
Quella del 6 giugno 1902 è una tipica mattinata di tarda primavera, sfavillante di luce e di colori, ancora abbastanza fresca come, d’altra parte, è normale che sia vista l’altitudine di Paterno Calabro.
Una piccola processione di gente procede per le vie del paese e poi si inoltra in Via Calendini fermandosi davanti aduna casetta. In testa al corteo c’è il Pretore di Dipignano con al suo fianco il Cancelliere; li seguono il Brigadiere dei Carabinieri e il medico condotto; più indietro altri due Carabinieri e quindi una quindicina di curiosi.
Quando, dopo essersi arrampicati su una scala di legno entrano nell’unico ambiente di cui si compone la casa, lo spettacolo è ributtante: nel mezzo del pavimento della stanza si vede, quasi nuotante in una pozza di sangue, il cadavere di una donna della apparente età di anni 40 con ferite contuse alla testa. Detto cadavere poggia sul fianco sinistro con la mano sinistra sotto il petto e con la destra ripiegata sulla gamba dello stesso lato.
Il Pretore, fatto rimuovere, con le debite cautele, il descritto cadavere, lo fa osservare dal medico che riscontra: una ferita lacero contusa in corrispondenza della regione temporale lato sinistro della superficie di un due soldi a margini divaricati, profonda fino al pericranio, interessante i tessuti molli; altra ferita da taglio in corrispondenza della regione fronto parietale di destra, interessante i tessuti molli, con frattura del tavolato osseo, penetrante in cavità; altra ferita da taglio in corrispondenza della regione occipito parietale sinistra lunga 5 cent., interessante i tessuti molli; altra ferita da taglio in corrispondenza della regione mediana, lunga 8 cent. profonta fino all’osso sottostante; altra ferita, molto più grave delle precedenti, in corrispondenza della regione occipito parietale di destra con asportazione di tutti i tessuti e parte dell’osso sottostante, per un diametro di 10 cent. circa. Ma il medico nota anche dell’altro sul corpo della donna che non c’entra niente con il delitto: alla regione mammaria e sotto mammaria di destra si notano dei seni fistolati residuali con carie delle costole.
Il cadavere della trentanovenne Rosina Casciaro viene trasportato nella camera mortuaria del cimitero per l’autopsia e il corteo ritorna sui propri passi verso la caserma dei Carabinieri dove è stato portato il marito della donna, il quarantunenne Giovanni Falcone.
– Da circa 17 anni ero sposato con Rosina e durante tal periodo di tempo regnò nella nostra famiglia la massima tranquillità, giacché tanto io quanto mia moglie ci volevamo bene – comincia a raccontare –. Circa 7 anni dietro mi recai in America per ricerca di lavoro, al solo scopo di avvantaggiare la famiglia già cresciuta pei figli procreati. In America contrassi una grave malattia epilettica per la quale molto spesso non potevo lavorare perché le convulsioni e gli spasimi mi affliggevano, sicchè fui costretto di rimpatriare. Appena ritornato a casa mia moglie cominciò a soffrire anche essa per certi bubboni che le uscivano alle mammelle e che continuamente emanavano pus. Non per questo la nostra reciproca affezione venne mai meno, che anzi sembrava cresciuto il nostro amore. Però pochi giorni dietro mi accorsi che mia moglie, che sempre era stata onestissima, non nutriva più quell’affetto che io pretendevo, anzi mi accorsi che tentava disfarsi di me, forse per insinuazione delle donne del vicinato con le quali praticava…
– Spiegatevi meglio…
– Dovete sapere – continua, mostrando un certo imbarazzo – che quando sono assalito dall’epilessia soglio urinarmi nei calzoni e perciò essa mia moglie per impedire in qualche modo ciò, soleva mettermi sulla pancia dei panni inzuppati di acqua…
– Cosa? Semmai ve li metteva asciutti!
– No, è come vi ho detto… vi spiego… la notte del 4 corrente mese, mentre dormivo, mi svegliai di soprassalto al contatto di una pezzuola bagnata che essa mia moglie mi aveva applicata sull’addome e con mia sorpresa verificai che detta pezzuola anziché di acqua, era imbevuta di urina…
– Come vi capitava spesso, lo avete detto voi…
– Di urina e di pus – continua lanciando un’occhiataccia al Pretore. – Feci immediatamente le mie rimostranze ma essa mia moglie, implorando perdono e dicendomi che mi voleva tanto bene, mi pregò di non far chiasso perché non mi avrebbe più trattato a quel modo. Tutto parve finire e l’indomani mi recai a lavorare in campagna; ritornato ben presto a causa del cattivo tempo, appena giunto a casa, mia moglie m’invitò a coricarmi ed io così feci, ma mi adagiai vestito, avvertendola che se qualora essa avesse ripetuto quanto aveva fatto la notte precedente, l’avrei certamente uccisa. Essa mi protestò amore e benevolenza ed io mi acquietai, però finsi di dormire. Così mi riuscì di vedere che essa mia moglie, credendo che io dormissi, prese un vecchio straccio, lo bagnò di orina dentro un orinale e poi, scopertosi il seno piagato, fece cadere sul panno del pus, quindi si avvicinò a me e stava per applicarmi nuovamente quella pezzuola sull’addome – Giovanni ha uno scatto, strabuzza gli occhi come se la scena che sta raccontando la stia vivendo in quel preciso momento, poi con voce alterata continua –. Immediatamente balzai da letto ed in men che non si dica le fui addosso, l’afferrai pel collo e la feci stramazzare a terra; essa, preso da sopra un tavolo un coltellaccio da cucina, faceva per ferirmi ma io non le detti tempo perché con la scure che tenevo sempre a portata di mano la percossi ripetutamente alla testa col dorso di essa – adesso sembra calmarsi, il respiro affannoso e la voce quasi flebile –. Quando essa mia moglie stava per rendere l’ultimo respiro, della gente accorsa faceva sforzi per aprire la porta – il tono della sua voce risale ed il ritmo si fa più concitato – ma non vi riuscì facilmente perché io avevo avuto l’accortezza di chiuderla di dentro con la maniglia. La gente di fuori aumentava e cercava di sfondare la porta. Io… io avevo intenzione di rimanermene in casa e costituirmi spontaneamente in caserma, ma quando mi accorsi che la porta cedeva agli urti di fuori, infilai una botola e, calandomi nel basso sottostante, per mezzo di una finestra poco alta mi allontanai dirigendomi nella contrada Sponza ove l’indomani alle ore 7 circa fui trovato ed arrestato dai Carabinieri.
– Ma voi davvero credete a quello che avete raccontato? Siete davvero convinto? È un racconto inverosimile – incalza il Pretore per avere la conferma al pensiero che lo assilla: è pazzo!
– Mia moglie, credendo forse a consigli di donne e credendo forse a sortilegi, cercava di disfarsi di me applicandomi le pezzuole inzuppate di orina – ripete come una cantilena, poi cala il carico –. Io poi mi convinsi maggiormente che voleva farmi morire perché la sera del 5 prima del fatto, essendosi trovato a passare per la mia casa il dottor Barrese, mi accorsi che essa mia moglie e la sorella, d’accordo col detto medico,volevano farmi applicare dei medicamenti per farmi cessare, secondo loro, l’incomodo che mi affligge ma io, astuto, ho capito subito che tutti e tre s’erano messi d’accordo per farmi del male, quindi prima che mia moglie mi facesse morire, pensai bene di ucciderla e mi determinai poi a spegnerla quando per la seconda volta mi applicò la pezzuola sporca di orina e di pus…
Il Pretore sa già che le cose non sono andate esattamente così perché ai fatti ha assistito uno dei figli. E i fatti sono molto più drammatici di quanto Giovanni sostiene.
La sera del 5 giugno la famiglia mangiò del pane e formaggio e solo la madre non volle nulla, sebbene esortata dal marito per non indebolirsi. Finita la misera cena, il ragazzino fu mandato ad avvisare il padrone della terra in cui lavorava Giovanni che l’indomani sarebbe tornato regolarmente al lavoro. Ritornato a casa il ragazzo trovò il medico e sentì dire al padre che medicine non ne avrebbe preso. Andato via il medico, Giovanni aprì il tiretto di un tavolo e ne prese un rasoio; la madre, accortasi di ciò e temendo che potesse farle del male viste le continue minacce che riceveva, gli afferrò le braccia per di dietro e, non dandogli campo di aprire il rasoio, lo pregava di non ammazzarla, non avendo nulla commesso e lui, cercando svincolarsi, l’assicurava che nulla avrebbe fatto. A questo punto il ragazzo, terrorizzato, corse a chiamare il nonno ed invece di lui accorse la zia Maria la quale andò via senza che fosse entrata in casa. V’entrò esso ragazzo ed appena dentro, vide il padre che, dato di piglio ad una scure, diede alla madre col dorso della stessa un colpo alla testa e la fece stramazzare al suolo. Urlò chiedendo aiuto, chiese pietà per la madre, ma Giovanni, ormai fuori di sé, lo afferrò per un braccio, lo cacciò fuori e chiuse la porta con chiave e maniglia.
– Avevo visto vicino casa il dottor Barrese e andai a chiedere a mia sorella se volesse farsi visitare – racconta Maria tra le lacrime – lei mi rispose di si e io andai a chiamarlo. Dopo visitatala, siccome il marito dava segni di rinnovazione della malattia di cui era affetto e per la quale altra volta lo stesso medico gli somministrò un medicinale che lo rese calmo, gli disse se gli dava un calmante pel marito. Uscito che fu il medico, anche io lo pregai di dare il calmante per mio cognato, che aggravandosi poteva commettere qualcosa di grave. Giovanni, vistami parlare col medico disse: “Vi ho capito perché le parole io non le comprendo per la bocca ma pel culo!” e quasi voleva avventarsi contro di me che, intimorita, scappai. Alle grida di mio nipote accorsi e, spinto adagio la porta che era socchiusa, senza entrare temendo mio cognato che mi aveva minacciata di morte, chiesi a mia sorella che vidi in piedi e lei mi ingiunse di non entrare e di andare via che il marito non facevale nulla poiché volevale bene e che non l’avrebbe ammazzata; mio cognato, invece, con dolci parole mi invitava ad entrare ma mia sorella ripeté di andar via. Vigilato ed inteso che Rosina pregava il marito di non ammazzarla e lui soggiungeva “Devi morire dalle mie mani!” corsi a chiamare i vicini parenti ma al loro giungere l’aveva già ammazzata…
È evidente a questo punto che Giovanni Falcone ha dei seri problemi mentali, per cui ne viene disposto il ricovero nel manicomio di Nocera Inferiore per essere sottoposto a perizia psichiatrica dal professor Francesco Del Greco.
In costui gli accessi si succedevano ad intervalli di 4 o 5 giorni, ma alle volte erano parecchi in una giornata sola. Il Falcone all’improvviso mettevasi ad urlare, ad agitar le braccia rotando su sé stesso, correndo, urinandosi nei calzoni ed allora si mostrava aggressivo e pericolosissimo. Calmato, tornava al lavoro in silenzio senza interloquire con alcuno.
Il Falcone è uomo di aspetto non molto robusto, dalla nutrizione non florida, dai muscoli non ben sviluppati. È calvo, biondiccio, ha capelli ricciuti, baffi e barba castano chiaro, occhi grigi. Occipite prominente, depressione frontale sinistra; la faccia è asimmetrica, più larga a sinistra che a destra; la volta palatina è un po’ profonda e gli angoli sono accentuati; le orecchie sono impiantate a diverso livello. La sua statura è di m. 1,69, mentre la grande apertura delle braccia di m. 1,80. Questo complesso di anomalie morfologiche craniche va col fatto importante dell’esagerato aumento in lunghezza della grande apertura delle braccia rispetto alla statura.
Dal giorno in cui è stato rinchiuso, nonostante il Bromuro prescrittogli, ha presentato sempre leggere convulsioni in forma di brevi scosse muscolari diffuse per la persona, di vertigini, risa, gestire espressivo, involontaria perdita di urine. Tutto ciò dura qualche istante, ripetentesi a brevi intervalli e moltissime volte nella giornata. L’imputato, quando sente venire l’accesso, dice che avverte come un dispiacere salirgli dalla bocca dello stomaco.
Nei primi giorni l’imputato si presentava al medico con aria imbambolata, con fare moriaco, ballava alle volte e rideva di un riso ebete. Non sapeva bene dove trovavasi, girando l’occhio talvolta maravigliato qua e là. La notte alzavasi di letto dicendo di volersene tornare a casa. Nei giorni che seguirono egli incominciò a comprendere meglio di essere in carcere per avere ucciso la moglie, ma su questo punto mostravasi poco persuaso, non ricordando bene quanto si era svolto dopo il momento in cui aveva percosso con il cozzo della scure la infelice. Al contrario ricordava particolari lontani della sua vita passata: diceva che era stato a Cosenza a fare il militare e vi aveva ottenuto il grado di caporal maggiore; che era stato in America in un paese in cui i lavoratori soffrivano molto e facevano i vermi sotto le unghie. Ogni tanto s’interrompeva, si arrestava dicendo di sentirsi come “impappagallato”.
Comprendeva che chi lo interrogava era medico e che gli giovava essere ritenuto per pazzo (quest’ultima circostanza gli fu forse suggerita dai suoi compagni).
Interrogato sulla faccenda della moglie si manteneva tenace nella credenza che costei volesse ucciderlo per suggerimento di altre donne. Negava di volere uccidere la cognata. Alla domanda se, trovandosi di nuovo nella istessa posizione di prima avesse ucciso la moglie oppure no, rispondeva che l’avrebbe uccisa sicuramente. “PRIMA DI ESSERE AMMAZZATO IO, È BENE CHE MUOIA LEI!” e un lampo di odio guizzava nel fondo del suo sguardo. Rimproverato su ciò e dettogli che sua moglie era innocente, rispondeva: “Allora appena sarò a casa mi ammazzerò anche io!”. Ma presto lo riprendeva l’odio ed il convincimento del complotto ordito contro di lui e si lasciava sfuggire qualche frase indicante il suo malo animo verso le altre donne del vicinato ed i suoi propositi sanguinosi. Avendogli detto, il medico, che nonostante le minacce che esprimeva sarebbe stato preso in mezzo dalle sue persecutrici ed accoppato, rispose con riso minaccioso: “Lasciatele venire… mi saprò ben io aiutare da me!”.
Dopo un accurato esame freniatrico, Del Greco trae le sue conclusioni: Giovanni Falcone è affetto da epilessia vertiginosa e da alterazioni di tutta la sua individualità psicologica, tali che lo destituiscono d’ogni libertà d’azione. La coscienza morale in lui è spenta. Tale infermità può presentare in seguito qualche miglioramento. Può in seguito ripristinarsi nel Falcone una certa consapevolezza e coscienza morale, ma tale consapevolezza e coscienza morale giammai saranno così svolte e piene da far di lui un uomo irresponsabile. Il morbo non è sorto ad un tratto, ma si è lentamente preparato dai primi anni di sua vita, raggiungendo la formula presente dietro un cumulo di contingenze. Per tale ragione, il morbo è connaturato profondamente e fatalmente nel nostro soggetto. Questi sarà sempre un individuo malato e da temere, necessitoso di sorveglianza e di cura in Manicomio. Ma Del Greco, dopo aver affermato che Giovanni Falcone è privo d’ogni libertà d’azione e che la coscienza morale in lui è spenta, assicura che la stessa malattia importa una certa coscienza, una certa discriminazione di atti, una certa intelligenza pratica, limitata a quello scopo definito (difendersi, uccidere): ma tale complesso psicologico è figlio della malattia. In altre parole, lo stato di coscienza dell’imputato, prima e durante il delitto (ed anche dopo) è stato abnorme, morboso, annegante quello morale, ma da quest’ultimo assai diverso, sia per scarsezza di elementi e coordinazioni, sia perché lontano da ogni criterio ed energia morale. Che cosa significa? Significa che Giovanni Falcone era in grado, coscientemente, di premeditare il delitto e di prepararne l’esecuzione.
Detto ciò, il Professor Francesco Del Greco della Regia Università di Napoli, conclude che Giovanni Falcone è pienamente irresponsabile e, nel tempo istesso, fra gli alienati di mente più pericolosi. È il 30 luglio 1902.
Dopo appena una settimana, la Camera di Consiglio presso il Tribunale Penale di Cosenza Dichiara non farsi luogo a procedimento penale contro Falcone Giovanni per non essere punibile per il suo stato d’infermità di mente; dispone che sia messo in libertà ed ordina in pari tempo che sia consegnato all’Autorità di P.S. per i provvedimenti di legge. Tradotto, Giovanni Falcone sarà rinchiuso in un manicomio finché avrà vita.[1]
[1] ASCS, Processi Penali.