresso per ritornare al suo Corpo in Bari. Tutti hanno bevuto parecchio e Cosentino ha raccontato agli amici che poco prima era stato a trovare una donna, ma non aveva potuto possederla per la presenza di altre persone, ma aveva ottenuto di baciarla fuori dalla casa e di farsi masturbare, restando in accordo che durante la notte sarebbe tornato da lei per goderla compiutamente.

Ai Carabinieri la cosa puzza e mettono in stato di fermo tutto il gruppo di amici, tranne ovviamente Francesco Amendola che è già partito per Bari.

– Mio cugino tempo fa mi confidò che era stato invitato in casa da Bombina, la moglie di un militare… la donna – continua Roberto Cosentino – gli sarebbe caduta tra le braccia ma non aveva potuto possederla, sia per la presenza di altre persone, sia per l’ora poco propizia

Quindi il fatto sarebbe effettivamente avvenuto, ma in un giorno precedente all’omicidio. A questo punto anche Bombina entra tra i sospettati e viene fermata insieme ad un suo cognato. Vengono prese informazioni anche sul conto del marito militare, ma lui non c’entra, era in servizio a centinaia di chilometri di distanza.

Poi il Brigadiere Fortunato Albo riferisce di avere appreso da certo Rosati, militare a Castellammare, che Giuseppe Amendola gli avrebbe detto: “se l’omicidio è stato commesso dalla persona che so io, non sarà scoperto, ma se a commetterlo sono state due persone, allora saranno trovati i responsabili”.

– Io? Io non ho mai detto una cosa del genere a nessuno! – nega Giuseppe Amendola.

– Certamente il Brigadiere si è sbagliato – dice Rosati – non me lo ha detto Amendola, ma Antonio Polito…

Anche Antonio Polito nega di aver mai detto quella frase e alla fine il Brigadiere Albo è costretto ad ammettere:

– Me l’ha detto Rosati, ma non mi ha detto di averla appresa da Giuseppe Amendola o da altri…

Troppa confusione. Poi, il 6 giugno, i Carabinieri di Melissa scrivono al Pretore delegato alle indagini che i maggiori indizi cadono sulla Dati e su Giuseppe Amendola e che la causa del delitto deve ricercarsi in “fatti di donne”. Ma questa pista viene scartata perché la donna chiarisce che le sue minacce non avevano il carattere di serietà e le indagini proseguono in altre direzioni.

Mettendo sotto torchio gli amici del morto, i Carabinieri scoprono che a Melissa è opinione comune che tra Giacomo Cosentino e certa Angelina Calfa erano corsi intimi rapporti e che, pertanto, autore del delitto poteva essere stato il marito della donna. Ma anche questa pista non porta a niente per la mancanza di bastevoli indizi.

Altri sospetti sorgono su tale Michele Tortello, amante di Bombina, il quale avrebbe ucciso Cosentino per gelosia di quella donna.

– Bombina mi aveva promesso i suoi favori, ma io non l’ho voluta godere perché avevo saputo che è affetta da malattia venerea – Giura Tortello, ma per i Carabinieri scatta un campanello d’allarme quando, durante una perquisizione domiciliare, gli trovano una rivoltella Smith a cinque colpi, calibro 9, e che i proiettili, per il calibro e gli altri caratteri, sono identici a quello trovato nel torace dell’ucciso e ad un altro rinvenuto sulla strada di Mezzo nei pressi del luogo dove fu consumato il delitto. E anche questa volta i Carabinieri insistono nel loro convincimento che il delitto sia stato causato da “fatti di donne”. Tortello finisce nel carcere di Cirò, dove sono rinchiusi tutti gli altri sospetti.

Che possa davvero trattarsi di “fatti di donne” è presumibile anche dalla considerazione che la sera del delitto nessun incidente era avvenuto in quella riunione di amici, tranne un lievissimo screzio tra Giuseppe Amendola e Cosentino per via della richiesta di quest’ultimo di avere in regalo una bottiglia vuota di vermouth, quella trovatagli addosso, negatagli in un primo tempo da Giuseppe Amendola e poi concessagli per intercessione di suo fratello Francesco. Adesso, però, gli inquirenti fermano l’attenzione sulla riunione per capire gli ultimi spostamenti di tutti gli appartenenti al gruppo, vittima compresa. A che ora è finita?

– Prima di mezzanotte e ognuno se ne è andato per i fatti suoi – assicurano tutti concordemente. Giuseppe Amendola, però, aggiunge:

Rincasati gli altri, io, mio fratello Francesco, Oliva e Cosentino siamo giunti insieme presso la mia abitazione. Quivi Oliva e Cosentino si sono fermati a chiacchierare per una quindicina di minuti e poi sono andati via pigliando vie opposte. La mattina dopo Oliva mi ha informato del delitto

Secondo questa affermazione, Giacomo Cosentino sarebbe rimasto da solo verso mezzanotte e mezza. Cosa ha fatto nelle tre ore successive?

Intanto Domenico Oliva conferma le parole di Giuseppe Amendola, ma altri testimoni ascoltati assicurano di averlo sentito dire di essere andato via con Cosentino dalla casa di Giuseppe Amendola verso le ore 3, di essersi accompagnato con quello fino alla piazza dove si erano fermati a fumare una sigaretta, quindi Cosentino era salito verso casa sua e lui si era trattenuto a soddisfare un bisogno corporale sotto la piazza; in quel mentre aveva sentito esplodere un colpo di rivoltella e poi altri due e gridare “Mamma mia!”. Impaurito, era scappato a casa togliendosi le scarpe per non fare rumore. Da approfondire.

Francesco Amendola, interrogato a Bari, non si allontana dalle dichiarazioni di suo fratello e di Oliva e aggiunge che alla riunione era presente anche lo studente Francesco Li Donnici.

– Si… ammetto che la riunione si protrasse fino alle tre del mattino – confessa Oliva, che aggiunge – Squillace era andato già via; Barletta, Palmieri e Li Donnici erano rimasti. Io, Cosentino e i fratelli Amendola ci accompagnammo, chiacchierando, fino all’abitazione di costoro, dove ci trattenemmo per un’altra decina di minuti circa. Giuseppe si sentiva male per il vermouth bevuto e si buttò subito sul letto. Io e Cosentino abbiamo preso commiato per rincasare, ma essendosi Cosentino fermato sulla soglia a discorrere con Francesco Amendola, io mi allontanai. Giunto sulla piazza sentii la necessità soddisfare un bisogno corporale e, mentre ero accovacciato sotto il muro della chiesa, sentii passare due persone che per la Via di Mezzo procedevano verso la parte alta del paese. Dopo meno di dieci minuti sentii una prima detonazione seguita dal grido “Mamma mia!” e subito dopo altri due colpi. Quindi percepii un calpestio affrettato in direzione della casa degli Amendola… preso da paura mi tolsi le scarpe e scappai a casa seguendo la strada sottostante all’abitazione degli Amendola, senza incontrare nessuno

Certo che soddisfare il bisogno corporale deve essere stato particolarmente complicato per Oliva, visto che, come ha raccontato, impiegò circa un quarto d’ora! Comunque, con questa nuova versione dei fatti le indagini, forse, prenderanno la direzione giusta e i sospetti principali adesso ricadono sul militare Francesco Amendola, soprattutto per l’atteggiamento assunto in carcere da Giuseppe Amendola il giorno seguente all’arresto di Tortello e delle donne che erano state fermate: avvertito che in Melissa già si diceva che ad uccidere Cosentino erano stati lui e il fratello, dopo aver pensato un poco, dichiara che autore del delitto è stato proprio il fratello Francesco, ancora in servizio militare a Bari. Interrogato di nuovo, Giuseppe però specifica:

– È stato lui, ma non conosco la causa del delitto. Quella notte, verso le 3,30 o 3,45, mio fratello ritornò a casa “concitato” e sconvolto; spontaneamente mi disse che era in quello stato perché, avendo avuto delle parole col Cosentino, in un momento d’ira gli aveva sparato, uccidendolo

L’accusa di Giuseppe Amendola però cozza con tutte le dichiarazioni acquisite finora perché nessuno ha riferito di contrasti tra Francesco Amendola e Giacomo Cosentino. Soprattutto non l’hanno detto né suo fratello Giuseppe e né Oliva, gli ultimi ad aver visto vivo Cosentino. Che abbiano litigato una volta rimasti da soli? Potrebbe essere, ma sarebbe molto strano perché se così fosse stato, qualcuno avrebbe potuto e dovuto sentire il litigio tra i due. Interrogate di nuovo tutte le persone, Oliva compreso, che hanno udito quel “Mamma! Mamma mia!” urlato da Cosentino prima di essere ammazzato, tutti sono concordi nell’affermare di non avere sentito altro che ciò che hanno raccontato.

Francesco Amendola viene arrestato e si dichiara innocente, ripetendo fino alla noia la stessa identica versione dei fatti:

Io, mio fratello Giuseppe, Oliva e Cosentino siamo giunti insieme presso la nostra abitazione. Oliva e Cosentino si sono fermati a chiacchierare per una quindicina di minuti e poi sono andati via pigliando vie opposte

A questo punto, siamo al 12 luglio 1943 e sono passati poco più di due mesi dal fatto, Giuseppe Amendola ritratta l’accusa contro suo fratello, tornando alla sua prima versione dei fatti, chiarendo anche un punto rimasto oscuro finora: come mai tutti i partecipanti alla riunione hanno dichiarato che questa è terminata prima di mezzanotte, mentre Oliva e i due Amendola adesso dicono che è finita alle tre di notte?

Ci eravamo messi d’accordo, in un primo momento, per dire che la riunione era finita verso mezzanotte al fine di evitare che l’Autorità avesse potuto disporre la chiusura del locale

– E perché avete accusato vostro fratello?

Sono stato indotto a ciò da Tortello, il quale mi promise di testimoniare in mio favore, scagionandomi… e poi perché, per futili motivi, qualche volta mi sono accapigliato con Francesco al quale, per tali contrasti, ho voluto recar male

Bene! Complimenti!

Viene interrogato di nuovo Domenico Oliva, che continua a sostenere la sua versione, accusando più o meno velatamente Francesco Amendola. Ma adesso gli inquirenti focalizzano l’attenzione anche su di lui e notano delle stranezze: come mai quando ha lasciato la casa degli Amendola per tornare alla sua abitazione, è andato verso la piazza che è nella direzione opposta? Possibile che per soddisfare un bisogno corporale non corse a casa, allungando il tragitto? Possibile che sia rimasto accovacciato quasi un quarto d’ora? Qualcuno lo ha visto? Bisogna certamente approfondire, ma intanto spunta una testimone, indicata dalla parte civile, la quale giura di aver sentito, oltre l’invocazione di Cosentino, anche un’altra frase: “Compare, spara un altro colpo perché ancora è vivo!”. Ecco, allora la soluzione è semplice: siccome Domenico Oliva e Francesco Amendola si danno del “compare”, gli assassini sono loro due con il concorso di Giuseppe Amendola. Questo assunto è corroborato anche da alcuni testimoni che escono solo adesso allo scoperto.

– Quando sollevai la coperta che copriva il cadavere di Cosentino, Francesco Amendola fece un gesto stizzoso

– La mattina del 22 maggio, rispondendo alle mie contestazioni, Oliva mi confessò la propria colpevolezza dicendo: “Ma non sono stato io solo…”

In base a questi elementi i fratelli Amendola e Domenico Oliva vengono rinviati al giudizio della Corte d’Assise di Catanzaro. Il 13 dicembre 1944 la Corte, seguendo le richieste del Pubblico Ministero per quanto riguarda Giuseppe Amendola e Domenico Oliva e discostandosene per Francesco Amendola, assolve tutti e tre per insufficienza di prove.

Il Pubblico Ministero non ci sta e fa ricorso per Cassazione contro la sentenza e la Corte gli dà ragione, cassandola per la parte relativa a Francesco Amendola perché affetta da perplessità, incoerenza, illogicità e manchevolezza di motivazione per non avere tenuto presenti tutte le circostanze risultanti dagli atti e, infine, per essere pervenuta a deduzioni che non sempre rappresentano le giuste conseguenze dei vari fatti esaminati.  Una vera e propria stroncatura! La parola adesso passa alla Corte d’Assise di Cosenza che dovrà riesaminare il caso.

Il 22 ottobre 1948 è il giorno del giudizio.

Per un sereno ed esatto giudizio giova, fin dal principio, tenere presente che tra gli Amendola e il Cosentino non vi era mai stata una qualsiasi ragione di odio o di rancore, un qualsiasi contrasto che avesse potuto funzionare da motivo causale per la preordinazione all’esecuzione del delitto, è l’esordio della Corte. Ciò vuol dire che l’ipotesi di un Francesco Amendola omicida postula necessariamente una causa improvvisa ed occasionale, sorta inopinatamente nel brevissimo tempo trascorso tra il momento in cui Oliva si sarebbe allontanato dall’abitazione degli Amendola e quello in cui il delitto fu consumato. È una strada molto, molto stretta quella che la Corte deve percorrere per arrivare a un giudizio che non presti il fianco, in un caso o nell’altro, ad ulteriori stroncature. Per questo la Corte comincia un attento esame di tutti quei particolari e indizi che o non sono stati affatto esaminati, nemmeno in fase istruttoria, o non sono stati abbastanza approfonditi, correlandoli all’ipotesi del delitto d’impeto. Per esempio: Francesco Amendola ripartì perché aveva terminato la licenza o rientrò volontariamente al Corpo di appartenenza per cercare di sfuggire alle indagini?

Egli aveva chiesto una proroga della licenza concessagli, ma il provvedimento invocato non gli era stato ancora comunicato e poiché si era in tempo di guerra, egli doveva partire la mattina del 29 maggio e non poteva attendere ancora la chiesta proroga, senza correre il rischio di essere dichiarato disertore. Pertanto non può esservi dubbio che, quando la sera del 28 maggio 1943 Francesco Amendola manifestava agli amici l’intenzione di partire la mattina seguente per rientrare al Corpo, egli era perfettamente sincero, né poteva pensare a preordinare la partenza in considerazione del delitto da compiere. Risulta manifesta, per tali considerazioni, l’inconsistenza dell’indizio che si volle trarre contro l’imputato dal fatto che egli sia partito la mattina del 29 maggio, mentre solo in seguito gli pervenne a Melissa la comunicazione della proroga della licenza. Indizio smontato.

Adesso la Corte esamina altri due aspetti molto controversi: il gesto di stizza davanti al cadavere e la dichiarazione, sibillina, che il fratello Giuseppe avrebbe fatto sull’autore o sugli autori del delitto.

Non maggiore consistenza ha l’altro indizio. Il gesto di stizza, cioè l’atto di mordersi un dito, a seguito della ripetizione del gesto compiuto dal testimone in udienza, diventa una manifestazione di raccapriccio e di commiserazione. Fu un gesto di dispetto e di minaccia? E perché Amendola avrebbe dovuto compierlo? Un Amendola colpevole non avrebbe avuto altro interesse che quello d’assumere un comportamento che non tradisse la sua colpevolezza, un comportamento che non lo differenziasse dagli altri amici presenti. E due.

La persona che il fratello Giuseppe “sapeva” era il fratello Francesco per la confessione da lui fattagli? Potrebbe essere, ma non vi sarebbe al riguardo nessuna certezza. Né può sfuggire, poi, la mancanza di una qualsiasi ragione per la quale, solo nell’ipotesi nella quale il delitto fosse stato compiuto da più persone potesse attendersi che ne venissero scoperti gli autori, sicché tutto il fatto, se anche fosse vero, (e ne manca invece assolutamente una prova attendibile) sarebbe aduggiato da tante ombre, che nessuna luce se ne potrebbe sperare. E tre.

Alcuni indizi non sono particolari a Francesco Amendola, ma comuni a tutti quelli che con lui furono imputati e che, tuttavia, furono assolti su conforme richiesta del Pubblico Ministero. E quattro.

Chi è pratico dell’ambiente [giudiziario] non si stupisce più delle esagerazioni delle parti civili nei processi di Assise, né della deplorevole facilità con cui esse riescono a procurarsi deposizioni compiacenti o, addirittura, false. Un esempio è offerto, in questo procedimento, dalle dichiarazioni di Annina Fella, che avrebbe inteso, dopo le esplosioni e il grido di Cosentino, le parole: “Compare, spara un altro colpo perché ancora è vivo!”. La circostanza da lei esposta non ha alcun peso perché Oliva, che dovrebbe essere il compare degli Amendola è stato assolto, perché egli risulta non essere legato da vincoli di parentela spirituale con gli Amendola e perché, infine, come ha deposto il Maresciallo Caruso, a Melissa tutti si chiamano compari. Ma la falsità della Fella è dimostrata dal suo comportamento anteriore alla deposizione, dal fatto che gli elementi più certi del processo stanno ad indicare che autore del delitto sia stato un solo individuo e, infine, dalla circostanza che quelle parole non furono intese da alcun altro teste, neppure da quelli che erano svegli e abitano proprio nei pressi del luogo dove si svolse la scena di sangue, mentre l’abitazione della Fella resta a ben 70 metri da quel luogo. E cinque.

A questo punto, a carico di Francesco Amendola resta solo l’accusa, poi ritrattata, rivoltagli da suo fratello Giuseppe. Ritrattata dopo lungo tempo, specifica la Corte, durante il quale si trovò in carcere con Francesco, ne evasero tutti e due per i bombardamenti operati sulla città di Crotone, si costituirono e furono riarrestati. L’accusa fu ritrattata solo dopo otto mesi, ma tra il momento in cui fu fatta, 22 giugno 1943, e quello della ritrattazione, gli eventi bellici, l’invasione della Calabria, l’evasione a seguito dei bombardamenti, non fornirono a Giuseppe Amendola occasioni favorevoli per farsi nuovamente interrogare dall’Autorità Giudiziaria. Al riguardo giova subito chiarire che, seguendo l’insegnamento del Supremo Collegio, la Corte reputa che né la verosimiglianza, né la probabilità siano bastevoli a fondare la convinzione del giudice, anche quando elementi contrari non ne dimostrino già la fallacia ma sia, invece, necessaria la certezza tranquillizzante dei fatti e delle responsabilità. Ora, l’accusa non solo non fornisce alcuna certezza della colpevolezza dell’accusato, ma non ne offre neppure una incontrastata verosimiglianza o una troppo rimarchevole probabilità. E sei.

Ormai dovrebbe essere abbastanza chiaro che la Corte di Assise di Cosenza la pensa esattamente come quella di Catanzaro, con la differenza che smonta ogni singolo indizio e ne spiega il perché. Poi critica il modo in cui furono condotte le indagini e arriva alle sue conclusioni:

Ombre non dissipabili, dubbi non vincibili negano la certezza necessaria per condannare. Le condizioni in cui fu trovato Cosentino fanno ragionevolmente pensare che egli sia stato ucciso nel momento in cui si apprestava al coito, per la sorpresa di un rivale o di un parente geloso. In tale via si mosse per non breve tempo l’opinione della Polizia Giudiziaria e forse fu un errore allontanarsene. Quanto è stato finora esposto chiarisce abbastanza che se Francesco Amendola non è stato raggiunto da prove bastevoli per la condanna, sussistono tuttavia a suo carico elementi tali da non consentirne l’assoluzione con formula piena, ma con quella per insufficienza di prove e ne ordina la scarcerazione, se non detenuto per altra causa. È l’11 novembre 1948.

Ma anche questa volta il Pubblico Ministero non è convinto della bontà della sentenza e ricorre nuovamente. Il 9 marzo 1953 la Suprema Corte di Cassazione rigetta il ricorso.[1]

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.

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