254 LIRE

Il pomeriggio del 1 giugno 1893, dopo una giornata di duro lavoro, alcuni operai addetti alla costruzione della galleria ferroviaria nei pressi di Cittadella del Capo si stanno divertendo al gioco delle stacce nella Spianata del Telegrafo tra Cittadella e Capo Bonifati. Si giocano qualche centesimo e quando il ventiquattrenne Antonio Pomo si accorge di non avere spiccioli in tasca, li chiede al suo collega Arcangelo Furfaro, ventiduenne minatore di Cittanova in provincia di Reggio Calabria. Furfaro caccia dalla tasca della giacca il portamonete, prende degli spiccioli, li porge all’amico e se lo rimette in tasca. Accanto a lui c’è un bambino, Eduardo Niesi, che, distolto lo sguardo dal gioco, lo osserva sorridendo. Poco dopo Furfaro rientra a casa ma tutti lo vedono tornare indietro di corsa

– Ho perduto il portamonete con dentro 254 lire!

Pomo e gli altri per dimostrargli che nessuno di loro glielo ha preso si svuotano le tasche, mentre Furfaro comincia a guardare con sospetto il piccolo Eduardo

Tu i pigghiasti! Caccia li sordi!

Eduardo fa segno di no con la testa e indietreggia, mentre Furfaro avanza verso di lui minacciosamente, poi lo afferra e gli urla in faccia di ridargli i soldi. Il bambino fa di nuovo segno di no con la testa. Ha paura. Furfaro lo scuote violentemente e gli dice che se non gli ridà i soldi andrà in galera e non uscirà più, piccolo fottuto ladro!

Eduardo piange e promette di dire la verità se lo lascerà andare, così con la minaccia del carcere dice che a prendere il portamonete è stato il suo fratellino minore di appena 18 mesi e che lo ha portato a casa e perciò il Furfaro si era fisso in mente che la somma perduta dovea averla il padre del ragazzo, Salvatore Niesi, e giurò fin d’allora di disfarsi di costui.

La mattina successiva Salvatore Niesi accompagna Eduardo dai Carabinieri di Belvedere Marittimo e Furfaro, vedendoli passare, se ne lamenta con alcuni vicini di casa pronunciando parole minacciose contro il Niesi. Pietro Lieri, un operaio che lavora con lui, lo sente ed esce di casa ed avvicinatosi a quel crocchio lo rimprovera

Oramai vi è la giustizia e non bisogna farsi giustizia da sé

Fosse meglio che avesse un braccio mancante che tenersi il mio denaro! – gli risponde adirato

– Ma lascia stare, se la vedrà con la giustizia!

Lì per lì sembra che le cose si calmino, ma verso sera Lieri lo sente di nuovo profferire delle minacce di morte e di nuovo, con grande pazienza, cerca di calmarlo e di dissuaderlo dal suo pravo disegno. Tutto inutile, Furfaro è più in collera che mai e gli risponde

Con i miei danari non mariterà sua figlia… si è chiuso in casa ma finalmente deve uscire!

Lieri è seriamente preoccupato e pensa bene di avvisare delle minacce il fratello di Salvatore, Annibale, il quale però non sembra dargli molto peso.

Salvatore da parte sua, sollecitato da alcuni vicini a restituire le 254 lire, risponde per le rime, niente affatto preoccupato delle minacce di morte

Se me le chiede sarà la sua o la mia, perché nulla so di tale denaro che costui pretende – volendo significare che è pronto anche lui ad uccidere il rivale o ad essere ucciso

È la mattina del 3 giugno Salvatore va in campagna con la sua primogenita, la quattordicenne Maria. Arcangelo invece a lavorare non ci va e ciondola per tutta la mattina nella Spianata del Telegrafo, fermandosi ora all’ombra di un albero, ora poggiandosi ai muri delle case.

Francesca Liparoti sta sfaccendando in casa quando lo nota appoggiato accanto ad una finestra di casa sua con una rivoltella in mano e siccome dinnanzi a lui nella via ci sono le sue figliolette che si trastullano, compresa da timore, lancia un urlo e ottiene che Furfaro si allontani da lì, avviandosi, sempre con la rivoltella in mano, lungo la strada per Torrevecchia, la stessa che la mattina hanno imboccato Salvatore e sua figlia Maria.

Salvatore e Maria stanno tornando a casa quando, arrivati all’altezza della prima casa sulla Spianata del Telegrafo, Arcangelo Furfaro sbarra loro la strada e afferra l’avversario per le braccia dicendogli

Dammi il danaro, ce lo dividiamo altrimenti io muoio di fame

Và lavora curnutu se vuoi denaro! – gli risponde divincolandosi dalla stretta e nel far ciò lo colpisce con la mano sul viso. Furfaro allora mette mano ad un coltello, e lo colpisce. Lo colpisce quattro volte al petto e una coltellata gli trafigge il cuore. Poi scappa. Salvatore strabuzza gli occhi e con passo incerto cerca di andargli dietro, riesce finanche a prendere dalla cintola l’accetta che gli serve in campagna e a tirargliela dietro, ma le forze se ne sono andate come se ne sta andando la sua vita e cade riverso a terra, mentre Maria urla al soccorso. Accorre gente e a braccia viene portato a casa

Sono morto… – dice a fatica, poi reclina il capo e muore.

Intanto i presenti sono tutti concordi nell’affermare che Arcangelo Furfaro mentre fuggiva aveva in mano un revolver, forse per proteggersi nel caso in cui qualcuno gli avesse sparato qualche fucilata, nessuno può dirlo con certezza.

I Carabinieri di Belvedere Marittimo, guidati dal Maresciallo Giovanni Tinti si mettono subito sulle tracce del fuggitivo ma senza alcun esito. Perquisiscono minuziosamente anche la casa di Salvatore Niesi alla ricerca delle 254 lire e anche questo è un insuccesso perché in casa non c’è niente e niente c’è nelle tasche della vittima. Il movente è chiarissimo, ciò che invece suscita subito dei forti dubbi è se si possa prestare fede alla dichiarazione di un bambino di 10 anni, ottenuta attraverso pesanti minacce, che accusa il fratellino di 18 mesi, un’età in cui a malapena si sta in piedi.

Intanto i giorni passano e Arcangelo è sempre uccel di bosco. Poi, finalmente, il 29 giugno bussa alla porta della Pretura di Belvedere Marittimo e si costituisce nella mani del Vice Pretore, consegnandogli anche un coltello a serramanico lungo centimetri 6 ½, asserendo essere quella l’arma omicida

Mi sono presentato spontaneamente per non essere arrestato – attacca con spavalderia, poi continua –. Dichiaro di essere stato io l’autore dell’omicidio in persona di Salvatore Niesi, però a mio discarico debbo manifestare alla giustizia che fui costretto a commettere il fatto vedendomi aggredito dal Niesi che prima mi prese a schiaffi e poi mi tirò vari colpi con una scure, che evitai, dalla figlia ed indi dal fratello dell’ucciso, Annibale, e da altri due a nome Luigi Mauro e Lospennato Luigi, che credo amici dell’ucciso. La causa del fatto si è che il figlio dell’ucciso mi aveva rubato un portamonete contenente la somma di lire 254 e cinque bottoni di matreperla per camicia. Io, che avevo raggranellato quelle monete lavorando presso la galleria in quelle vicinanze della linea Eboli-Reggio, non avendo altro per potere tirare la vita giornaliera, cercai tutti i mezzi perché mi si restituisse la moneta rubatami, ma non solo non m’è stata restituita, ma ancora ne dovetti sentire delle buone dall’ucciso, il quale era già divenuto padrone della somma, poiché consegnatagli dal figlio, come questi dichiarò davanti al Sindaco locale, le cui insistenze non valsero a persuadere l’ucciso alla restituzione della somma. Io, non avendo da mangiare e non trovando lavoro nei giorni successivi, ero in uno stato miserevole e quella moneta era per me la cosa più cara. L’ucciso mi mostrava il broncio perché chiedevo il mio, che non ho potuto più avere

– Avevi anche una rivoltella oltre al coltello?

Non avevo altre armi indosso

Ma la sua versione non regge. Nessuno dice di aver visto sul luogo del delitto Annibale Niesi, né tantomeno i due fantomatici Mauro e Lospennato che non vengono nemmeno citati come testimoni, come non viene interpellato nemmeno il Sindaco di Bonifati. Insomma, può bastare così. L’istruttoria può essere chiusa con la richiesta di rinvio a giudizio dell’imputato presso la Corte d’Assise di Cosenza con l’accusa di omicidio volontario aggravato dalla premeditazione, ma siccome tutto è partito dal presunto furto ad opera del piccolo Eduardo, anche lui è destinatario di una denuncia con l’imputazione di furto con destrezza!

Il Pubblico Ministero nella sua relazione non ha dubbi: Poiché dagli atti completati emerge accertato che a primo giugno ultimo Arcangelo Furfaro smarrì o fu derubato di un portamonete contenente lire 254 e ne attribuì il furto al giovinetto Eduardo Niesi il quale, interrogato, recisamente sulle prime fu negativo e poscia, minacciato, disse di aver visto un portamonete in potere di un suo fratellino (di 18 mesi di età. Nda). Che procedutosi a perquisizione in casa del Niesi nulla vi si rinvenne e ciò non pertanto il Furfaro voleva essere indennizzato della somma dal padre di esso Niesi. Quindi chiede non esser luogo a procedimento penale per insufficienza d’indizi nel rapporto di Eduardo Niesi.

La Camera di Consiglio è altrettanto chiara nel suo parere: Gl’indizi a carico di Niesi Eduardo non autorizzano a rinviarlo in pubblico giudizio essendo insufficienti a formare il convincimento della reità di lui. E meno male, perché al contrario un bambino di 10 anni avrebbe subito un processo e nel frattempo sarebbe stato rinchiuso in una cella con fior di delinquenti.

Il 6 dicembre 1893 si apre e si chiude il dibattimento a carico di Arcangelo Furfaro. La giuria, nell’emettere il verdetto di colpevolezza nega tanto l’aggravante della premeditazione che l’attenuante della legittima difesa, come richiesto dalla difesa, ma ammette l’attenuante di aver commesso il fatto nell’impeto d’ira o di intenso dolore determinato da una  grave provocazione, nonché delle attenuanti generiche, essendo l’imputato incensurato. Tradotto in cifre ciò significa che ritenendo equo partire dal minimum della pena prevista per il reato di omicidio, cioè 18 anni di reclusione, questa debba essere diminuita della metà in virtù dell’attenuante della provocazione grave e di un altro sesto per le attenuanti generiche, cioè un anno e sei mesi. Fatte le dovute sottrazioni, rimangono anni sette e mesi sei di reclusione, più le pene accessorie.[1]


[1] ASCS, Processi Penali.

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