IL CIONDOLO A FORMA DI CUORE

È il 19 luglio 1916, mezzogiorno. Una giovane donna bussa alla caserma dei Carabinieri di Verbicaro per fare una denuncia. Il Vice Brigadiere Domenico Coliandro ascolta il suo racconto:

– Sono Rosa Campagna, ventisette anni, donna di facili costumi. Verso la mezzanotte vennero a bussare alla porta della mia abitazione, sita in via Santa Venere di Grisolia, Antonio Zito, Antonio Vergara, Giuseppe Liserre, Giovanni Serra e Giuseppe Marino, tutti da Grisolia, ma io loro risposi di andarsene via perché non mi volevo fare fottere quella sera. Questi continuarono a bussare affinché aprissi. Io, essendo affetta da isterismo, in quel momento svenni e dopo rinvenuta vidi che la porta l’avevano aperta con qualche chiave falsa o forse avevo dimenticato di chiuderla. Detti individui, penetrati nella mia abitazione, mi assalirono strappandomi dal collo con violenza un fermaglio di oro a forma di cuore col relativo laccetto di oro, il tutto del valore di 5 lire, e poscia si impossessarono della chiave della porta d’ingresso del valore di circa una lira e mezza. Di più mi fecero delle ecchimosi sul labbro superiore sinistro e sul polso sinistro, guaribili in dieci giorni – dice mostrando il labbo, il polso e porgendo il referto medico, poi continua –. Soggiungo che mi trovai pure bagnata la vulva di sperma, in modo che i suddetti individui si congiunsero con me carnalmente, sfogando così la loro libidine. Stamane, verso le sei, Antonio Vergara, visto che mi recavo a Verbicaro per la denunzia di questo grave delitto, si accostò a me e, presami per il braccio, mi disse “non andare a reclamare contro di me altrimenti ti uccido!”. Espongo formale querela contro i suddetti per violenza carnale, rapina, lesioni e violazione di domicilio.

– C’erano testimoni quando Vergara pronunciò la minaccia?

– Sì, Rachele Perrone e Maddalena De Patto.

Il Vice Brigadiere con i suoi uomini va a Grisolia, constata la veridicità della denuncia di Rosa e si mette sulle tracce dei cinque uomini. Verso le 18,30 rintraccia Giuseppe Liserre e poi Giovanni Serra e Antonio Zito. Portati nella stanza del Municipio adibita a caserma, i tre raccontano che verso le ore 22 del 17 luglio, recatisi avanti l’abitazione della Campagna, videro che lo sportello della porta d’ingresso era socchiuso e allora si introdussero in detta abitazione. Zito e Marino si avventarono contro la Campagna, in modo che il Marino le dava pugni e schiaffi e lo Zito le strappò dal collo il fermaglio col relativo laccetto. La Campagna svenne ed il Marino si congiunse carnalmente sfogando così la sua libidine. Poscia si allontanarono indisturbati. E il ciondolo col laccetto che fine ha fatto? Zito ha consegnato il ciondolo alla sua fidanzata Mariantonia Mulé, mentre il laccetto cadde per terra quando lo strappò dal collo di Rosa. A questo punto Coliandro si fa accompagnare da Giovanni Serra a casa di Mariantonia Mulé e sequestra il ciondolo. Poi va a casa di Rosa e sequestra un cencio col quale si pulì la vulva, riscontrando macchie di sperma e di sangue, siccome la donna aveva la mestruazione.

Adesso bisogna rintracciare Antonio Vergara e Giuseppe Marino.

Ma il 20 luglio c’è un colpo di scena: Rosa si presenta in Pretura a Verbicaro e rimette la querela contro i cinque. Quando il Pretore le chiede il motivo della decisione, risponde:

Sebbene i fatti si sono svolti come ho dichiarato ai Carabinieri, mi sono decisa alla desistenza per non andare girando, per non aver seccature e perché premurata dai parenti degli imputati.

Ma la remissione non ha alcuna efficacia perché i reati per i quali si procede – violenza carnale commessa da più persone riunite in tempo di notte, rapina, violazione di domicilio commessa da più persone riunite in tempo di notte, lesioni e violenza privata –, essendo punibili con oltre tre anni di reclusione, sono perseguibili d’ufficio.

Il venticinquenne Giovanni Serra, interrogato dal Pretore, cambia la versione fornita ai Carabinieri:

Verso le 22 della notte dal 17 al 18 luglio, io, Antonio Zito, Antonio Vergara, Giuseppe Liserre e Giuseppe Marino ci trovavamo per caso ancora fuori ed eravamo ad un quindici o venti metri dalla casa di Rosa Campagna, quando a Marino venne l’idea di andare a sfogare la sua libidine sulla Campagna. Distaccatosi dagli altri si diresse verso la porta di costei dicendo: “ora vado a fare gli affari miei”. Difatti, arrivato alla porta bussò e la Campagna andò ad aprire in camicia e come vide Marino gridò: “vattene che non ti posso alloggiare”, al che Marino rispose: “come? Non mi vuoi alloggiare? Altre volte mi hai alloggiato e ti ho pagata”, quindi, datale una spinta, entrò e con forza la buttò sul letto. Noi altri quattro, mossi a pietà per la poveretta, credemmo opportuno entrare e come io fui all’interno, vidi, al pari degli altri, che Marino sul letto teneva stretta la donna che invano gridava “lasciami ire… non voglio fottuta da te!” e faceva sforzi per liberarsi. Marino aveva già sollevata la camicia alla poverina e già il suo membro era duro. Allora dissi: “lasciala stare… ella non ci ha piacere… è cosa inutile prendere la donna a forza quando non ha piacere”, ma Marino non mi dette ascolto e per vincere la resistenza della donna le dette pugni e schiaffi sul viso e nelle altre parti del corpo. Poiché la Campagna, dopo un cinque minuti di lotta, anche perché affetta da isterismo, svenne, Marino ne profittò per introdurle il membro e fare il comodo suo. Io e Zito, mentre ancora Marino esercitava il coito sulla donna, avemmo una sensazione di disgusto. Zito raccolse da terra un fermaglio d’oro caduto al lato del letto allorché la Campagna colluttava con Marino e indi entrambi uscimmo, non senza portare lo Zito il fermaglio con sé allo scopo di restituirlo poscia alla donna e disse: “è meglio che lo conservo io visto che non si può dare ad issa che è un pezzo di marmo”. Infine io e Zito, dopo aver commentato con aspre parole la bravata di Marino, rincasammo e non so cosa fecero Marino, Liserre e Vergara in casa della Campagna. Quando ci arrestarono, seppi dallo Zito che il fermaglio lo aveva consegnato alla sua fidanzata.

– Al Brigadiere però hai detto di aver visto Zito che strappava il fermaglio dal collo della donna.

– Non è vero, al Brigadiere raccontai l’accaduto nei precisi termini usati con Vostra Signoria, cioè che quando Zito raccolse dal pavimento il fermaglio, io, lo ripeto, ero dentro e pertanto con cognizione di causa posso affermare che non toccò la donna.

Anche Antonio Zito cambia versione e nega di aver detto al Brigadiere Coliandro di avere strappato dal collo di Rosa Campagna la catenina ed il ciondolo, ripetendo parola per parola la dichiarazione fatta dal suo amico Giovanni Serra, con una sola differenza: appena raccolse il ciondolo dal pavimento lo consegnò a Marino che lo buttò a terra perché badava a fottere, e allora lo raccolse di nuovo e pensò di conservarlo per restituirlo alla donna il giorno successivo. La nuova versione fornita dai due potrebbe spiegarsi col fatto che hanno avuto modo di concordarla durante i giorni trascorsi insieme in carcere. Scommettiamo che anche Liserre ha cambiato versione? Troppo facile rispondere di sì, è scontato essendo stato insieme agli altri due nella stessa cella.

Mariantonia Mulé, la fidanzata di Zito, dal quale ha avuto il ciondolo a forma di cuore ed il laccetto di oro sottratti a Rosa Campagna, viene denunciata a piede libero per ricettazione. Interrogata con mandato di comparizione, sorprende tutti:

La mattina del 18 luglio io, Antonio Zito, sua sorella Rosa e Rachele Crusco andavamo da Grisolia alla marina, quando Zito, rivolto a noi donne disse: “qualcuna di voi tre deve conservare questo cuoricino d’oro perché stasera lo dovrò restituire alla padrona… le saccocce del mio vestito sono rotte” ed in ciò affermare consegnò a me un piccolo fermaglio a forma di cuore, che io mi misi in tasca. Dopo di aver fatto due viaggi di paglia dalla marina, io, ritornata in paese, andai a portare il fermaglio alla madre dello Zito, ma costei lo rifiutò osservando che non era roba sua ed io allora, allo scopo di non perderlo, lo deposi su una tavola in un casaleno vicino la nostra abitazione, che la mia famiglia ha in fitto. Verso sera venne da me Giovanni Serra e mi richiese il fermaglio perché, diceva, doveva consegnarlo ai Carabinieri ed io pronta glielo detti.

– Zito te lo ha dato in regalo perché sei la sua fidanzata!

Nego nella maniera più assoluta di essere, o di essere stata, la fidanzata di Antonio Zito. Anzi, vi informo che il mio promesso sposo è Nicola Presta.

– Eppure tutti dicono che sei la fidanzata! Zito ti disse a chi doveva consegnare il fermaglio e come lo aveva avuto?

Zito, nel consegnarmi il fermaglio non spiegò alcuna circostanza intorno alla provenienza, né io ebbi cura di domandarlo in proposito. Sino al momento in cui lo diedi a Serra ignoravo che appartenesse a Rosa Campagna e pertanto non versavo in dolo allorché malauguratamente accettai di conservare il fermaglio.

– Perché non hai consegnato anche il laccetto?

Del laccetto che sarebbe stato tolto a Rosa Campagna io non so proprio nulla!

– Perché lo hai conservato nel casaleno e non in casa? Per nasconderlo?

Misi il fermaglio sulla tavola del casaleno senza uno scopo e non per nasconderlo!

Intanto il 2 agosto 1916 viene arrestato e interrogato Antonio Vergara:

Dirò la pura verità – esordisce – non erano le 22 della notte dal 17 al 18 luglio, quando di ritorno dalla casa di Vincenzo Novello, ove ero stato per riscuotere pochi soldi, passavo per via Santa Venere, che conduce alla mia abitazione, ed intesi chiasso nella casa di Rosa Campagna, che rimaneva a porta aperta. Per curiosità, anche perché la casa era illuminata, andai e trovai la Campagna in camicia sul letto ed al lato del letto Giovanni Serra, Antonio Zito, Giuseppe Liserre e Peppino Marino che parlavano. Dall’atteggiamento dei giovanotti e dalla posizione della donna, supina a letto, mi convinsi che i quattro, o qualcuno di essi, si erano congiunti con la donna e tale mia convinzione divenne più ferma per il fatto che la Campagna diceva: “datemi almeno qualche cosa… io ora non me la fido e domani debbo andare a lavorare… datemi almeno qualche cosa…”. I quattro giovani rispondevano “no, noi non ti diamo niente” e subito si allontanarono a passo piuttosto lesto e come furono all’aperto chi prese una strada e chi un’altra. Io, dopo usciti i quattro, non ebbi premura di domandare alla donna cosa fosse accaduto e me ne uscii pure, andando di filato a casa. La mattina seppi da Carmela Longo che la Campagna era andata da lei per dirle che sarebbe venuta a Verbicaro a proporre querela anche contro di me, ond’io, che mi sentivo tranquillo con la coscienza ma temevo di poter essere coinvolto in un fatto al quale ero estraneo, commisi la sciocchezza, lo confesso, di raggiungere la Campagna che camminava alla volta di Verbicaro, di toccarla per un braccio e di dirle: “bada, non mi ci mettere perché io non c’entro, ci hai da mettere a chilli chi su venuti a insultarti. Per la Madonna, a mia ca signu innocente non mi ci mittere ca la fazzu venì cchiù brutta!”. Ma la Campagna, dura: “lo so io quello che devo fare, me la vedo io!”. Ecco il fatto nella sua semplicità. Lo giuro sui miei figli, io non mi congiunsi, non ne avevo bisogno, con la Campagna e non so chi e come con lei si congiunse; io non strappai o tolsi alla poveretta il fermaglio ed il laccetto, né vidi chi glielo strappò o tolse!

– E se è così perché vi siete dato alla latitanza?

Ciò ho fatto perché mi sentivo e mi sento innocente. È certo che a nessuno piace rimanere in carcere senza avere commesso niente di male!

– Però Giovanni Serra, Antonio Zito, Giuseppe Liserre dicono che voi e Marino siete entrati prima di loro in casa della Campagna ed eravate presente quando Marino si congiungeva con la donna mentre era svenuta…

Lo nego nella maniera più recisa! Non so nemmeno se la donna svenne, visto che la trovai stanca di forze che chiedeva di essere pagata. Serra, Zito e Liserre mentono se affermano che entrarono quando già ci eravamo io e Marino. I tre hanno commesso la fesseria ed ora vogliono scaricarla su di me! Anzi, per essere più sincero voglio aggiungere che Marino, incontratomi durante la latitanza, mi propose di negare e di dichiarare che noi due non eravamo entrati in casa della Campagna, ma che avevamo soltanto spiato dalla porta, ma io non accettai.

Ricapitolando brevemente, Serra, Liserre e Zito accusano il latitante Marino di aver percosso e violentato Rosa Campagna, mentre Vergara lascia intendere che a violentare la donna furono tutti e quattro, dal momento che non vollero pagarla. È ormai guerra aperta tra gli imputati, ma le ritrattazioni, le contraddizioni in cui incorrono gli imputati durante i tanti confronti a cui vengono sottoposti e, soprattutto, l’affermazione di Vergara sul mancato pagamento della donna convincono definitivamente gli inquirenti della responsabilità di tutti e cinque in ordine ai reati loro contestati. Tutti avevano preordinato e concertato di entrare nella casa e godere gli amplessi della Campagna e ciò praticarono con la violenza di fronte alle ripulse della donna.

D’altra parte, però, bisogna ammettere che tra confronti e deposizioni di testi più o meno reticenti o di favore, tutto rischia di ingarbugliarsi e di far naufragare l’istruttoria, ma la Procura ritiene di aver acquisito prove sufficienti e chiede alla Sezione d’Accusa di rinviare a giudizio tutti gli imputati, compresa Mariantonia Mulé.

Il 4 novembre 1916 la Sezione d’Accusa, in parziale difformità con le richieste della Procura, rinvia al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza Antonio Zito, Antonio Vergara, Giuseppe Liserre, Giovanni Serra e Giuseppe Marino per rispondere di violenta congiunzione carnale, lesioni personali e violazione di domicilio; dichiara non doversi procedere per insufficienza di prove a carico di Antonio Vergara, Giuseppe Liserre, Giovanni Serra e Giuseppe Marino per il reato di rapina, reato di cui risponderà il solo Antonio Zito; Antonio Vergara dovrà rispondere anche dei reati di minacce e violenza privata; infine, Mariantonia Mulé dovrà rispondere di ricettazione.

La guerra infuria, gli imputati vengono richiamati alle armi e il dibattimento viene sospeso e per discutere la causa si arriva al 23 giugno 1922, sei anni dopo i fatti. Nel frattempo gli imputati sono stati rimessi in libertà per la scadenza dei termini della carcerazione preventiva, con Marino sempre latitante. All’udienza non si presenta nemmeno Vergara e anche lui verrà giudicato in contumacia. Nei confronti di Antonio Zito, Giuseppe Liserre, Giovanni Serra, Giuseppe Marino e Mariantonia Mulé viene applicato il R.D. 2 settembre 1919, N. 1531 di amnistia, emanato per festeggiare la vittoria della guerra, riguardo ai reati loro ascritti di violazione di domicilio, lesioni personali, rapina e ricettazione. Mariantonia Mulè può già lasciare l’aula, mentre gli altri tre dovranno aspettare il giorno dopo quando la Corte, letto per bene il decreto di amnistia lo applica anche per quanto riguarda il reato principale, quello di violenta congiunzione carnale, che applica anche nei confronti del latitante Giuseppe Marino, e li manda assolti.

Resta il solo Antonio Vergara, latitante, che viene giudicato col rito contumaciale il 25 maggio 1923 ed anche nei suoi riguardi viene applicato il R.D. 2 settembre 1919, N. 1531, così al Presidente del Collegio Giudicante non resta che dichiarare estinta l’azione penale per i reati ascrittigli.[1]

Abbiamo vinto la guerra ed è giusto festeggiare rimettendo in libertà fior di galantuomini, le vittime se ne facciano una ragione.

[1] ASCS, Processi Penali.