
È il pomeriggio del 28 luglio 1935 quando Giovanni Amodeo bussa alla caserma dei Carabinieri di Motta San Giovanni in provincia di Reggio Calabria. Gli apre il piantone, l’unico militare presente perché gli altri, compreso il comandante, sono fuori per servizio. Con parole concitate Amodeo gli dice:
– Dovete venire subito in contrada Martino per arrestare il pregiudicato Vincenzo Lollo, quello che ho denunciato un mese fa per furto e minaccia a mano armata in mio danno e che è stato condannato!
– Mi dispiace, sono da solo e non posso venire, tornate quando c’è il comandante – gli risponde il Carabiniere Allegretti.
– Ma Lollo adesso è davanti casa sua e lo potete arrestare facilmente, poi sparisce di nuovo! – insiste Amodeo.
– Mi dispiace, non posso prendere alcuna iniziativa in assenza del comandante – insiste il Carabiniere a sua volta.
Sbuffando, Amodeo se ne va e decide di agire per proprio conto, occupandosi direttamente dell’arresto di Lollo organizzando una spedizione con l’aiuto dei militi fascisti Antonino Minniti e Carmelo Panzera, la guardia municipale del luogo ed alcuni suoi coloni. Prima di far partire l’operazione, il milite Minniti, non del tutto convinto che sia una cosa lecita, va a chiedere consiglio al Carabiniere Allegretti, che tuttavia continua a rispondere di non poter prendere iniziative, vista l’assenza del comandante. Minniti fa spallucce e siccome non c’è più tempo da perdere, la comitiva raggiunge in fretta contrada Martino dove, in effetti, c’è Lollo seduto su di un cocuzzolo in compagnia di tal Domenico Calabrò, che sta aspettando di ritirare un orologio dato a Lollo per farselo riparare.
Alla vista della comitiva variamente armata, Lollo scappa verso un vicino burrone, sottraendosi così ai suoi inseguitori i quali, riuscito vano il progettato arresto, tornano indietro verso la casa di Francesco Mallamace, fratello di latte del ricercato.
Qui gli animi della comitiva si accendono e scoppia una furibonda rissa durante la quale Amodeo viene ferito con due colpi di arma da fuoco da Mallamace. Una delle due ferite, gravissima, è alla regione epigastrica e lo porterà alla morte due giorni dopo per peritonite settica conseguente a versamento di materiale fecale in cavità.
Anche Mallamace, i suoi genitori, sua moglie e il milite Minniti rimangono feriti, ma per loro fortuna in modo lieve.
Quando Amodeo, prima di morire, viene interrogato dal Pretore, racconta la sua versione dei fatti:
– Accudivo ad alcuni lavori agricoli nel mio fondo in contrada Martino, quando intesi provenire da circa cento metri di distanza delle grida. Accorsi sul posto per rendermi conto di quanto stava accadendo e notai che Vincenzo Lollo scappava impugnando una rivoltella, mentre Francesco Mallamace, con un fucile spianato, teneva a bada i militi fascisti Minniti e Pansera, affinché gli stessi non arrestassero Lollo. Visto il pericolo che correvano i militi, mi avvicinai al Mallamace e, stando alle sue spalle, riuscii ad afferrargli il fucile ed a sollevarne le canne. Cercai di disarmarlo con l’aiuto dei militi, ma Mallamace riuscì ad estrarre di tasca una pistola e mi esplose contro due colpi, mentre sua moglie, armata di pugnale, e suo padre, armato di scure, erano sul posto in atteggiamento minaccioso.
Forse Amodeo, pensando di cavarsela, ha volontariamente stravolto i fatti e taciuta la richiesta fatta al Carabiniere Allegretti per alleggerire la propria posizione e aggravare quella degli avversari, addossando ai due militi fascisti la responsabilità del tentativo di arresto di Lollo. Poi tocca a Francesco Mallamace raccontare la sua versione, che è diametralmente opposta, e le cose si ingarbugliano ulteriormente:
– Ero con mia moglie davanti casa e ho visto passare Giovanni Amodeo, suo figlio Napoleone ed altri che, brandendo bastoni e armi, inseguivano Lollo e che, poscia, non avendolo raggiunto, tornarono indietro allo scopo di dare una lezione a noi parenti del fuggitivo, su istigazione di Amodeo. Io e mia moglie ci siamo chiusi in casa per sottrarci agli aggressori, ma Amodeo, sfondato con un pugno lo sportellino della porta ed introdotto un braccio armato di coltello, mi gridò: “esci fuori, cornuto, che ti scanno!”. Vistomi a mal partito scavalcai la finestra opposta all’ingresso e, armato di fucile e pistola, mi parai alle spalle degli aggressori, che intanto erano riusciti a forzare la porta e malmenavano mia moglie ed i miei genitori sopraggiunti sul posto. Allora spianai il fucile per intimorirli, ma mi disarmarono e quindi mi tempestarono di pugni e calci. Sopraffatto, caddi sulle ginocchia e Amodeo, curvatosi su di me, mi morse la guancia destra. Ricordai di avere riposto in una tasca dei pantaloni la pistola, la estrassi e sparai due colpi per sottrarmi alla sua violenza.
Le dichiarazioni degli altri partecipanti alla rissa non chiariscono niente perché i sostenitori di Amodeo confermano la sua dichiarazione e quelli di Mallamace la versione di quest’ultimo, tranne un testimone oculare, Domenico Calabrò, che non parteggia per nessuno e che sostanzialmente conferma la versione di Mallamace.
Sarà una indagine lunga e difficile, alla fine della quale il Giudice Istruttore nella sua sentenza accetta come rispondente alla realtà dei fatti la versione data da Francesco Mallamace, che intanto è imputato di omicidio volontario, dichiarando che l’imputato agì per difendersi da una ingiusta aggressione e che soltanto per qualche fugace ombra istruttoria è consigliabile non sottrarre l’esame della situazione alla Corte di Assise e quindi mette in risalto gli elementi che lo hanno portato alla sua decisione:
- Controllo dell’esattezza della versione Mallamace a traverso le risultanze delle perizie mediche, dalle quali si rileva che i colpi furono esplosi a pochi centimetri di distanza e quello che produsse la ferita mortale alla regione epigastrica era diretto dall’alto in basso, direzione che può spiegarsi con riferimento alla posizione dichiarata dal feritore, sul cui viso fu accertato il morso.
- Rinvenimento, da parte dei Carabinieri, di alcune pietre rosse di sangue nelle immediate adiacenze della finestra ad oriente della casa di Mallamace.
- Abbandono di due berretti, una falce e una scure da parte degli aggressori; oggetti poi rinvenuti nell’abitazione di Mallamace. Si sarebbe stabilito, secondo i rilievi dell’Istruttore, che uno dei due berretti apparteneva al defunto Amodeo e fu fatto scomparire lungo il tragitto dalla contrada Martino al paese di Motta San Giovanni.
Quindi questi sono gli elementi che hanno convinto il Giudice Istruttore che l’abitazione di Mallamace, riuscito vano il progettato arresto di Vincenzo Lollo, fu veramente presa d’assalto, cosa del resto ammessa dal teste Calabrò, e che l’imputato agì in stato di legittima difesa. Ma il Giudice Istruttore ha già anticipato che sussiste qualche fugace ombra sulla vicenda e quindi rinvia Francesco Mallamace al giudizio della Corte d’Assise di Reggio Calabria per rispondere di omicidio volontario.
La Corte reggina, però, respinge come inaccettabili tutte le prove sostenute dal Giudice Istruttore e ricostruisce il fatto in modo opposto: non è vero che Mallamace fu aggredito in casa perché il fatto avvenne sul viottolo che fiancheggia la casa, viottolo dove Mallamace si trovava “armato come un saraceno” per impedire con la forza l’arresto di Lollo. Il disarmo dell’imputato ad opera del milite Minniti, coadiuvato da Amodeo, era legittimo per l’autorizzazione verbale avuta dal Carabiniere Allegretti di arrestare Lollo. È da escludere che Mallamace sparò nella posizione da lui sostenuta e nell’atto di subire una violenza. Dopo il disarmo la violenza adoperata a questo scopo era ormai cessata ed egli sparò non per evitare un’aggressione e nel pieno esercizio dell’autotutela, ma nello stato d’ira per il morso sul viso datogli da Amodeo, morso che andò oltre i limiti della legale violenza.
Ma come è arrivata la Corte a ribaltare completamente i risultati a cui è giunto il Giudice Istruttore? Tutto è basato sulla deposizione del milite Minniti che in fase istruttoria ha recisamente negato di avere avuto una qualsiasi autorizzazione dal Carabiniere Allegretti ad arrestare Lollo, mentre nel dibattimento ritratta e dice che l’autorizzazione, seppure verbale, ci fu e che se finora l’ha negata, è stato per non danneggiare il Carabiniere con eventuali punizioni disciplinari. Accettata la nuova versione di Minniti, la Corte pone a base delle sue osservazioni la legittimità dell’azione del milite in concorso con Amodeo nel disarmo di Mallamace e quindi afferma la responsabilità di quest’ultimo in ordine all’imputazione di omicidio volontario, con l’attenuante della provocazione per fatto ingiusto della vittima.
Mallamace ricorre immediatamente per Cassazione lamentando, tra l’altro, che la Corte d’Assise di Reggio Calabria ha valutato con motivazione affrettata e contraddittoria i fatti dai quali scaturivano evidenti gli estremi della legittima difesa. La Suprema Corte accoglie il ricorso motivando che la sentenza impugnata, attraverso una prolissa analisi di circostanze non pertinenti e una valutazione poco logica e rettilinea, ha accettato la versione profilatasi in udienza, contraria alle affermazioni dei Carabinieri e del Giudice Istruttore e che, in ogni caso, anche nelle conclusioni adottate, non scevre di vizi nel processo critico, ha omesso indagini indispensabili sotto il profilo giuridico per escludere l’accampata tesi della legittima difesa e così non ha accertato se il preteso incarico dell’arresto del Lollo era stato conferito ai militi legittimamente e se le norme di legge furono osservate nell’esecuzione di esso; come e perché all’arresto per l’esecuzione di una condanna partecipavano degli estranei quali Amodeo e i suoi coloni e perché l’azione, che se mai poteva essere diretta contro Lollo, si svolse poi contro Mallamace, nei confronti del quale neppure è stata vagliata anche la tesi della legittima difesa putativa, imposta dalla considerazione che gli stessi militi esclusero di fronte a lui di essere investiti della potestà di arrestare il fratello di latte.
Detto ciò, la Suprema Corte invia gli atti alla Corte d’Assise di Cosenza, davanti alla quale si terrà il nuovo dibattimento nelle udienze dal 24 al 28 gennaio 1939.
La Corte, letti gli atti ed ascoltati i testimoni e le parti, osserva: la Corte d’Assise di Reggio Calabria, per giungere alla condanna di Mallamace, respingendo la tesi della legittima difesa ripudiò in pieno la versione data ai fatti dai Carabinieri, le risultanze del processo scritto e le conclusioni del Giudice Istruttore fondate su elementi di prova davvero inoppugnabili. Questa Corte di rinvio, attraverso una razionale valutazione delle prove, dichiara di non poter accettare le premesse donde muove la sentenza annullata e di non poter, quindi, aderire alle conclusioni. Contro le affermazioni dei Carabinieri, ripetutamente fatte e sostenute anche nei confronti, non si può ammettere che i militi fascisti abbiano avuto l’autorizzazione di procedere all’arresto del Lollo. Se tale autorizzazione davvero fosse intervenuta, sarebbe stata immediatamente segnalata per la grande, anzi decisiva importanza che avrebbe avuto nei riguardi di Amodeo e dei militi. Invece tace l’uno nella sua dichiarazione resa ai Carabinieri e al Pretore prima di morire, tacciono gli altri, sfidando le conseguenze di un procedimento penale a cui vennero sottoposti per lesioni e violazione di domicilio e del quale si sono liberati con la formula dubbia della insufficienza di prove. Ora, questa strana forma di solidarietà da parte dei militi fascisti coi Carabinieri non può spiegarsi senza sovvertire l’ordine logico delle cose, perché nessuno è disposto a correre l’alea di un processo quando sa di essere assistito da ragioni insuperabili. Tutto quello che è avvenuto dopo avanti la Corte d’Assise di Reggio Calabria, a distanza di circa due anni, non può distruggere l’imponenza di certe situazioni. Se mai dimostra la tenacia con cui si cercò tardivamente di deformare la verità già acquisita al processo attraverso fonti insospettabili e cioè per bocca di coloro che avrebbero avuto immediato ed impellente interessa a parlare, mentre invece hanno taciuto. Amodeo e gli altri hanno tentato di procedere all’arresto di Lollo di loro iniziativa e senza autorizzazione alcuna. Una stroncatura più netta di quella già espressa dalla Cassazione, ma la Corte continua: se, perciò, le prove dimostrano che Mallamace, in dipendenza del fallito arresto, fu disarmato e percosso ed in questa condizioni, per sottrarsi ad ulteriori violenze effettive o ragionevolmente supposte, reagì per difendersi, cadendo la pretesa legittimità dell’azione dei militi e di Amodeo, scaturiscono in pieno gli estremi della necessità della difesa.
Dopo aver confutato altri aspetti minori della sentenza annullata, non resta che emettere la sentenza: la Corte assolve Mallamace Francesco dalla imputazione di omicidio in pregiudizio di Amodeo Giovanni perché non punibile per avere agito per legittima difesa.
È il 28 gennaio 1939.[1]
[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.