
Il 31 agosto 1932 Salvatore Saccomanno e sua moglie Luigina Oliverio, entrambi di San Giovanni in Fiore, vanno alla fiera di Mulerà di Roccabernarda per vendere la loro mercanzia di rame. Qui incontrano Nicola Caridà, anch’egli residente a San Giovanni, conoscente di Salvatore, che presta loro un copertone, un telone, per farne una capanna sotto la quale riposare la notte.
La sera, dopo aver mangiato dei peperoni, i due coniugi, chiusa alla meglio la capanna, si addormentano, ma verso mezzanotte Luigina si sveglia con un forte mal di stomaco e sveglia il marito pregandolo di darle la bottiglia del caffè per berne un sorso, ma Salvatore, seccato, non le dà retta, si gira dall’altra parte e continua a ronfare. Luigina vomita e poi esce dalla capanna per prendere una boccata d’aria. All’improvviso dalla capanna esce Salvatore che aggredisce Luigina tirandole un tremendo morso al naso e causandole l’asportazione della pinna nasale destra. Resterà sfigurata per il resto dei suoi giorni.
Arrivati sul posto i Carabinieri arrestano Salvatore e lo interrogano:
– Mi sono svegliato e ho notato l’assenza di mia moglie. Sono uscito e mi sono accorto che costei, a breve distanza, giaceva in decubito con Nicola Caridà, il quale la mattina precedente aveva fatto la corte a mia moglie. Accecato da gelosia corsi contro di loro, afferrai mia moglie e le tirai un morso al naso, mentre Caridà si dava alla fuga.
La cosa sembra alquanto strana ai Carabinieri perché tutto intorno alla capanna dove dormivano Salvatore e Luigina riposavano altre persone del pari convenute in Mulerà in occasione della fiera, il che esclude la possibilità di congressi carnali all’aria aperta. Interrogate le persone che dormivano nei paraggi, emerge che fra coloro i quali accorsero alle grida di Luigina c’era anche Caridà, il che non potrebbe spiegarsi, se conforme al vero la dedotta sorpresa in concubito, né sarebbe conciliabile con l’assunto dell’imputato, che esso Caridà si sarebbe dato alla fuga. Ma per essere certi che tra Luigina e Caridà non ci fossero rapporti illeciti, i Carabinieri indagano e verbalizzano: nulla ricorre che ponga in essere una precedente relazione illecita tra la Oliverio e il Caridà il quale, anzi, per ragioni di commercio era quasi sempre fuori di San Giovanni in Fiore. Ma i Carabinieri, oltre ad accertare questo, accertano anche che la Oliverio non gode fama di donna onesta e parecchi testimoni attestano fatti di non dubbia gravità sul di lei conto. Ond’è lecito ritenere che il Saccomanno percosse e ferì la moglie in quanto, dati i precedenti e l’assenza di lei dalla capanna, fu dominato dal sospetto che la moglie, sotto il pretesto delle sofferenze da cui era affetta, era uscita per motivi illeciti. Bisogna intenderla come una giustificazione? Ma comunque la si giri, i fatti sono fatti e le supposizioni non valgono niente.
Terminata l’istruttoria, Salvatore Saccomanno viene rinviato al giudizio della Corte d’Assise di Catanzaro per rispondere di lesioni personali gravissime in persona della propria moglie, cui provocarono sfregio permanente del viso.
La causa si discute il 22 giugno 1933 e prima che inizi l’udienza Luigina, coraggiosamente, si costituisce parte civile.
La Corte, letti gli atti ed ascoltati i testimoni e le parti, osserva: fermi i fatti accertati, consegue la responsabilità rubricata. La confessione dell’imputato, confortata da tutti gli elementi acquisiti, non lascia dubbio alcuno circa la materialità del fatto. Né può discutersi circa la sussistenza dell’elemento soggettivo, essendo inerente al fatto la volontà cosciente nel prevenuto di recare offesa alla integrità fisica della moglie che, ad avviso del giudicabile, in quel momento gli arrecava oltraggio nella sua dignità. Consegue, in secondo luogo, l’inapplicabilità della causa d’onore invocata dalla difesa perché, com’è notorio, la norma prevede, per quanto attiene alla specie in esame, “forma attenuata di lesioni commesse per causa d’onore e nello stato d’ira determinato da illegittima relazione del coniuge”. Ma in questo caso non c’è nessuna illegittima relazione, né, tantomeno come sostiene Salvatore Saccomanno, c’è la sorpresa in flagrante adulterio o illegittimo concubito, elementi fondamentali per la causa d’onore. Allora la difesa mette in campo un altro cavillo, la “quasi sorpresa” e la Corte, replica che, secondo l’autorevole insegnamento del Supremo Collegio, “la quasi sorpresa è limitata ai soli casi in cui si verifica la constatazione effettiva di tal fatto che non possa essere altrimenti spiegato se non come irrefutabile prova di un rapporto adulterino, non sospettato o opinato, ma certo come prossimo a consumarsi o appena finito di consumare”. Questa e non altra è l’interpretazione del disposto in esame e, nella specie, resta esclusa la sorpresa vera e propria, valendo a negarla i rilevi dei verbalizzanti a comprova del mendacio dell’assunto difensivo prospettato dal giudicabile nel suo interrogatorio. Alla fine, niente altro che semplici supposizioni o sospetti di oltraggio nella sua dignità valevano ad ingenerare nell’animo del prevenuto la presenza della moglie nei pressi della capanna ed i precedenti non buoni di costei. Ciò anche se nelle sofferenze poco prima accusate dalla moglie egli avesse scorta parvenza di finzione e nella esistenza di altre capanne in quella località non avesse saputo riscontrare ostacolo insormontabile ad un convegno d’amore.
Accertata la responsabilità di Salvatore Saccomanno e l’insussistenza della causa d’onore, non resta che determinare la pena da comminare: tenute presenti le modalità del fatto, stimasi di fissare la reclusione da infliggere nella misura di anni 6 e, per l’aggravante dei rapporti tra l’agente e l’offesa, aumentarla di mesi 1, oltre alle spese, ai danni e alle pene accessorie.[1]
[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Catanzaro.