
Nel pomeriggio del 26 novembre1948 l’Appuntato Gioacchino Lio con i Carabinieri Pietro Taverna e Raffaele Spingola, della stazione di Marina di Gioiosa Ionica, stanno perlustrando la contrada Patalogna alla ricerca di latitanti, quando si imbattono in Giuseppe Coluccio e Nicodemo Papandrea, entrambi alla macchia dal 20 febbraio 1948 con a carico un mandato di cattura emesso dal Giudice Istruttore di Locri per reati contro il patrimonio.
Non appena i due latitanti, intenti a zappare, si accorgono della presenza dei Carabinieri si danno alla fuga.
– Fermi! Fermi! – urla l’Appuntato, ma i due se ne infischiano e continuano a correre.
Così, Lio a sinistra, Spingola a destra e Taverna al centro, i tre corrono all’inseguimento. Il latitante Coluccio, per sottrarsi all’inevitabile cattura, si volta e spara tre colpi di pistola, fortunatamente andati a vuoto, contro il Carabiniere Taverna, il più vicino a lui, che, per legittima difesa, esplode a sua volta due colpi di moschetto, ferendo col secondo colpo il fuggitivo alla regione antero – laterale sinistra del collo. Coluccio cade e Taverna gli è addosso e, tenendolo sotto mira col moschetto, gli impedisce di riprendere la pistola, che nella caduta è rimasta a pochi centimetri da lui.
– Non ho sparato! Non ho sparato! … – urla Coluccio, mentre l’altro latitante, approfittando del momento, riesce a dileguarsi.
Intanto sopraggiungono il Carabiniere Spingola e l’Appuntato Lio che, dopo aver raccolto la pistola ancora carica con quattro colpi di cui uno in canna, lascia i due Carabinieri a piantonare il ferito e corre in caserma per avvisare il comandante, Maresciallo Francesco Paiano, che, insieme al dottor Vincenzo Macrì ed altri Carabinieri, accorre immediatamente.
Dopo aver effettuato un sopralluogo, Coluccio viene trasportato a Siderno nella clinica del professor Talia, dove il dottor Giuseppe Mazzacuva lo visita e diagnostica che il proiettile entrato nella regione anteriore del collo, è uscito dalla regione posteriore senza ledere organi vitali e Coluccio guarirà in un mese e mezzo senza postumi. Dopo essere stato medicato, il ferito viene interrogato:
– All’arrivo dei Carabinieri stavo lavorando. Sapendomi ricercato mi diedi alla fuga e venni sparato alle spalle da uno dei militari che mi inseguivano, senza che io avessi fatto fuoco, non essendo in possesso di alcuna arma – dice al Maresciallo.
– Eppure a terra abbiamo repertato tre bossoli espulsi dalla tua pistola che, tra l’altro, è un’arma militare… Beretta calibro 9 corto, modello 1934, fabbricata nel 1942, come la mettiamo?
– Caduto a terra, si avvicinò a me un Carabiniere il quale, dopo aver gridato che occorreva dimostrare che i militari erano stati sparati, esplose in aria diversi colpi con una pistola, che poi collocò al mio fianco, malgrado le mie proteste – un’accusa gravissima.
Sembra che ad assistere al conflitto a fuoco non ci siano stati testimoni oculari che possano deporre, ma i Carabinieri accertano che nelle vicinanze si trovavano Giuseppe Andrianò, il figlio Vincenzo e Vincenzo Pugliese. Ma, mentre Giuseppe Andrianò dichiara di avere sentito sparare tre colpi di pistola, ai quali avevano fatto seguito due colpi di moschetto, il figlio e Pugliese, pur avendo inteso sparare vari colpi di arma da fuoco, non sanno precisarne la natura e specificare quali fossero stati sparati prima e quali dopo.
Dopo una ventina di giorni dal fatto, però, la difesa di Coluccio presenta un esposto al Giudice Istruttore con l’indicazione di 17 testimoni, i quali avrebbero potuto deporre che Coluccio non era armato, né aveva fatto uso di armi in occasione della sua cattura. Interrogati, i testimoni confermano la versione di Coluccio e aggiungono che non è affatto vero che sul posto ci fosse stato anche l’altro latitante Papandrea. I tre Carabinieri, interrogati a loro volta, confermano ciò che avevano verbalizzato immediatamente dopo il fatto, escludendo la presenza dei testi a discarico. C’è, però, nelle dichiarazioni dell’Appuntato Lio e del Carabiniere Spingola qualcosa che sembra non quadrare perché, pur dichiarando di avere inteso sparare prima i tre colpi di pistola e dopo i due di moschetto, non dicono di aver visto Coluccio sparare e, tanto essi che lo stesso Carabiniere Taverna, ammettono che il ferito negò subito di avere sparato, affermando che la pistola gli era stata messa vicino alla sua mano da un Carabiniere. Ma forse sono solo sottigliezze ininfluenti, così l’istruttoria viene chiusa e, il 28 ottobre 1950, Coluccio viene rinviato al giudizio della Corte d’Assise di Locri per rispondere di tentato omicidio, detenzione abusiva di arma da guerra, violenza e minaccia ai Carabinieri per opporsi alla cattura.
La causa si discute il 24 aprile 1951 e la Corte, letti gli atti ed ascoltati i testimoni e le parti, osserva che, prima di tutto, non è rimasto sufficientemente provato che l’imputato abbia sparato i tre colpi per uccidere o ferire il Carabiniere Taverna. L’assunto dei militari non tranquillizza pienamente e ciò non solo per quanto in senso perfettamente contrario hanno deposto i numerosi testi a discarico, ma anche per le stesse ammissioni dell’Appuntato Lio e dei Carabinieri Taverna e Spingola, nonché per le loro contraddizioni. Il fatto che Coluccio, non appena cadde per terra ferito, abbia protestato di non avere sparato, eccependo che la pistola gli era stata collocata vicino alle sue mani da un Carabiniere è alquanto impressionante, come pure importante è la circostanza che né l’Appuntato Lio, né il Carabiniere Spingola abbiano visto l’imputato sparare, pur essendosi trovati dietro di lui e quindi nella possibilità di vedere, come ha ammesso in udienza il Carabiniere Taverna che, in udienza, ha spostato completamente la versione prospettata nel verbale, affermando che in un primo tempo Coluccio sparò contro di lui due colpi di pistola, che dopo egli reagì con un colpo di moschetto e che successivamente l’imputato gli sparò il terzo colpo di pistola, al quale egli rispose col secondo colpo di moschetto, con cui Coluccio rimase ferito. Alla perplessità derivante da queste circostanze va aggiunta la considerazione che dal verbale non risulta spiegato che l’imputato, con i tre colpi di pistola, abbia proprio preso di mira Taverna e che non appare attendibile quanto quest’ultimo, già congedato, ha dichiarato per la prima volta in dibattimento e cioè che i proiettili gli passarono vicino. Per queste ragioni la Corte non ravvisa sufficiente la prova per l’affermazione della responsabilità dell’imputato pel delitto di tentato omicidio e nemmeno per quello di tentate lesioni, non potendosi concludere che egli abbia voluto uccidere o, quanto meno, ferire il Carabiniere Taverna. Sussistente, invece, appare la responsabilità dell’imputato pel delitto di resistenza, dovendosi escludere che egli sia stato sparato alle spalle mentre scappava, senza aver opposto alcuna minaccia contro il Carabiniere che gli stava più vicino. A parte il fatto che Taverna, il quale prestava servizio come richiamato, non avrebbe avuto ragione di ricorrere all’uso delle armi senza che alcun pericolo gli sovrastasse, è insormontabile la constatazione del dottor Mazzacuva che Coluccio era stato ferito alla regione anteriore del collo. Ciò sta a dimostrare che l’imputato, durante la corsa, ebbe in un certo momento a voltarsi verso il Carabiniere Taverna che lo inseguiva. Se a ciò si aggiunge che il predetto militare non era fornito di pistola e che quella sequestrata certamente apparteneva all’imputato, latitante per gravissimi reati contro il patrimonio per i quali, con recente sentenza di questa Corte di Assise, venne condannato a sedici anni di reclusione, tanto che nessuna giustificazione fu in grado di fornire al Maresciallo sul possesso dell’arma, appare chiaro che egli, nel voltarsi verso il Carabiniere, se propriamente non lo sparò, ebbe indubbiamente a minacciarlo con la pistola per indurlo a desistere dall’inseguimento, essendosi in tal modo opposto, mediante minaccia con arma, a un pubblico ufficiale che compiva un atto del suo ufficio, è indiscutibile la sua responsabilità per il reato di resistenza, dato il suo stato di latitanza.
Ferme restando le responsabilità dell’imputato accertate dalla Corte, i fatti dovrebbero essersi svolti così: Coluccio e Papandrea, visti i Carabinieri, scapparono. Coluccio, vistosi inseguito a breve distanza, si girò e puntò l’arma verso Taverna, che gli sparò due colpi di moschetto, ferendolo. Coluccio cadde e gli scappò di mano la pistola, raccattata da Taverna che, per giustificare maggiormente i colpi sparati e il ferimento, pensò, maldestramente, di esplodere in aria tre colpi con la pistola di Coluccio e di fornire, insieme all’Appuntato Lio e al Carabiniere Spingola, una versione falsa dell’accaduto.
Adesso non resta che determinare la pena da infliggere all’imputato. La Corte assolve Coluccio Giuseppe dalla imputazione di tentato omicidio per insufficienza di prove e lo condanna complessivamente, per i reati di resistenza (aggravato dallo stato di latitanza e dall’arma) e di porto abusivo di arma da guerra, ad anni 3 di reclusione e lire 10.000 di multa, oltre le spese. Poi, applicando gli articoli 1 e 3 del DPR 23 dicembre 1949 n. 930, dichiara condonati anni 2 della pena e l’intera multa.
Il 9 marzo 1952 la Corte di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso di Coluccio.[1]
[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Locri.