
La mattina del 24 settembre 1927, di buon’ora, il postino bussa alla porta di Pietro Moraca, appaltatore di opere pubbliche in Nicastro, e gli consegna un telegramma spedito da Messina a firma dell’ingegnere Paolo Rizzi – rappresentante della Società Bonifiche Mezzogiorno –, che lo invita a trovarsi, alle ore 18,00 dello stesso giorno, nella palazzina della Bonifica Angitola per definire prezzi appaltatore lavori. Alla fine del testo, Rizzi indica anche il suo recapito personale a Reggio Calabria, l’Hotel Centrale.
Moraca, che aspira ad avere l’appalto di un lotto di lavori nella bonifica di Sant’Eufemia, di cui è stato già redatto il progetto, sbriga alcune faccende, poi prende il treno e, come indicato nel telegramma, scende alla stazione di Curinga. Chiede al capostazione se gli ingegneri sono già arrivati e quello gli risponde che nessun ingegnere è stato visto colà. Allora, infastidito, riprende il treno e torna a casa.
Ore 4,30 del 4 ottobre. Uno sconosciuto bussa alla porta di casa Moraca, chiamando:
– Don Petru… don Petru…
La moglie di Moraca, insonnolita e preoccupata per l’insolita sveglia, sentendo chiamare il marito si alza e si affaccia dal balcone. Lo sconosciuto le dice:
– Cercavo a don Petru…
– Mio marito è a Roma per lavoro, dite a me.
– Vostro marito è atteso oggi pomeriggio, tra le quattro e mezza e le cinque, da una commissione d’ingegneri alla stazione di Sant’Eufemia Marina.
– Ve l’ho detto, mio marito non c’è, manderò il fratello Ottaviano.
Ottaviano Moraca va all’appuntamento al posto del fratello, ma non trova nessuno e torna subito indietro.
Ore 4,30 del 10 ottobre. Lo stesso sconosciuto di qualche giorno prima bussa alla porta di Moraca, che questa volta è a casa, ma fa alzare la moglie. La donna si affaccia dal balcone e lo sconosciuto le fa:
– Don Petru c’è?
– Mio marito è a letto, dite a me.
– Ditegli di trovarsi, tra le quattro e mezza e le cinque, alla stazione di Sant’Eufemia Marina perché atteso dagl’ingegneri della Bonifica che debbono conferire con lui. Gli ingegneri dicono che è preferibile che don Petru vada in automobile…
La donna gli fa cenno di attendere e rientra in casa per riferire al marito, poi esce di nuovo sul balcone e dice:
– Mio marito si recherà all’appuntamento in treno e non con l’automobile per mancanza del conducente.
– Va bene – e se ne va.
Poco più tardi, Moraca, ormai insospettito di queste strane convocazioni, si alza e parte col treno per Catanzaro per chiedere chiarimenti all’ingegner Tagliamonti, progettista dei lavori di bonifica, ma nel suo ufficio al Genio Civile non c’è, gli dicono che è andato a Sant’Eufemia Marina con una commissione di ingegneri. Tutto quadra e, fugati i sospetti, durante la mattinata Moraca telegrafa alla moglie di fargli trovare, alle 15,00, alla stazione di Nicastro l’impermeabile e l’ombrello, perché proseguirà in treno per andare all’appuntamento. Ripartito da Nicastro, quando arriva alla stazione di Sant’Eufemia Biforcazione non trova la coincidenza per la Marina e decide di percorrere a piedi lungo il viottolo che fiancheggia la linea ferrata i 4 chilometri che mancano, nonostante piova a dirotto. Arrivato nel luogo dell’appuntamento non trova nessun ingegnere ad attenderlo. Si ferma un po’, poi spazientito si riavvia lungo la ferrovia per riprendere il treno alla Biforcazione. Quando arriva a circa trecento metri dal disco ferroviario di Sant’Eufemia Marina, qualcuno, nascosto in agguato fra gli alti cespugli del sottostante terreno, gli esplode alle spalle dei colpi di arma da fuoco.
Colpito alla nuca, Moraca stramazza a terra e gli aggressori, certamente devono essere almeno due, lo raggiungono e si accorgono che non solo respira ancora, ma farfuglia:
– Madonna mia, mi ammazzarono senza far male!
Devono assolutamente finirlo ma non vogliono sparare altri colpi rischiando di attirare gente; allora raccolgono dei grossi chiodi acuminati attaccati ad aste di ferro, quelli che servono per fermare le rotaie alle traversine di legno, e con violenza e forza inaudite glieli piantano in testa. Poi lo perquisiscono e gli prendono il portafoglio che contiene circa tremila lire e la rivoltella che Moraca portava sempre con sé, ma non toccano l’orologio d’argento Longines, né la penna stilografica d’argento con matita, né gli spiccioli.
La famiglia attende il suo ritorno per tutta la notte, sempre più preoccupata, poi la mattina seguente arriva la notizia del ritrovamento del cadavere.
Sulla nuca dieci forami irregolarmente circolari ed introflessi, che nell’insieme costituiscono una rosa della grandezza e della forma di un uovo di gallina. Queste lesioni sono state prodotte da un colpo di fucile caricato a grossi pallini e sparato da una distanza non superiore ai quattro metri, penetrati in cavità forando la giugulare e la carotide esterna. La regione della volta cranica è deformata da numerosi avvallamenti e sporgenze per la frattura comminata di tutte le ossa della volta. Nella regione destra ed occipitale, ove i capelli sono imbrattati di sangue misto a materia cerebrale, si rileva una ferita lacero contusa del diametro di circa quattro centimetri, di forma irregolarmente circolare, che si approfonda nella sostanza cerebrale, prodotta da un’arma impropria a punta.
Chi ha voluto uccidere Pietro Moraca in un modo così barbaro? Ha dato fastidio a qualcuno?
Iniziate le indagini, il delitto sembra essere avvolto nel più fitto mistero anche perché tutti coloro i quali abitano nei dintorni o che erano intenti ai lavori agricoli nella zona si chiudono nel più ostinato silenzio, negando perfino di aver sentito i colpi di arma da fuoco. Però questo silenzio ostinato induce i Carabinieri a fermare molte persone sospette, per lo più pregiudicati della zona, e tra questi Gennaro Bruni e Francesco Nunziato, entrambi da Sambiase, e ricercano Pietro Calabrese, noto ai Carabinieri per furti precedentemente commessi, che dal giorno del delitto è sparito dalla circolazione, ma non si cava un ragno dal buco e i fermati vengono rimessi in libertà. Poi gli inquirenti ragionano su due circostanze. La prima è: perché l’assassino (o gli assassini) ha preso il portafoglio e la rivoltella, lasciando l’orologio e la penna stilografica d’argento? La seconda: le misteriose ed irrituali convocazioni ricevute dalla vittima, che devono necessariamente essere state fatte da qualcuno molto ben informato sull’attività professionale di Moraca. Intersecando queste due circostanze sembra ora evidente che l’omicidio non è stato commesso a scopo di rapina, ma che la sottrazione del portafoglio e della rivoltella sia servita per nascondere il vero movente: la gelosia di mestiere.
Pochi giorni dopo i Carabinieri sorprendono il ricercato Pietro Calabrese nascosto in casa di un cognato e lo portano in caserma. Quando il Maresciallo Giuseppe Sabino sta per interrogarlo non fa in tempo perché Calabrese gli dice:
– Se volete che io parli, arrestate gli Sgarrella!
Il capo d’arte muratore Valentino Sgarrella da Sambiase e suo cugino Luigi Sgarrella, appaltatore da Gizzeria, sono persone molto note e la dichiarazione di Calabrese, sebbene desti molte perplessità, potrebbe rientrare nella pista della gelosia di mestiere e quindi conviene approfondire.
– Cosa hai da dire sugli Sgarrella? Avanti, parla!
– No… ma io… io non c’entro… non so niente…
C’è bisogno di insistere e viene chiamato anche il Comandante della Compagnia Carabinieri di Nicastro. Dopo qualche altro tentativo andato a vuoto la musica cambia e Calabrese si decide a parlare:
– La sera del nove ottobre Valentino Sgarrella venne a casa mia e mi avvertì che tra le ore ventuno e mezza e le ventidue mi fossi recato in casa sua perché doveva parlarmi. Mi recai da lui e vi trovai Gennaro Bruni, Francesco Nunziato e Luigi Sgarrella, cugino di Valentino. I due Sgarrella ci dissero che nel giorno dopo, nei pressi del Bastione di Sant’Eufemia Marina avremmo dovuto combinare un affare per cui poi saremmo stati convenientemente compensati. Io e Bruni domandammo di cosa si trattasse e Valentino Sgarrella, senza farci nomi, ci disse che dovevamo sparare ad uno che aveva tolto il pane a Sambiase. Noi accettammo la proposta ed entrambi gli Sgarrella ci promisero diecimila lire ciascuno. Durante la notte io, Bruni e Nunziato ci trovammo e bussammo al portone di Valentino Sgarrella, che ci aprì con suo cugino, ci offrì un bicchierino di anice e ci disse che ci saremmo visti più tardi al Bastione per concludere l’affare. Ci avviammo e giunti nei pressi del Bastione ci nascondemmo tra alcuni cespugli vicini alla ferrovia. Verso le otto ci raggiunsero gli Sgarrella che ci indicarono il punto della scarpata laterale alla ferrovia dove ci saremmo dovuti appiattare quando essi ci avrebbero informati della venuta e del passaggio dell’individuo da uccidere. Poi se ne andarono e tornarono nel pomeriggio verso le sedici dicendoci “Attenti che passa la volpe!”. Guardammo e vedemmo che un uomo con l’ombrello aperto, piovendo a dirotto, e con l’impermeabile addosso si dirigeva verso di noi, venendo da Sant’Eufemia Marina verso la Biforcazione. Giunto alla nostra altezza lo lasciammo passare e quando ci fu di spalle, a pochissimi metri di distanza, io e Nunziato gli sparammo un colpo ciascuno col fucile e Bruni con la rivoltella di grosso calibro che gli aveva dato Valentino Sgarrella. Preciso che la sera del nove Valentino Sgarrella volle il mio fucile, che mi riconsegnò nel pomeriggio del dieci, caricato con due cartucce corazzate e a Nunziato dette un fucile calibro 12 a bacchetta. L’uomo, che riconoscemmo per l’appaltatore Pietro Moraca, cadde riverso sulla scarpata laterale dicendo “Madonna mia, mi ammazzarono senza fare male!”. Gli furono addosso Bruni e Nunziato e lo finirono a colpi di ferro sulla testa. Costoro avevano anche una lamina di ferro che ad una estremità aveva dei bulloni, da una parte a testa piatta e dall’altra finivano quasi a punta e che serve per unire le rotaie. Bruni s’impossessò del portafoglio della vittima e della rivoltella, che poi consegnò agli Sgarrella, i quali con noi, ma ad una certa distanza, si allontanarono alla volta di Gizzeria. Giunti in contrada Cerzeto ci riunimmo agli Sgarrella che, prima di allontanarsi, ci promisero che il giorno dopo ci avrebbero fatto tenere la somma promessa, quindi ci allontanammo prendendo strade diverse. Non ho avuto le diecimila lire che mi avevano promesso e non so se le abbiano avute gli altri miei compagni.
Poi indica il luogo dove ha conservato una cartuccia corazzata inesplosa e dice che in un cassetto della scrivania di Valentino Sgarrella c’è una cartuccia identica. Tutto vero e immediatamente vengono arrestati i cugini Sgarrella, Bruni e Nunziato, che erano stati rilasciati. I quattro si dichiarano estranei ai fatti, ma Calabrese contesta loro ogni circostanza raccontata nella sua deposizione nei numerosi e vivaci confronti che sostiene, senza peraltro riuscire ad indicare un qualsiasi apprezzabile motivo che avrebbe potuto indurre Calabrese ad accusarli falsamente.
I Carabinieri sostengono che Calabrese ha fatto anche il nome di tale Martino Vergata, indicandolo come colui il quale si presentò di notte a casa Moraca, ma davanti al Giudice Istruttore Calabrese nega recisamente qualsiasi partecipazione di Vergata al delitto. Ora c’è da individuare chi spedì da Messina il telegramma, che presto si scopre essere falso. I sospetti cadono su un fratello di Luigi Sgarrella, Vincenzo, che fino al 1926 aveva abitato a Messina perché impiegato della ditta Vianini e che all’epoca del delitto abitava a Reggio Calabria. Anche Vincenzo Sgarrella viene arrestato e, interrogato, si dichiara estraneo ai fatti.
Chiusa l’istruttoria, il 6 marzo 1929, la Sezione d’Accusa rinvia al giudizio della Corte d’Assise di Vibo Valentia Valentino e Luigi Sgarrella per rispondere di concorso in omicidio premeditato con l’aver dato mandato di eseguire il delitto a Calabrese Pietro, Bruni Gennaro e Nunziato Francesco. Gli ultimi tre, inoltre, anche di porto abusivo di fucili e rivoltelle. Bruni e Nunziato, inoltre, di furto semplice. Dichiara non doversi procedere contro Vergata Martino e Sgarrella Vincenzo per insufficienza di prove.
La causa si discute il 13 maggio 1931 ma nel corso del dibattimento emergono elementi sufficienti per far ritenere che, in favore degli imputati, alcuni testi hanno deposto il falso ed altri hanno taciuto il vero ed il 5 giugno successivo il dibattimento viene sospeso fino all’esito del processo per falso. Il procedimento si conclude in Corte d’Appello il 27 maggio 1932 con un proscioglimento per non imputabilità e sei condanne ed il successivo rigetto dei ricorsi da parte della Suprema corte di Cassazione del 14 novembre 1932.
La causa adesso può essere discussa, ma davanti alla Corte d’Assise di Catanzaro, ed il dibattimento viene fissato per il 16 giugno 1933. La Corte, letti gli atti ed ascoltati i testimoni e le parti, osserva: la reità di tutti gli imputati è dimostrata da elementi di prova molteplici e sicuri. Di essi va esaminata prima di ogni altro l’accusa che il Calabrese ha fatto contro di sé e dei coimputati, la quale fin dal primo momento ha indicato all’istruttoria quell’indizio che per essere stato ben presto avvalorato da tutte le altre risultanze delle indagini, è apparso l’unico conforme alla realtà dei fatti. L’accusa del Calabrese è stata effetto di libera e spontanea determinazione, immune da qualsiasi ombra di coartazione da parte degli Ufficiali di Polizia Giudiziaria o di altri. È stata disinteressata perché il Calabrese fece un’ampia e precisa confessione contro sé stesso, senza alcuna restrizione. Non può concepirsi come un imputato, per la sola voluttà della rovina altrui, scavi l’abisso a sé stesso. Ai quattro coimputati si è domandato più volte il perché Calabrese dovesse accusarli con tanta insistenza ed essi nulla hanno saputo indicare, non un qualsiasi motivo di attrito, di odio o di vendetta, anzi hanno affermato di non conoscerlo neanche. La difesa di Valentino Sgarrella ha indicato ben 49 testi per deporre che il Calabrese è “esaltato, leggero e calunniatore e nessuno ha mai creduto a quello che egli dice”, ma non si accenna ad alcun fatto specifico. Sono decorsi quasi sei anni dal giorno del delitto e gl’imputati, dei quali i due Sgarrella vantano larghe aderenze, non sono riusciti a rispondere a quell’interrogativo. Allora si è ricorso, nell’imminenza di questo dibattimento, al trucco: il 29 aprile 1932, nell’infermeria del carcere di Nicastro, dove il Calabrese era ricoverato, gli agenti sequestrarono un fazzoletto sul quale era scritta, con matita copiativa, una lettera con la quale palesemente si è voluto fare sorgere il sospetto che il Calabrese ha persistito nelle sue dichiarazioni per le sovvenzioni, anche di denaro, ricevute nelle carceri da parte dei congiunti della vittima, ma Calabrese, interrogato sul riguardo, ha dichiarato che un giorno trovavasi di piantone all’infermeria, ove era ricoverato, tal Gullì Bruno, ragioniere alle dipendenze di Infantino Salvatore, pure detenuto. Il Gullì gli domandò quali persone avesse potuto indicare tra il personale del carcere che potessero rivelare qualche circostanza relativa a questo processo e quali erano i suoi difensori. Avendo egli fatto il nome dei difensori e di alcuni agenti e detenuti, il Gullì disse che avrebbe egli provveduto a tutto e, dopo avere disteso sopra un comodino bagnato un fazzoletto, scrisse su di esso senza riferire a lui, analfabeta, il contenuto. Poi uscì e subito entrarono gli Agenti che sequestrarono quel fazzoletto. Il Gullì era stato trasferito da pochi giorni dal Carcere di Vibo Valentia, ove disse di essere stato detenuto nella stessa camerata degli Sgarrella. Anche questa escogitazione, però, non ha raggiunto lo scopo perché Calabrese è analfabeta.
Se per la Corte la responsabilità degli imputati è certa, adesso deve parlare del movente che avrebbe spinto i cugini Sgarrella a togliere di mezzo Pietro Moraca: sia Luigi Sgarrella che Pietro Moraca avevano realizzato delle briglie di contenimento delle acque del torrente Bagni, ma mentre Moraca si era distinto per la sua onestà e scrupolosità nell’esecuzione dei lavori, Luigi Sgarrella non aveva fatto altrettanto, tant’è che alla prima piena del torrente la briglia era crollata, seppure non si riuscì a dimostrare colpa o dolo. Quando l’ingegnere Tagliamonti presentò al Ministero il progetto da lui redatto per la grande bonifica di Sant’Eufemia, di cui quella del torrente Bagni, per l’importo di ventotto milioni, era parte integrante, molti aspiranti a concessioni di lavoro cominciavano ad essere abbagliati dal miraggio di lauti guadagni. Era quindi naturale che anche le ditte locali Moraca e Sgarrella aspirassero ad ottenere un grosso lotto di lavori, specialmente sul torrente Bagni, ove già in passato avevano lavorato, ma in questa gara la ditta Sgarrella dovette riconoscere la propria inferiorità di fronte a quelle di Moraca, che già era circondata dalla fiducia generale. La progettata concessione di lavori al Moraca era ancora mantenuta nel campo delle semplici possibilità, ma aveva cominciato ad avere un inizio di pratica attuazione giacché, come afferma l’ingegnere Tarsitani, già si erano cominciati a pattuire i prezzi con lo stesso Moraca. È palese, quindi, come Sgarrella Luigi vedesse le sue aspirazioni ostacolate dalla temibile concorrenza del Moraca. “Questo straccione affamato” continuava ad ingerirsi nei lavori del torrente Bagni, ove egli solo Sgarrella doveva rimanere. Da ciò sorse in lui la determinazione del delitto come unico mezzo per liberarsi dell’incomodo rivale. Questa, che rappresenta la causale personale di Luigi Sgarrella, si è poi fusa con quella del cugino Valentino, capo d’arte muratore, residente a Sambiase, che i Carabinieri ed altri testi dicono uno degli esponenti più in vista della mala vita di Sambiase, protettore di latitanti e favoreggiatore in ratti di fanciulle. Moraca, in tempo prossimo al delitto, pressato dalle autorità locali, partecipò all’asta per l’appalto della fognatura di Sambiase per l’importo di un milione e trecentomila lire. Aspirava a quei lavori anche Sgarrella Valentino il quale, consapevole forse della disistima che lo circondava in quel comune, non osò concorrere apertamente nella gara, ma pregò l’appaltatore Dario Mauro di associarlo all’impresa, se questa fosse stata aggiudicata a lui, ma costui non accettò la proposta e si astenne dal partecipare alla gara, sicché Moraca rimase aggiudicatario senza concorrenti. Nello stesso periodo a Moraca furono affidati altri importanti lavori dal Comune di Sambiase e Valentino Sgarrella allora tentò di essere nominato assistente dei lavori, incarico retribuito con ottocento lire mensili, ma il podestà dell’epoca, Giustiniano Porchio, che non aveva alcuna fiducia negli Sgarrella e che in seguito subì due attentati ad opera d’ignoti, preferì conferire quell’incarico ad altra persona, anche perché è certo che Moraca ebbe a dire che se Sgarrella fosse stato nominato assistente, egli avrebbe abbandonato i lavori e lo Sgarrella cominciò a discreditare l’opera di Moraca. Questo dimostra quanto fossero tesi i rapporti di Moraca anche con Valentino Sgarrella. A ciò si aggiunga che Moraca nei lavori adibiva in gran parte muratori di Nicastro e soltanto i terrazzieri erano di Sambiase. Anche Valentino Sgarrella quindi vedeva nel Moraca colui che aveva ostacolato le sue mire e che anche per l’avvenire non le avrebbe certo favorite. Questa causale, che può dirsi propria del Valentino, s’incontrò con quella identica del cugino Luigi e la fusione di esse, consigliata da identico interesse, avvinse i due cugini in un unico proponimento criminoso, essendo loro apparso il delitto come l’unico mezzo idoneo a sgombrare da ogni inciampo la via della loro attività industriale.
Accertata la responsabilità penale di tutti gli imputati nel reato di concorso in omicidio premeditato e concesse le attenuanti generiche al solo Pietro Calabrese, la Corte condanna Sgarrella Valentino, Sgarrella Luigi, Bruni Gennaro e Nunziato Francesco alla pena dell’ergastolo e Calabrese Pietro ad anni 30 di reclusione, oltre alle spese, ai danni e alle pene accessorie. Ordina che la sentenza, nella parte che riguarda la condanna all’ergastolo come sopra inflitta, sia pubblicata per estratto, una sola volta, nel giornale “La Giovine Calabria” che si pubblica in Catanzaro.
Il 30 aprile 1934 la Suprema Corte di Cassazione dichiara inammissibile i ricorsi di Calabrese, Bruni e Nunziato e rigetta i ricorsi dei due Sgarrella.
Con decreto Luogotenenziale 1/1/1945 è stata concessa a Sgarrella Luigi la commutazione della pena dell’ergastolo in quella finora espiata.
Il 16 febbraio 1950 la Corte d’Appello di Catanzaro, in applicazione del D.P. 23 dicembre 1949, ha condonato anni 1 di reclusione a Calabrese Pietro.[1]
[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Catanzaro.