DIARIO DI UN DELINQUENTE PENTITO

AVVERTENZA

 

Qualche anno fa venni casualmente in possesso di alcune fotocopie di documenti riguardanti il pluripregiudicato Giuseppe Carlomagno, meglio conosciuto come il “bandito Carlomagno”. Le carte pervenutemi non sono atti giudiziari, non ci sono date, né descrizioni precise dei fatti criminosi. Queste carte sono, come egli stesso lo chiama, un “diario”, testualmente diario di un delinquente pentito. Per onestà intellettuale devo chiarire che sulla prima pagina del “diario” c’è questa annotazione, scritta non si sa da chi: “E se fosse stato ricopiato?”. Personalmente non credo che si tratti di un falso, ma sono convinto che Carlomagno, durante la sua prima, lunga detenzione, abbia dettato la sua storia al cappellano del carcere, che lo ha messo per iscritto, senza ovviamente trascurare il suo ruolo di “pastore di anime”. Alla fine c’è un frammento che ricostruisce l’ultimo processo a cui fu sottoposto. Il diario è abbastanza lungo ed il ruolo che ho assunto per raccontare questa storia è stato sia quello di togliere ciò che non è significativo ai fini del racconto, sia quello di collegare il diario al frammento con le poche notizie che sono riuscito a recuperare qua e là. In ogni caso è una storia di dolore, misticismo, redenzione, fede e, perché no, amore, che merita di essere letta anche da chi, come me, non crede.

 

DIARIO DI UN DELINQUENTE PENTITO

 

(…) Durante la mia infanzia fui compensato delle mie paure da bei sogni spirituali, nei quali mi pareva di vedere Gesù che parlava e camminava. Questi sogni erano particolarmente vividi ed attraenti quando era più forte la mia paura di addormentarmi.

A scuola progredivo poco e smisi di studiare dopo la quinta elementare. Non riuscivo a concentrarmi e avevo poca memoria. Avevo otto anni quando mi accadde il fatto che ebbe una influenza deleteria su tutto il mio avvenire. Per tre settimane mia sorella si era affannata a farmi entrare in testa una strofa di quattro versi per il saggio scolastico. Quando arrivò il giorno mi sentivo tranquillo. La sala era affollata, c’erano tutte le mamme dei bambini che dovevano recitare; provai un senso di delusione perché non c’era nessuno dei miei a incoraggiarmi e a rallegrarsi del trionfo di cui mi sentivo sicuro. La mia madre era troppo occupata, il babbo era al lavoro. Quando toccò a me, mi alzai e salii sul palco sicuro di me. Guardai l’uditorio con fierezza e incominciai, ma arrivato alla metà non seppi andare avanti; mi agitai goffamente, tentai di ricordare, ma inutilmente. La faccia mi bruciava dalla vergogna. Qualche bambino cominciò a ridere e presto tutta la sala risuonò di risate. La maestra stessa, mentre cercava di frenare gli altri, non sapeva trattenersi dal ridere. Scappai via, mortalmente offeso.

La mia prima rissa fu il risultato di questo fiasco. Ho meditato questa situazione, di bambino, alla luce di un’altra esattamente uguale nella quale mi trovai, da adulto, e dove fuggii. (…) Il risultato della mia fuga, in quel saggio scolastico, fu che odiai i bambini della mia età e cercai la compagnia dei ragazzi più grandi. A dodici anni avevo abbandonato il mondo dei ragazzi per attaccarmi a quello degli adulti. Ma ero un bambino con la mentalità di un uomo. Ciò era pericoloso perché i vizi degli uomini sono causati dalla passione ed io ero un bambino innocente. Cominciai a giocare e a bere, poi rubai. Nella prima adolescenza ero già un delinquente inveterato. Molti tentarono di aiutarmi ma, nonostante le buone intenzioni, non fecero che peggiorarmi.

Case di correzione, carceri, colonie penali, tutto fallì per la semplice ragione che io non volevo correggermi! Dio solo può aiutare colui che non sente il desiderio di aiutare sé stesso. Nemmeno mio padre, con tutto il suo grande amore, riuscì ad ottenere un mutamento nel genere di vita che avevo deciso di condurre. Per anni egli non risparmiò né tempo, né energia, né denaro nel tentativo di correggermi. Per me egli perse la sua reputazione di uomo di buon senso, per me sacrificò gli amici, divenne lo zimbello di tutti, fu oggetto di pietà, ma sempre mantenne fede in me.

Mi sembra, ora, sintomatico il fatto che, da giovane, mio padre aveva sentito la vocazione al sacerdozio e non vi aveva corrisposto. Avrebbe poi imparato, con la sua amara esperienza, che chi agisce contro l’ispirazione rischia di perdere la grazia. L’epilogo del suo intimo dramma fu un senso di colpa: era convinto di aver contribuito col suo esempio a far di me un delinquente. Prese il vizio di bere, poi lo vinse ma gli rimase l’incubo di ricadere perché la sua vittoria non era stata ottenuta attraverso Dio. Mia madre è una bella donna, di natura sensibile e di delicata coscienza. Dio è stato sempre la sua forza… la sua gioia. Mio padre mi diceva che ero stato il figlio del sacrificio e che mia madre, per questo, io avrei dovuto avere un grande destino. Diceva ancora: “se io ho mancato alla chiamata, tu non devi venir meno al tuo destino”. Ma mentre mio padre mi faceva questi discorsi, io meditavo già un nuovo delitto e, quasi per aggravare la sua delusione, andavo a compierlo proprio nel suo paese nativo, dove viveva mia sorella con il marito e i figli. Il mio disonore pesava già anche su questa famiglia.

Fui colto in fallo mentre saccheggiavo un negozio. La mattina dopo mio padre venne a trovarmi in carcere: era invecchiato di vent’anni, aveva il cuore infranto, eppure aveva ancora fiducia in me. Mi prese la mano senza rimproverarmi e prima di lasciarmi disse ancora: “non voglio rifiutare la mia responsabilità nei tuoi falli; forse un giorno, in qualche modo, tutto verrà rimediato”. Venne ancora a salutarmi quando dovetti partire per la mia nuova destinazione e questa fu l’ultima volta che lo vidi, poco tempo mio padre morì.

Io ero rimasto il solito criminale dal cuore indurito. In una giornata d’inverno mi trovavo in una cella isolata, ormai considerato un criminale incorreggibile, ero stato condannato a 21 anni di prigione.

La vita dissipata, l’alcoolismo, la grama esistenza che avevo condotto avevano minato la mia salute: ero diventato vecchio innanzi tempo. Avevo dinanzi a me tre possibilità: potevo sperare in una diminuzione della durata della punizione mediante una buona condotta. Potevo ricorrere al suicidio. Potevo tentare la fuga. Scelsi la terza via. I primi due tentativi non riuscirono. Infine, mentre stavo organizzando un complotto fui tradito e, con il pretesto di un’altra mancanza che non avevo commesso, fui condotto davanti alla Commissione Penale e condannato alla cella di rigore.

Mi trovo ora, dunque, in questo luogo di tortura, poiché tale è veramente questa cella, che noi detenuti chiamiamo “il buco”. Il custode mi ha lasciato avvertendomi che vi rimarrò finché non mi rassegnerò a chiedergli perdono in ginocchio, supplicandolo di esser tolto di là. Sapevo bene che non mi sarei mai abbassato a tal punto e in questa decisione trovai la mia forza. Il cancello della cella venne chiuso a chiave. Mi hanno tolto i panni, devo far passare le mani tra le sbarre, all’altezza della testa, e intorno ai polsi mi vengono messe le manette. Ogni giorno, dalle sei di mattina alle sei di sera rimarrò così incatenato. Se non chiedo perdono questa punizione può durare anche 15 giorni, ma quasi nessuno arriva a questo limite. Mentre i giorni passavano in quelle terribili condizioni, ero sorretto solo dal mio odio. Al quindicesimo giorno non mi reggevo più in piedi e per ammanettarmi hanno dovuto sollevarmi. Dopo questo giorno mi hanno lasciato ancora nella stessa cella, steso sul pavimento freddo, esaurito e sporco. Mi tengono in vita con un supplemento di cibo, ma non ho più fame, sto diventando insensibile: anche il gelo dell’inverno mi lascia indifferente. Ogni mattina il custode apre la porta e si ferma un momento ad aspettare che io mi decida ad implorare pietà, ma la mia unica reazione è l’odio crescente per quell’uomo.

Ed ecco che avviene il miracolo: e se avessi adoperato la mia energia e la mia forza di volontà per diventare migliore?

Un pensiero strano e nuovo attraversò la mia mente mentre giacevo là, solo col mio odio e la mia abiezione. Improvvisamente mi resi conto che per tutta la vita ero stato una dinamo di energia negativa. Da tanti anni non avevo più avuto un solo pensiero costruttivo.

È quasi impossibile ridire in parole quello che provai: era quello che si suol dire un’esperienza mistica, ma io allora non lo sapevo. Nella mia coscienza si era formata una specie di vuoto, eppure mi rendevo conto che una completa trasformazione sarebbe avvenuta nella mia vita. Per molto tempo rimasi in uno stato di incoscienza, poi cominciai a sognare in modo vago e confuso. Frammenti della mia vita, senza né principio né fine, mi attraversavano la mente. Poi, ad un tratto, la forma ed il contenuto di questi sogni mutò e diventarono più razionali ed anche più chiari e più belli nella forma e nell’essenza. Mi ricordai di avere già avuto questo genere di sogni quando ero bambino e infine mi resi conto che stavo sognando colui che da tanti anni cercavo di evitare; Gesù Cristo. Mi pareva di vederlo in un giardino e mi ricordai che questo sogno era proprio quello che feci da bambino, ma ora mi appariva pieno di significato. Gesù mi veniva incontro, vedevo le lue labbra muoversi, ma non sentivo le sue parole. Si fermò accanto a me e mi guardò negli occhi come per penetrare la mia anima (…). Per una misteriosa facoltà di percezione che operava nel mio sogno, mi pareva di sentire chiaramente che stavo vedendo e sentendo qualche cosa che avrebbe influenzato la mia vita, l’amore. Restai in uno stato di lucidità mentale per un tempo che mi parve infinito. Come prima avevo sentito di ricevere l’amore, adesso sento il bisogno di diffonderlo. Amavo tutti gli uomini, quelli che avevo offeso per lenire le ferite che avevo loro inflitto e quelli che mi avevano offeso e desidero il loro bene. Detestavo solo le terribili condizioni che essi impongono gli uni agli altri e a sé stessi (…). Sentivo che dopo questa esperienza dovevo cambiare vita o morire (…).

Dopo la mia conversione tornai alla solita vita del carcere pieno di zelo e di luce interiore, traboccante del desiderio di far parte agli altri delle grazie ricevute. Andavo d’accordo coi custodi, ma i compagni non potevano capire il mio nuovo comportamento. Avevo sempre predicato il vangelo dell’odio, ero stato a capo di tutte le ribellioni e adesso avveniva tutto il contrario (…).

Malgrado le prove che avevo raccolto sul potere dell’amore, venne un giorno in cui fui sul punto di rinnegarle: uno dei miei amici di prima mi oltraggiò per il mio cambiamento. Tentai di dominarmi. Egli mi disse che ero un vile e io sapevo di non essere mai stato tanto coraggioso in vita mia. Mi sfidò dicendomi che se ero davvero tanto coraggioso, alla nostra prossima riunione dovevo salire sul palco e raccontare a tutti la bella storia della mia conversione. Io non avevo mai pensato a questa forma di coraggio e il solo pensarci mi faceva rabbrividire. Mi rividi bambino nel giorno del saggio, davanti a un gran pubblico e mi si ripresentò il ricordo di quel fiasco. Sentii che poteva ripetersi e provai un vero terrore all’idea dell’umiliazione che avrei potuto subire davanti ai compagni, desiderosi di vendicarsi. Svanì in me l’eroismo dell’amore, la fiducia in Dio e mi sentii solo col tormento della sfida lanciatami, ma con ostentazione di coraggio la accettai. Mi iscrissi per parlare alla prossima riunione, cominciai a preparare e imparare a memoria il mio discorso. Quando montai sul palco credevo di svenire. Vedevo vagamente davanti a me gli uditori con gli abiti logori e i volti scettici. Il cuore mi batteva e una fitta nebbia mi avvolgeva la mente. Quando mi fu data la parola tremavo violentemente e non so come riuscii ad alzarmi. Fui accolto da un brusio di fischi. Un’onda di ridicolo si rovesciò su di me. Attesi che cessasse. Improvvisamente si fece un silenzio mortale. Avevo la gola secca, la lingua gonfia e non riuscii a pronunziare una sola parola. Allora si ripetè la famosa risata oltraggiosa, terribile. Non potei sopportarlo, era il mio secondo fallimento e mi apparve ben più grave del primo. Scappai, eroe sconfitto, vigliacco dichiarato, tra la più rumorosa e crudele canzonatura (…). Sul momento decisi di abbandonare le mie recenti risoluzioni per tornare nelle grazie dei miei simili (non immaginavo, allora, che sarei poi tornato su quel palco per essere accolto con rispetto ed applausi, ascoltato con attenzione). In quel momento accadde un miracolo: entrò un custode e mi fece cambiare cella. Così cominciò la mia seconda conversione e con essa anche il lavoro di delinquente pentito.

Mi trovai in cella con un vecchio ergastolano, dotato di grande spiritualità e di profonda comprensione. Fu lui che mi insegnò a perfezionarmi nella via dell’amore e a farmi pentire nel carcere stesso. Occupai molti posti di fiducia e seppi conquistarmi l’amore dei compagni. Recuperai la salute rovinata da tanti anni di vita dissoluta. Molti nuovi pensieri mi furono suggeriti dall’ergastolano. “non vantarti della tua conversione” mi disse un giorno “finché ti lascerai turbare dalle chiacchiere degli altri, finché sentirai di più le colpe degli altri che non le tue proprie, finché troverai modo di scusare le tue debolezze e buttare sulle spalle degli altri i tuoi insuccessi”. E, ancora, mi insegnò il segreto di essere intimamente attivo in una calma esteriore. Nella luce di questa nuova pace molte opposizioni si placarono, molte vie di salvezza si apersero. Gli insegnamenti dell’ergastolano mi aiutarono a superare vecchi rancori. Ho trovato, così, degli amici nel mio cappellano, nel direttore e nel medico del carcere, che prima credevo avversi a me. Chiesi al cappellano di pregare anche per la mia salute fisica: il cappellano ne fu così commosso che me lo promise dicendomi che la mia fiducia lo compensava di tante delusioni avute nel suo ministero. Dall’ergastolano imparai anche l’arte di distendere i nervi e di concentrarmi.

Prima di questa esperienza ero un criminale indurito, dopo di essa sono completamente guarito dalle mie tendenze morbose. Questa guarigione mi ha dato un senso di sicurezza nella mia capacità, che si può precisamente chiamare fede.

 

Giuseppe Carlomagno finisce di scontare la pena e torna nel suo paese. Sarà vero il suo cambiamento? È veramente pronto per rientrare a far parte del consesso civile? Sembra di sì: trova lavoro come aiuto cuoco in un piccolo ristorante, conosce una donna con la quale costruisce una famiglia, ha dei figli.

Passa così qualche anno, poi una notte, a Morano Calabro, l’agricoltore Carmelo Mainieri, svegliato da rumori sospetti, si alza e si accorge che alcuni ladri, dopo avergli sottratto una sveglia, stanno portando via dalla stalla due mucche. Cerca di reagire ed entra in colluttazione con un malvivente che lo uccide barbaramente a colpi di scure e di baionetta. C’è un testimone oculare che giura di aver riconosciuto nell’assassino Giuseppe Carlomagno e con dovizia di particolari indica anche il posto dove l’assassino ha nascosto la baionetta, puntualmente ritrovata e sequestrata. Ma alla difesa viene negata la perizia sull’arma e sulla compatibilità di questa con la ferita che ha prodotto. Le cose per Giuseppe si mettono male e si mettono anche peggio quando suo fratello Biagio testimonia contro di lui affermando di essere stati loro due a tentare il furto, che a compiere materialmente l’omicidio è stato Giuseppe e a niente serve l’alibi, documentato, che Giuseppe fornisce.

Il rinvio a giudizio è cosa fatta, ad occuparsene è la Corte d’Assise di Castrovillari e a raccontarcelo è lo stesso Giuseppe, ma questa volta è egli stesso a scrivere di suo pugno.

La Corte ebbe dubbi, interrogativi: è Giuseppe Carlomagno davvero un bandito? Era lui, effettivamente, a San Lorenzo Bellizzi quando a Morano Calabro avveniva la soppressione del Mainieri?

Per me concludeva il mio grande penalista delle Calabrie e di tutta l’Italia Baldo Pisani, cercando di dimostrare la mia completa innocenza e ammoniva la Corte a non cadere in un errore giudiziario. Ma il valore del mio grande Avvocato ha cozzato contro la confessione di mio fratello Biagio, che ha costituito la fonte dell’accusa. Così il grido spasmodico del pubblico che pronunciava la mia innocenza “a morte, a morte il colpevole, fuori, fuori Giuseppe Carlomagno, egli è innocente!”. Pollice verso per noi fratelli Biagio e Giuseppe Carlomagno. La Corte, dopo essersi trattenuta in Camera di Consiglio ben quattro ore, ha condannato me all’ergastolo e Biagio ad anni ventidue e mesi otto per omicidio a scopo di rapina.

L’avvocato Pisani ricorre in appello e anche questa volta è Giuseppe a raccontare:

Corte d’Assise d’Appello di Catanzaro.

Dopo ben otto anni di tortura, finalmente venne il giorno dell’udienza. Il mio caro e grande penalista attaccò e dimostrò alla Corte che l’armi che Biagio Carlomagno disse che erano quelle che colpirono a morte Mainieri non erano quelle che uccisero. Biagio Carlomagno è falso perché anch’egli è innocente e chiese alla Corte una commissione di periti internazionali. Così, dopo un mormorio, la Corte decide e dice di sì. Dopo alcuni giorni i periti sono in aula, uno francese, uno tedesco e uno italiano. Dimostrarono anche loro alla Corte che l’armi non erano quelle che uccisero il povero Mainieri.

Il mio grande penalista, vittorioso, cominciò la sua arringa e dopo ben otto ore di difesa, chiese la formula piena. La Corte si ritira in Camera di Consiglio e decide il proscioglimento per insufficienza di prove per me e per mio fratello Biagio.

L’odissea è finita, Giuseppe è davvero cambiato, ma questa nuova lunga detenzione potrebbe essere la sua definitiva rovina: troverà lavoro?

Giuseppe chiede aiuto, un posto di lavoro che salvi un povero delinquente pentito, restituisca a una povera famiglia il suo appoggio e alla società un cittadino riedificato dalla sventura, capace ancora di far bene.

Posso promettervi che le dolorose lesioni del passato mi guideranno per l’avvenire sulla via della virtù e dell’onore. Gesù l’ha detto: cercate e troverete! Bussate e vi sarà aperto! Chiedete e vi sarà dato!

Giuseppe ce l’ha fatta.