
È il 26 marzo 1896, all’ora del vespro, il ventenne Giosuè Ferrari sta passeggiando con il ventitreenne Ottavio Silvagni a Savuto di Cleto. Quando arrivano davanti alla cantina di Gennarino Senatore, cognato di Ottavio, trovano costui che sta discorrendo con Domenico Muraca; dalla chiesa giungono i rintocchi della campana che chiamano i fedeli ad andare ad ascoltare la predica del parroco e Muraca dice a Senatore:
– Vuoi venire a sentire la predica?
– Che predica e predica mi vai dicendo? Ce l’abbiamo da fottere questa predica e fesso è chi ci va! Io non credo che il nostro parroco sia capace di fare una buona predica! – gli risponde Senatore.
– Io, per me, credo il contrario – ribatte Muraca, che continua – fesso devi chiamare una persona presente e non chi è assente! Se poi vuoi chiamare fesso me, devi farlo quando mi trovo in contrada Timpone e non quando sono presente, perché qui non siete buoni a dirmelo ed io sono al caso di vedermela con chiunque!
– Io son buono a parlare di dietro e davanti, non ho inteso offendere te, ma sarei anche buono a difendermi! – ribatte Senatore.
È un vivace diverbio al quale Ottavio Silvagni rimane indifferente, mentre Ferrari se ne va proprio mentre sta passando il parroco e i due contendenti tacciono come d’incanto, salvo ricominciare non appena il sacerdote gira l’angolo e Domenico Muraca, forse casualmente, porta la mano alla cintura, vicino alla rivoltella.
– Gennarino, l’ha fatto due volte ed ora son tre, avanti per la madonna! – sbotta a questo punto Ottavio ed in un attimo sia lui che suo cognato afferrano Muraca, Ottavio davanti e Gennarino da dietro e lo spingono verso la porta di casa di Angela Filice. Gli avventori della cantina cercano di intervenire ma non riescono a far desistere i cognati dalla presa e sapendo che entrambi sono armati di rivoltella si allontanano, mentre arriva sul posto Tommasina Silvagni, sorella di Ottavio e moglie di Gennarino Senatore, che esclama:
– Date a me il rivolvero!
Mentre gli avventori si allontanano parte una scarica di colpi d’arma da fuoco e poi la voce di Ottavio Silvagni che, rivolto alla sorella, esclama:
– Difendi il sangue di tuo fratello!
Quindi un altro colpo di rivoltella e la voce di Domenico Muraca:
– Mi avete voluto uccidere… sono morto!
Dall’imboccatura del vicolo, alla scena ha assistito il quattordicenne Pietro Fera, nipote di Muraca, che si gira e corre verso casa dove prende il fucile a due colpi del padre e torna indietro. È ormai buio.
Dopo i colpi, Ottavio, Tommasina e Gennarino spariscono e nel vicolo, ormai deserto, di ritorno dalla chiesa arrivano Carmine Bruno e le due adolescenti Carolina Mastroianni e Rosaria Ianni. Trovano Muraca boccheggiante e cercano di soccorrerlo chinandosi su di lui. All’imbocco del vicolo, poco illuminato dalla luna per qualche istante coperta da una nuvola, arriva anche Pietro Fera col fucile e vede le sagome di tre persone chine sullo zio. Devono essere i fratelli Silvagni e Gennarino Senatore. Imbraccia il fucile, prende la mira e spara. Carmine Bruno cade fulminato, mentre le due adolescenti urlano terrorizzate buttandosi a terra: è la loro fortuna perché arriva la seconda scarica di grossi pallini che, passando in mezzo a loro, le ferisce, una al braccio destro e l’altra al braccio sinistro. Carolina si gira e vede benissimo il viso di Pietro Fera e lo scintillio delle canne del fucile, colpiti in pieno dai raggi della luna. Poi più niente perché anche Saverio sparisce nel buio.
Ma possibile che una banale discussione sulla capacità o meno del parroco a fare una predica dal pulpito ha causato due morti e due feriti? È questa la domanda che si pongono gli inquirenti e le parole dette da Ottavio Silvagni a sua sorella Tommasina – Difendi il sangue di tuo fratello – lasciano pensare che dietro c’è dell’altro. E infatti c’è dell’altro: due anni prima il sedicenne Francesco Silvagni, fratello di Ottavio e Tommasina, di ritorno dalla Pretura di Aiello dove aveva testimoniato contro Giuseppe Muraca, fratello di Domenico, fu ucciso da questi con due colpi di rivoltella, ragion per cui Muraca fu processato con l’accusa di omicidio premeditato e condannato a diciassette anni di reclusione. Una vendetta trasversale messa in atto alla prima occasione utile. Ma si scopre anche che Domenico Muraca all’epoca dell’omicidio di Francesco Silvagni era emigrato in Africa e non appena rientrò in paese – circa nove mesi prima di essere ucciso a sua volta –, supponendo che Ottavio Silvagni nutrisse contro di lui del rancore, lo avvicinò e gli fece comprendere che egli non aveva alcuna colpa per l’omicidio di Francesco, commesso in sua assenza, motivo per cui doveva regnare tra loro la pace. Ma evidentemente il tentativo di pacificazione non è riuscito.
E se adesso si può ipotizzare un movente serio per l’omicidio di Domenico Muraca, restano da risolvere altri problemi, primo tra tutti capire chi esplose il colpo fatale. Poi bisogna rintracciare e arrestare i tre del clan Silvagni e Pietro Fera, anche lui datosi alla macchia. Questa situazione crea molto imbarazzo agli inquirenti, anche perché si trovano davanti alle vibranti proteste dei cittadini di Savuto che sottoscrivono lettere di fuoco al Procuratore del re accusando tanto i Carabinieri che il Pretore di usare un occhio di riguardo – Per il potente non vi è legge, scrivono – nei confronti del clan dei Silvagni e denunciando che i latitanti ogni notte vengono in Savuto, ma ciò poco importerebbe; lo scandalo è che diverse volte il signor Ottavio Silvagni è venuto di giorno armato di fucile e, tra le altre cose, la sera del 18 aprile prima è stato in sua casa, poi è sceso col due colpi in mano, pronto a far fuoco, ha chiamato il parroco Cesare Fera, l’ha condotto dentro il botteghino e ha conversato con questo circa un quarto d’ora. Assieme all’Ottavio vi era un altro di Cannavali, pure col due colpi in mano, che Ottavio lasciò di guardia dandogli ordine ad alta voce di sparare se vedesse qualcuno. Poi sostengono che l’omicidio di Domenico Muraca è stato premeditato e la prova la darebbero due testimoni, Maria De Cicco e suo marito Giovanni Bruno, i quali più di una sera ànno veduto Gennarino Senatore ed Ottavio Silvagni appiattati sotto l’abitazione del fu Domenico Muraca e, attraverso quello che avrebbero loro rivelato tre avventori della cantina presenti al momento dell’omicidio, ricostruiscono come sarebbero andati i fatti: dopo che Senatore avea pria tenuto il Muraca ed il cognato sparatogli sei colpi, gliene sparò lui Senatore altri quattro e poi fuggì in casa, prese il due colpi e cercava di ritornare dicendo che era in dubio e reputava Muraca vivo e perciò doveva ucciderlo, ma fu trattenuto di Odoardo Pucci Daniele, Gaetano Mancuso e Alessandro Daniele. Questi tre testimoni, proprio ieri sera, ànno detto che se fossero chiamati e forzati a manifestare la verità, la manifesterebbero. Dunque li testimoni vogliono messi a paura. I sottoscrittori delle lettere continuano paragonando ironicamente i latitanti Silvagni ad una banda di briganti perché a Ciccio Mileti ci ànno mandato cercando formaggio, al parroco formaggio, a Geniale Rocco formaggio e grano e con ciò si vede che il formaggio per loro è uno squisito pranzo e siamo ritornati finalmente ai tempi del “mandami sinnò…”. Denunciano ancora che quattro testimoni convocati in Procura non hanno detto ciò che sanno perché vogliono stare in pace.
Secondo i sottoscrittori la ventunenne Tommasina Silvagni non avrebbe partecipato all’omicidio, ma la sua posizione si aggrava quando prima la madre di Muraca, poi Gaetano Mancuso e infine Salvatore Nigro raccontano al Giudice Istruttore:
– Prima di morire mio figlio mi disse che il colpo mortale gli fu tirato da Tommasina Silvagni.
– Ero vicino a casa mia quando intesi l’esplosione di un colpo di rivoltella ed indi una scarica di replicati colpi della stessa arma e dopo l’intervallo di cinque o sei minuti due forti detonazioni che mi sembrarono di fucile. Subito corsi alla volta della mia casa e m’incontrai con Domenico Muraca che, gravemente ferito, era trasportato sotto le braccia da vari individui. In quel momento vidi Tommasina Silvagni che col suo fratello Ottavio entrava in sua casa. la stessa mi chiamò e mi disse “io ho ammazzato Domenico Muraca correndo in difesa di mio fratello, perché il fratello Giuseppe, due anni or sono, uccise mio fratello Francesco”. Dopo ciò si rinchiuse con Ottavio in casa ed io proseguii il cammino, trovando ucciso a terra Carmine Bruno. Dopo appresi che era stato ucciso per sbaglio da Pietro Fera, nipote di Muraca – dice Gaetano Mancuso.
Infine Salvatore Nigro racconta la dinamica dell’omicidio a cui ha assistito:
– Ottavio Silvagni trovavasi presente al diverbio tra Gennarino Senatore e Domenico Muraca. Silvagni, nel vedere che Muraca, non so se casualmente oppur no, accostò la mano alla rivoltella che gli pendeva dal fianco e la spinse indietro, disse a Senatore “Gennarino, costui ha fatto per ben tre volte questo movimento, dunque avanti!” e in men che non si dica gli furono entrambi addosso e lo spinsero verso la porta di Angela Filice. Nel mentre Senatore manteneva Muraca, Silvagni gli strappò la rivoltella che aveva al fianco e gli scaricò contro tutti i colpi. In tal mentre accorse Tommasina Silvagni e Ottavio le disse “Aiuta ché è il tempo di pagare il sangue di nostro fratello!” e nel dire ciò le passò la sua rivoltella, di cui era anche armato. Tommasina prese la rivoltella e mentre Muraca era a terra gli esplose un colpo alla pancia. Poscia tutti e tre andarono a rinchiudersi nella loro casa. Tutto ciò io intesi e vidi dalla mia casa, che è a pochi passi di distanza.
Pochi giorni dopo l’arrivo delle lettere, il 27 aprile 1898, Tommasina Silvagni si costituisce e, interrogata dal Giudice Istruttore, racconta la sua versione:
– Nelle ore pomeridiane del 26 marzo, mentre io ero in casa mia, intesi un tafferuglio in mezzo alla strada. Subito mi feci sulla porta e domandai a quelli che passavano cosa vi fosse e mi fu risposto che mio fratello Ottavio si stava quistionando. Io subito accorsi, ma m’incontrai con mio marito Gennaro Senatore il quale m’impose di ritornare in casa, ove rientrai insieme con lui. Io pensai di evitare la vigilanza di mio marito ed uscii novellamente e mentre mi dirigevo ove più o meno poteva essere la quistione, intesi un colpo di arma da fuoco. Arrivata presso mio fratello, vidi che si colluttava con Domenico Muraca, il quale teneva impugnata una rivoltella. Io, per non fare offendere mio fratello, cercai di strappargliela e mentre facevo tutti gli sforzi possibili esplosero casualmente vari colpi di rivoltella e non so se andarono o meno a ferire Muraca. Dopo ciò mi ritirai a casa con mio fratello e intesi l’esplosione di tre colpi di arma da fuoco e posteriormente mi fu detto che erano stati esplosi da Pietro Fera ed era rimasto ucciso Carmine Bruno. Mi dichiaro quindi innocente.
– Se è così, perché siete rimasta latitante per un mese?
– Se mi diedi alla latitanza non lo feci perché mi credetti responsabile della morte di Muraca, ma lo feci per esservi stata spinta da persone del paese, le quali mi consigliarono di allontanarmi dandomi ad intendere che sarebbero venuti i Carabinieri ad arrestarmi.
– A noi risulta che siete intervenuta quando vostro fratello aveva già esploso dei colpi di rivoltella contro Muraca, rivoltella che gli aveva tolto e che, vedendovi, vi disse “difendi il sangue di tuo fratello” e voi sparaste un colpo contro Muraca, confessate!
– Non è vero! Chi ciò dice mentisce e prova ne sia che io non portavo rivoltella con me e né mio fratello mi porse la sua!
– Perché Ottavio litigava con Muraca?
– Lo ignoro. Ottavio era stretto in intima amicizia con Domenico Muraca, malgrado che un suo fratello avesse, due anni fa, ucciso nostro fratello Francesco.
– Avete ucciso voi Muraca? Abbiamo un testimone che afferma di avervi sentito dire “ho ucciso io Muraca perché il fratello uccise mio fratello”. Come la mettiamo?
– Ripeto che non ebbi alcuna parte nell’omicidio e quindi non potevo dichiararmi responsabile.
L’11 maggio 1896 i Carabinieri sorprendono il quattordicenne Pietro Fera nelle campagne intorno a Savuto e lo arrestano.
– Non posso negare di avere, la sera del 26 marzo scorso, ucciso a colpi di arma da fuoco Carmine Bruno e ferito Carolina Ianni e Rosaria Alice, ma ciò feci perché quella stessa sera avevo visto mio zio Domenico Muraca trattenuto da Gennarino Senatore e fatto bersaglio a colpi di rivoltella da Ottavio Silvagni. Io corsi a casa, mi armai di due botte, uscii frettoloso e quando fui vicino di circa venti passi dal luogo dove mio zio stava disteso a terra vidi che un uomo gli stava sopra piegato. Credendo che fosse Silvagni o Senatore esplosi i due colpi che cagionarono la morte di Carmine Bruno e le lesioni alle due giovinette. Se avessi saputo che quel pover’uomo non era alcuno dei due offensori di mio zio, certamente non avrei sparato per uccidere un innocente.
Passano altri tre mesi ma di Ottavio Silvagni e Gennarino Senatore ancora non si hanno notizie, nonostante l’istruttoria sia stata chiusa e la Sezione d’Accusa, il 6 agosto 1896, abbia emesso la sentenza con la quale Ottavio e Tommasina Silvagni vengono rinviati a giudizio per rispondere di omicidio volontario, Gennarino Senatore per concorso in omicidio volontario e Pietro Fera per omicidio volontario commesso per errore e lesioni personali con arma. Ad occuparsi del caso sarà la Corte di Assise di Cosenza nell’udienza fissata per il 18 ottobre 1896.
Ma quattro giorni dopo l’emissione della sentenza di rinvio a giudizio, in seguito a segrete rivelazioni avute da un confidente, due Carabinieri sorprendono Ottavio Silvagni in contrada Valle del Monte del comune di Grimaldi. Appena Ottavio vede i Carabinieri, spiccando un salto di circa tre metri, si butta giù in un burrone, immediatamente imitato dai militari, che lo abbrancano e rotolano tutti e tre per una decina di metri, fermandosi solo quando urtano violentemente contro una quercia e con non poca fatica riescono a mettergli i ferri, a sequestrargli una rivoltella carica e a portarlo in caserma sorreggendolo perché si è fratturato il femore della gamba sinistra.
La preoccupazione principale di Ottavio Silvagni, quando viene interrogato, è di cercare di smontare l’ipotesi che Domenico Muraca sia stato ucciso per vendetta e fa risalire tutto alla lite per la predica del parroco e alle parole, del tutto inedite, che Muraca avrebbe pronunciato. Infatti comincia subito col dire:
– All’omicidio di mio fratello non prese parte Domenico Muraca poiché si trovava in Africa e per tal motivo non potevo avere inimicizia alcuna con lo stesso. Perciò non è vero che per siffatta cagione io abbia ucciso Muraca in concorso con mio cognato Gennarino Senatore – poi racconta della discussione sulla predica e continua –. Quando Muraca disse “dinnanzi a me si deve inginocchiare anche il Padreterno, sapete chi è la mia famiglia e chi è Domenico Muraca, che da nove anni ha fatto tremare tutto Savuto” ed altri improperi, io gli dissi di calmarsi ed egli, dicendo qualche altra parola, andò verso la piazza. Io rimasi a conversare con mio cognato ed altri, ma dopo setto o otto minuti Muraca ritornò con la rivoltella sul davanti della persona, tenendo la canna nel calzone e l’impugnatura al di fuori. Giunto vicino a me e ad altri riattaccò la briga dicendo con voce soffocata “sapete chi è Domenico Muraca, che si è sempre fatto rispettare e si farà rispettare!”. Poi si rivolse verso di me e di mio cognato facendo atto con due dita di cacciarci gli occhi. Senatore disse che egli non aveva fatto quistioni con nessuno e Muraca non aveva con chi prendersela. A ciò, Muraca fece un passo indietro ed io lo spinsi innanzi per non dargli spazio a reagire, ma continuò a farsi indietro e stava per prendere la rivoltella. allora io, senza dargli tempo, gli afferrai la mano ed in tal mentre fuggirono Pietro Fera e mio cognato. Colluttando fra noi, Muraca cadde per terra al di sotto di me. Poi sopraggiunse Antonio Senatore e anche lui trattenne la mano di Muraca per disarmarlo, il che non fu possibile. In seguito ci alzammo e seguendoci l’un l’altro ci fermammo innanzi la porta chiusa di Angela Filice quando giunsero Daniele Pucci e Alessandro Fortunato Polillo che mi strapparono da Muraca. Allora io, comprendendo bene il pensiero di Muraca, padrone della sua rivoltella, estrassi la mia ed esplosi un colpo solo a Muraca, non sapendo dove l’avessi ferito. In tal mentre sopraggiunse mia sorella Tommasina la quale, credendo che il colpo esploso l’avesse sparato Muraca contro di me, prese la rivoltella di Muraca ed esplose contro lo stesso diversi colpi e dopo ciò Muraca cadde per terra, quindi non è vero che Tommasina sparò col mio revolver, né io la insinuai a sparare.
Una ricostruzione in aperto contrasto con quella fornita dai testimoni oculari.
Poi, il 29 settembre 1896 Gennarino Senatore si costituisce nell’ufficio di Pubblica sicurezza di Nicastro.
– È insussistente che io, nella sera del 26 marzo, avessi trattenuto mio cugino Domenico Muraca – scopriamo adesso che erano cugini – nell’atto che mio cognato Ottavio Silvagni, dopo avergli strappato il revolver, gli esplose dei colpi che l’uccisero, ciò a motivo che il fratello Giuseppe Muraca aveva ucciso l’altro mio cognato Francesco. Quella sera io e Domenico bevemmo molto vino nella mia bettola ed eravamo entrambi ubriachi – poi racconta la storia della lite per la predica e continua –. Giunse mio cognato Ottavio che procurò di calmare Muraca scusando le mie parole. Ma Muraca, cui forse il parroco aveva dovuto raccontare che mio cognato amoreggiava con sua sorella, incominciò a profferire parole insolenti rivolte a me, ma allusive a mio cognato. Dopo ciò mio fratello Antonio lo persuase ad andar via e si diresse verso la piazza. Io cercai di chiudere la bettola e di ritirarmi a casa, quando ritornò Muraca con la rivoltella sul davanti, conficcata per metà nei calzoni. Appena giunto stritolò i denti e disse “ragazzi, che lo sappia ognuno: in faccia a Domenico Muraca non è buono nessuno e dovete stare tutti con due piedi in una scarpa!”. Indi fece a me un segno per dimostrare che le parole non erano a me dirette e con due dita snodate verso i miei occhi disse “chi ardisse profferire una minima parola contro di me, così gli faccio gli occhi!”. Io gli risposi che non c’era motivo a quistionare poiché niuno l’aveva offeso. Dopo di ciò egli si tirò indietro e, mettendo mano al suo revolver con gli occhi rivolti a mio cognato Ottavio, esclamò “chi è buono si faccia avanti!”. A questo mio cognato si slanciò contro mio cugino Muraca e lo spinse contro il muro procurando di disarmarlo. Mio fratello disse ad Ottavio “lascia mio cugino” e nel contempo Pietro Fera cacciò un coltello facendo atto di ferire Ottavio ed io lo sgridai. Sopraggiunse mia moglie Tommasina che gridava “largo! largo!” allo scopo di far cessare la rissa e Pietro Fera andò via ed io, afferrato il due colpi che aveva mia moglie, la condussi a casa. Entrato a casa non vidi più mia moglie e nel contempo intesi un colpo di arma da fuoco, seguito da altri colpi. Ero lontano circa centocinquanta metri e rientrai a casa. Poi uscii di nuovo e vidi sopraggiungere mio cognato Ottavio e mia moglie che aveva una rivoltella in mano e mi disse che aveva ucciso mio cugino Domenico Muraca, essendo meglio veder morire che morire, giacché Muraca voleva uccidere Ottavio.
Possibile che dopo sette mesi di latitanza con suo cognato Ottavio non hanno pensato di concordare una versione dei fatti identica, almeno per avere una possibilità di cavarsela con poco?
Il 18 novembre 1896 si apre il dibattimento e dopo cinque udienze, il 25 novembre 1896, la Corte dichiara assolto Gennarino Senatore dal reato di concorso in omicidio volontario; dichiara assolto Pietro Fera dal reato di omicidio per errore. Dichiara Tommasina Silvagni e Ottavio Silvagni responsabili di omicidio volontario; dichiara Gennarino Senatore responsabile di complicità non necessaria nel ferimento fatto con arma in persona di Domenico Muraca; dichiara Pietro Fera responsabile di ferimento volontario con arma da fuoco in persona di Rosaria Alice e Carolina Ianni.
Condanna:
Tommasina Silvagni, con la concessione dell’attenuante della lieve provocazione, ad anni 11 e mesi 8 di reclusione, di cui dichiara condonati mesi 6 per l’Amnistia del 24 ottobre 1896.
Ottavio Silvagni, con la concessione della grave provocazione, ad anni 8 e mesi 9 di reclusione, di cui dichiara condonati mesi 3 per l’Amnistia del 24 ottobre 1896.
Gennarino Senatore a mesi 5 e giorni 25 di reclusione, di cui dichiara condonati mesi 3 per l’Amnistia del 24 ottobre 1896.
Pietro Fera a mesi 6 e giorni 20 di reclusione, di cui dichiara condonati mesi 6 per l’Amnistia del 24 ottobre 1896.
Per tutti le spese, i danni e le pene accessorie.
Il 15 febbraio 1897 la Corte di Cassazione rigetta i ricorsi di Tommasina e Ottavio Silvagni.
Con R.D. del 24 gennaio 1907 a Tommasina Silvagni viene concesso il condono di un sesto della pena (poco meno di due anni).[1]
Per la Corte non si è trattato di vendetta e i morti e i feriti sono dovuti alla discussione per la predica.
[1] ASCS, Processi Penali.