UN CERTO DUBBIO

La mattina del 26 marzo 1931, verso le otto, Caterina Iaquinta, dopo aver lasciato i propri bambini nella baracca da lei abitata in contrada Barone del comune di Cotronei, va nel vicino bosco a fare legna. Verso le dieci nella baracca arriva Clarice Lucante, la suocera di Caterina, che trova i bambini con il nonno materno:

– Dov’è vostra madre?

– È andata a fare legna da stamattina.

Forse Clarice è preoccupata o forse deve dirle qualcosa, fatto sta che manda suo figlio Pietro a cercarla.

Pietro non ci mette molto a tornare indietro, ma è da solo ed è sconvolto: ha trovato Caterina moribonda in fondo ad un burrone! Clarice, Pietro ed alcuni vicini attirati dalle urla corrono sul posto, trovano la sventurata in una posizione che la fa sembrare una marionetta disarticolata. È ancora viva, ma oltre al flebile alito che le esce dalle labbra socchiuse non dà altri segni di vita, così la prendono e la adagiano su un terreno più pianeggiante, dove poco dopo, purtroppo, muore.

Vengono avvisati i Carabinieri che arrivano sul posto col medico legale e, ognuno per la propria competenza, procedono ai primi accertamenti: sul corpo vengono riscontrate una vasta ecchimosi sulla regione temporale destra, escoriazioni multiple alla fronte, al labbro inferiore, alla regione sotto clavicolare destra, alle mani ed alla gamba destra. La morte, assicura il perito, è stata cagionata da commozione cerebrale, determinata dalla lesione alla tempia.

I Carabinieri, da parte loro, ispezionano la località in forte pendenza e puntano l’attenzione su di una grossa quercia abbattuta al suolo, dalla quale è stato tagliato di recente un grosso ramo, che adesso è a terra in vicinanza di un masso che affiora dal terreno; su di un altro ramo i militari notano delle macchie di sangue. Unendo questi elementi, sia i Carabinieri che il Pretore, nel frattempo arrivato sul posto, si convincono che Caterina è salita sulla quercia abbattuta, ha tagliato il grosso ramo e ha perso l’equilibrio, anche per qualche movimento fatto dall’albero, ed è caduta battendo il capo sul masso affiorante dalla terra e quindi è rotolata nel burrone. Una disgrazia ed il fascicolo processuale viene archiviato come “morte accidentale”.

Qualche mese dopo il comandante della stazione dei Carabinieri cambia e il nuovo si mette a dare un’occhiata ai fascicoli archiviati, compreso quello sulla morte di Caterina Iaquinta; avendo raccolto nel pubblico delle voci su maltrattamenti usati dalla suocera contro la nuora ed avendo appreso che alcune donne nel vestire il cadavere avevano notato delle contusioni sulla faccia interna delle cosce e sulla vulva dell’estinta, non riferite ai Carabinieri per consiglio della Lucante che non avrebbe voluto far sezionare il cadavere della nuora, la arresta per omicidio volontario e arresta anche suo marito, il marito di Caterina e i suoi cinque cognati quali correi.

La Lucante è una linguacciuta per il suo carattere pettegolo ed astioso ed è malvista in tutto il vicinato, verbalizza il Maresciallo.

– Ho saputo dalla povera Caterina che la suocera la maltrattava, ma non ho mai assistito a scenate – è la frase più ricorrente che gli inquirenti raccolgono dai testimoni.

Poi l’ottantenne Domenico Sellaro, interrogato dal Giudice Istruttore, racconta:

La mattina del fatto, mentre passavo vicino a quel burrone, vidi la Lucante allontanarsi da esso carponi – è la deposizione che la inchioda.

A questo punto viene ordinata la riesumazione del cadavere e si procede a nuovi esami con il risultato che i periti incaricati affermano: il trauma che causò la morte di Caterina non fu accidentale, ma inferto con gran violenza da corpo contundente adoperato da mano umana.

Chiusa l’istruttoria, il 10 giugno 1932 il Giudice Istruttore rinvia Clarice Lucante al giudizio della Corte d’Assise di Catanzaro e proscioglie tutti gli altri per non aver commesso il fatto.

La causa si discute il 20 giugno 1933 e la Corte, letti gli atti ed ascoltati i testimoni e le parti, osserva: la reità della giudicabile non è affatto raggiunta da elementi rassicuranti. Invero non è risultata, anzitutto, una causale adeguata che avrebbe potuto determinare la Lucante a spegnere la giovine esistenza della nuora, madre di quattro bambini. Dei testi escussi alcuni hanno deposto di avere appreso dalla stessa Iaquinta di essere maltrattata dalla suocera, ma è rilevante che nessun teste ha mai presenziato a qualche questione, sia pure orale, tra costei e la nuora, la quale mai nulla ha confidato sul riguardo ai propri genitori. Risulta dagli atti che la Lucante, linguacciuta e pettegola, era malvista in tutto il vicinato e ben può essere che l’acredine del suo carattere non avesse risparmiato la nuora, ma ciò non costituisce uno stato così teso dei rapporti da far presumere una determinazione al delitto. Poi la Corte si occupa del testimone chiave Domenico Sellaro e lo stronca: la sua dichiarazione non appare veritiera perché i testi Albi Nicola, Ierardi Pasquale e Albi Carmine hanno deposto in aula che quando Sellaro uscì dai locali ove il Giudice Istruttore lo aveva interrogato, domandato dai presenti che cosa avesse deposto, rispose “l’ho conciata con cacio e uova perché anni prima aveva spaccato la testa a mia moglie!”.

Ma quelle che per la Corte sono importantissime, sono la deposizione in aula di Vincenzo Gallo e di Giovanni Iaquinta, il padre di Caterina. Gallo:

Quella mattina, verso le otto, mi recai da Caterina Iaquinta per pagarle delle uova avute in precedenza e poi mi recai nella vicina baracca della Lucante, ove trovai lei e la moglie del figlio Pietro con un bambino ammalato e rimasi in loro compagnia per circa mezz’ora.

Iaquinta:

Ero nella baracca di mia figlia quando venne Clarice Lucante che, avendo appreso della prolungata assenza di Caterina, chiamò il figlio Pietro incaricandolo di cercarla.

La Corte le ritiene importantissime perché accertano la presenza della Lucante in luoghi diversi dal bosco ove la nuora si era recata a legnare e se tra le due circostanze può esservi un breve intervallo, non risulta che la Lucante avesse visto la nuora andare nel bosco e l’avesse poi seguita.

Ma ci sono anche altri aspetti che la Corte deve affrontare per arrivare in fondo alla strada che ha intrapreso e osserva: va rilevato che anche gli accertamenti generici non avvalorano con sicurezza l’ipotesi del delitto. Come? E allora quello che hanno concluso i periti incaricati della nuova perizia non conta nulla? La Corte spiega: essi hanno asserito ciò come effetto di un ragionamento che, per quanto logico, può anche non rispondere alla realtà degli avvenimenti. È notevole, sul riguardo, che il Pretore, recatosi sul luogo immediatamente dopo il fatto, ha constatato l’esistenza di chiazze di sangue sopra un ramo non reciso della quercia e poiché tutte le lesioni osservate dai medici non erano sanguinanti, è logica necessità pensare che la Iaquinta sia caduta a cavalcioni di quel ramo, lasciando in esso le macchie di sangue, che per l’urto violento uscì dalla sua vulva. Questa ipotesi spiega le contusioni al basso ventre osservate dalle donne che vestirono il cadavere.

È tempo di concludere, anche se tutto appare molto, troppo vago.

Si è nel campo delle ipotesi e gli atti di indagine non offrono sicuri elementi per precisare quale di esse sia l’espressione della verità. Il Pubblico Ministero ha chiesto che il fatto sia ritenuto casuale, ma la Corte non crede di potere emettere questa affermazione in quanto i risultati del dibattimento lasciano un certo dubbio che induce a prosciogliere Clarice Lucante per insufficienza di prove ed ordina la scarcerazione della stessa se non detenuta per altra causa.[1]

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Catanzaro.