IL COLERA E GLI UNTORI DI VERBICARO

Il 12 luglio 1911 arriva negli uffici del Ministero degli Interni a Roma una lunga lettera molto circostanziata su una lunga serie di abusi che si commetterebbero nel Comune di Verbicaro. Chi scrive, purtroppo in forma anonima, sembra bene informato e paventa il possibile insorgere di gravi disordini da parte della popolazione, ormai stanca di sopportare ancora:
A sua Eccellenza il Presidente dei Ministri, Ministro dell’Interno
È vero che questo capoluogo di Mandamento e il più disgraziato del mondo, anzi l’unico sotto tutti i rapporti perché è messo in punto ove nessuno penetra per portarvi un po’ di civiltà e perché tutta la cittadinanza è agricola e solo tre o quattro famiglie di voluti galantuomini esistono, delle quali solo una famiglia spadroneggia; ma se ha tale disgrazia, la popolazione non deve avere quella di essere continuamente maltrattata, di vedere il comune precipitare ogni giorno di più e di vedere regnare il dispotismo e l’interesse personale.
Questo Sindaco, Notar Giuseppe Guaragna, sindaco perché attorniato da facinorosi forestieri che comandano la piazza perché negozianti e per conseguenza comandano lui, non per volontà e per stima della cittadinanza, è lo strumento cieco dei maledetti dott. Adolfo Pandolfi, medico condotto, Buonuomo Baldassarre assessore comunale ed Antonio Gambardella, consigliere comunale, in modo che chi è servitore cieco della loro volontà può fare tutto, chi non è cieco servitore non può nemmeno muoversi e quindi maltrattato (…) ed il contadino freme ed ingrossa l’animo e chissà non si debbano ripetere i terribili fatti di altri tempi e specialmente del 1855, allora che un antenato del sindaco attuale fu strangolato con una corda al collo e trascinato per le strade del paese.
Eccellenza, voi che siete al governo dovete provvedere a far ripristinare le leggi ed accorrere in aiuto speciale a questa cittadinanza ignorante e sfiduciata perché se la massa viene giù di rabbia, chissà quante famiglie piomberebbero nella disgrazia col sangue, col carcere, con la proprietà. Questo sindaco Notar Guaragna è capace di tutto.
Poi l’anonimo passa a descrivere una lunga serie di abusi, di malversazioni, di appropriazioni, di evasioni fiscali. Chiede che vengano visionati i registri del dazio per sapere chi ha pagato e investigare chi non ha pagato perché affiliato alla camorra.
Sono fatti, Eccellenza, che si possono assodare ad occhio nudo, perciò si deve provvedere perché il povero ignorante, il lavoratore della terra di fronte alla legge è uguale al galantuomo ed ai potenti della terra.
Che buona parte della popolazione sia stanca del fatto che il Sindaco Guaragna si faccia i fatti propri è assolutamente vero e lo stanno a dimostrare i numerosi procedimenti penali che è chiamato ad affrontare davanti alla Corte d’Assise di Cosenza per reati che vanno dal rifiuto di fare un atto del proprio ufficio nella qualità di Sindaco, alla truffa, al falso in atto pubblico e contraffazione del sigillo notarile, alla sottrazione di atto originale da processo penale ed a varie contravvenzioni della legge notarile, ma davanti alla stanchezza della popolazione di Verbicaro nessuno fa niente e la situazione rischia di precipitare alla prima occasione utile. Poi accade che verso i primi di luglio in molte zone d’Italia scoppino dei focolai di colera e nei primi di agosto l’epidemia si diffonde, favorita dalla mancanza di acque potabili, di fognature e di nettezza nelle pubbliche strade e nelle case (circostanze comuni a quasi tutta l’Italia), anche a Verbicaro, proprio ove nessuno penetra per portarvi un po’ di civiltà e raggiunge in pochi giorni proporzioni allarmanti. La gente comincia a morire e gli animi si esasperano sempre di più.
Alle pessime condizioni materiali del paese si aggiunsero ostacoli maggiori per parte della popolazione, la quale, ignorante, analfabeta e superstiziosa, concepì il sospetto che la mortalità non dovesse attribuirsi ad epidemia, ma a volontà del Governo, che impensierito dall’aumento della popolazione, accertato con l’ultimo censimento, aveva determinato di scemarne il numero mercé avvelenamento, ottenuto con lo spargimento di una “polverella tossica”, eseguito a mezzo del Sindaco, dei Consiglieri Comunali, del Segretario e suoi dipendenti. Questo pregiudizio ingenerò nella folla panico e nello stesso tempo rancori contro quelle Autorità e fece rivivere il ricordo della tragica fine del Sindaco Guaragna (antenato dell’attuale Sindaco Guaragna Giuseppe) che nel 1855 venne dalla folla, invasata da simile sospetto durante il colera, trucidato e per ludibrio trascinato per le vie del paese e d’altra parte rese più difficile l’opera dei Sanitari e dei Militi della Croce Rossa relativa alla assistenza ed isolamento degli infermi, alla disinfezione delle case e alla sepoltura dei deceduti, alla quale tutti si rifiutarono e alle volte dovettero essere requisiti per forza alcuni contadini. [puoi leggere questa storia cliccando sul link VELENO! VELENO!]
Sembra quasi la riproposizione della lettera anonima, solo che a scrivere, il 26 giugno 1912 e quindi 10 mesi dopo il colera, è la Sezione d’Accusa della Corte d’Appello delle Calabrie. Chissà se la lettera anonima era stata scritta come avvertimento, non tanto per denunciare le malefatte dell’Amministrazione Comunale ma per prevenire gli stessi guai del 1855?
Certo qualcosa di strano c’è: come mai l’epidemia di colera si sviluppa in un paese isolato e non sulla zona costiera costellata di paesi, di porticcioli e di stazioni ferroviarie? Speriamo non resti un mistero.
Intanto a Verbicaro le accuse contro il Sindaco e la sua cerchia si fanno sempre più pesanti e la mattina di domenica 27 agosto 1911 una piccola folla armata di roncole, scuri e nodosi bastoni si raduna sulla piazza del paese. Qualcuno penetra nel campanile della chiesa e comincia a suonare le campane a martello e quello è sempre stato il segnale di richiamo per la popolazione. La gente accorre da tutte le parti e adesso la folla è davvero enorme.
Correte! Correte! Vedete che hanno messo il veleno e il vetriolo! – urla una donna, Elisabetta Spingola, agitando un orinale pieno di merda.
Andiamo, per la madonna! Oggi dobbiamo farla finita e dobbiamo bruciare tutti del Municipio! – rincara la dose Pasquale Di Giorno e la folla, urlando come impazzita, agita in aria le armi di cui è in possesso.
Proprio in questo momento arrivano quattro compaesani costretti con la forza dal delegato di P.S. Giacinto D’Ippolito a trasportare il cadavere di un coleroso. Pena la morte, i quattro e l’addetto della Croce Rossa che li segue sono obbligati a lasciare per strada il morto tra le grida di giubilo della folla impazzita.
Viva il re! Morte al Sindaco! – urlano i più facinorosi mentre cominciano ad abbattere i pali del telegrafo, isolando di fatto il paese. Adesso si può procedere senza temere l’arrivo di rinforzi militari. Gruppi di persone vengono messi alle uscite del paese per impedire che qualcuno possa scendere fino alla stazione ferroviaria e telegrafare ai Carabinieri, mentre la folla urlante si dirige a casa di un impiegato comunale, Agostino Amoroso, colpevole di avere eseguito le operazione del censimento decennale e di aver cooperato all’accertamento dell’aumento della popolazione, a seguito del quale il Governo avrebbe concepito il disegno di calmierarla attraverso l’avvelenamento dell’acqua con la misteriosa polverella.
Ma Agostino Amoroso non è in casa e la folla si dirige verso la casa del Sindaco per devastarne il palazzo e il Delegato D’Ippolito, immaginata questa mossa, precede la folla e fa trovare schierati davanti alla costruzione dodici Carabinieri con le pistole in pugno, riuscendo così a sventare l’attacco.
– Al Comune! Al Comune! – è il grido che si alza adesso tra la folla e come un torrente che nelle balze dei monti s’ingrossa, così la turbe ingrossava lungo le vie per l’accorrere di altri tumultuanti usciti dalle case o reduci dalle campagne, chiamati dal suono delle campane a stormo, che con persistenti rintocchi eccitarono e resero più violenti gli animi già esaltati dei rivoltosi.
Il Sindaco, il Segretario comunale con tutta la sua famiglia e Agostino Amoroso sono nei locali del Comune e capiscono che la folla sta andando a prenderli. Per loro fortuna il Delegato D’Ippolito e sette dei dodici Carabinieri che sono rimasti con lui arrivano prima della folla, ormai più di un migliaio di persone, che avanza con grida di morte, facce truci, minacce orrende, bandiere sventolanti in alto, quadri dei Reali agitati e colpi di rivoltella, e si sistemano sulla prima rampa delle scale a difesa dell’edificio e delle persone.
I tumultuanti da una parte e la forza pubblica dall’altra si spingevano e sospingevano scambievolmente, i primi allo scopo di raggiungere il locale del Municipio e Noi allo scopo opposto. Intuimmo subito la gravità della situazione sia per il numero dei tumultuanti e sia perché moltissimi di essi apparivano armati di scuri, grossi bastoni, coltelli e roncole. Sospinta da tutte le parti, la forza alfine raggiunse il pianerottolo che immette (mercè due porte) nei locali del Municipio e vi si pose a custodia. La folla tumultuante, nel mentre teneva a bada la forza pubblica, iniziò una nutrita sassaiuola contro le finestre del Municipio, che ben presto furono sfondate ed in tale circostanza di tempo e di luogo, appoggiata una scala lunghissima al lato ovest del fabbricato, penetrarono nel Municipio e precisamente nell’aula del Consiglio – racconta il Delegato D’Ippolito –. Altri dei tumultuanti, armati di scure, picche, bastoni, rivoltelle e pugnali, invasero i locali destinati alle carceri ed usando violenza all’agente di custodia Gumirato Domenico di anni 36 da Istrana (Treviso) addetto alle carceri giudiziarie di Cosenza, ruppero il catenaccio che assicurava un cancello di ferro liberando così i detenuti Spingola Francesco di anni 43, Marino Giuseppe di anni 14 e De Biase Antonio d’anni 19, che si allontanarono. Dopo di ciò la folla iniziò la sassaiuola contro la finestra del Municipio del lato Sud, che venne subito sfondata. Attaccato così il Municipio da tre lati, ci sembrò che lo fosse anche dal 4° lato est ed allo scopo di intimidire, il Carabiniere Crisarà Domenico, dietro ordine avuto, esplose in aria dalla finestra lato est un colpo di pistola. Intanto i tumultuanti, a colpi di accetta e di grossi pezzi di legno, sfondarono la porta che immette in una sala attigua alla simile destinata alle adunanze consiliari e diedero subito fuoco alle carte ed a quant’altro capitò fra le loro mani. Certi di noi, penetrammo da un’altra porta negli uffici addetti alla Segreteria, ove era rifuggiato il Sindaco, il segretario comunale, la di lui madre e due sorelle, per proteggere le loro vite. I tumultuanti, cresciuti in audacia, cercavano con ogni mezzo di penetrare nelle stanze della Segreteria. Si fu allora che vedendo il pericolo di andare travolti dal fuoco e di non potere più altrimenti proteggere la posizione, si decise di far uso delle armi da fuoco. Estratte perciò le pistole e fatte le intimidazioni legali, ci precipitammo sulla folla che si scostò, riuscendo così a mettere in salvo il Sindaco e la famiglia del Segretario Comunale.
Mentre avviene tutto questo, un altro gruppo di persone assalta la casa del medico condotto il quale però riesce a colpi di fucile a respingere l’assalto.
Il delegato D’Ippolito non fa nessun accenno alla presenza nei locali del Municipio di Agostino Amoroso per il semplice fatto che è scappato attraverso il tetto prima dell’irruzione dei militari nel locale della Segreteria, o per salvezza della propria vita o per recarsi a chiedere aiuto. Camminando sui tetti, Amoroso arriva su quello della casa dove abita la Guardia Municipale Francesco Caracciolo e pensando di essere ormai al sicuro salta giù sul pianerottolo
della casa. Ma Caracciolo, dimentico delle funzioni della carica, nel vederlo piombare in casa sua in modo così inconsueto, pensa che sia lì a spargere il veleno così impugna il suo fucile e lo punta contro Amoroso il quale, sempre più in preda al panico, si precipita giù per le scale e si mette a correre, disorientato, per la strada.
Agostino è sfortunato perché sceglie la direzione sbagliata andando a finire nella folla tumultuante raggruppata tra la casa comunale e la vicina caserma dei Carabinieri.
Lo riconoscono subito e dieci o dodici dei più facinorosi, tra i quali tre donne, lo circondano, lo aggrediscono a colpi di scure e lo uccidono quasi all’istante. Caduto a terra esanime, si infierì sul suo cadavere dalla folla ebbra ed assetata, ognuno volendo contribuire con una sassata o con un colpo di randello. A questo punto appare sulla scena un cinico ed efferato vecchio, Vincenzo Silvestri, che con tre veementi colpi di una grossa ed affilatissima roncola gli recide la gola e l’osso mascellare, quasi decapitandolo.
Intorno al cadavere si fa il vuoto ed è in questo frattempo che il Delegato D’Ippolito e i sette Carabinieri che circondano il Sindaco, il Segretario e la sua famiglia, sbucano dall’angolo della strada che dal Municipio porta alla caserma. Silvestri ha ancora la roncola insanguinata in mano quando incrocia lo sguardo di D’Ippolito che per poco non è inciampato nel cadavere di Amoroso. Il Delegato, con una mossa fulminea, abbranca il vecchio e, protetto dalle armi spianate dei suoi uomini, riesce a trascinarlo fin dentro la caserma dove vengono fatti riparare tutti gli altri.
I tumultuanti, accortisi dell’arresto, si avanzavano minacciosi ed armati contro di noi allo scopo d’invadere la caserma per impossessarsi del Sindaco e liberare l’arrestato. La folla, sempre più minacciosa continuava ad incalzarci ed allorché era imminente il momento di essere sopraffatti, esplodemmo alcuni colpi di moschetto in aria, verso il punto ove stazionava un forte nucleo di tumultuanti. Avvenuta la scarica di moschetteria ci accorgemmo da un certo movimento che erano rimasti ferite delle persone abitanti la casa in direzione della quale erano stati esplosi i colpi – racconta sempre D’Ippolito – e mortalmente un tal Tufo Vincenzo. Dopo ciò la folla si sbandò, comparendo di tanto in tanto qualche capannello di che facilmente si riusciva a sciogliere. Ritornata una calma relativa, furono fatti armare di moschetto anche i militari posti a custodia della casa del Sindaco. Ciò avveniva poco dopo le 13 e, nel mentre ancora le campane continuavano a suonare, si notò che parecchi contadini di ambo i sessi ripigliavano la via della campagna e con essi (a quanto poi si è saputo) anche i tumultuanti più compromessi.
La situazione in paese è drammatica, ma nei dintorni non si scherza nemmeno. L’unica strada, poco più che una mulattiera, che dalla stazione ferroviaria sale al paese, dove si arriva dopo 18 chilometri di curve, è presidiata e a nessuno è consentito avvicinarsi al paese o allontanarsi da esso.
Sono le 8,00 della mattina di quel tragico giorno quando il Giudice Giuseppe Armentano, incaricato di recarsi in missione a Verbicaro in mancanza del Pretore titolare, scende dal treno  accompagnato dal Medico Provinciale Domenico Felice Migliori e dall’Ufficiale Telegrafico Paolo Messina. I tre montano a cavallo e cominciano il cammino per l’erta e tortuosa via. arrivati a circa due chilometri dal paese, sono ormai le 11,30, incontrano un gruppo di donne che li scongiurano di non avvicinarsi oltre perché è in corso una rivolta e si sta cercando di ammazzare il Sindaco e gli altri amministratori. Il dottor Migliori, più prudente, pensa bene di tornare indietro mentre Armentano, fedele all’adempimento del suo dovere, decide di proseguire in compagnia dell’Ufficiale Telegrafico. Prega alcune donne di andare ad avvisare i Carabinieri del suo arrivo così da essere scortato in paese ma, in men che non si dica, i due sono accerchiati da alcuni uomini armati di scuri e di roncole e minacciati di morte.
Che ne facciamo di questo qui? – fa uno degli uomini.
Ammazziamolo.
Cosa vi ho fatto? Sono un Magistrato e vengo per voi ad amministrare giustizia… – cerca di convincerli Armentano.
Ammazziamolo! – ripetono un paio di uomini.
Ma lasciate stare a noi forestieri! – esclama l’Ufficiale Telegrafico mettendosi in mezzo e poi, sfruttando un errore materiale commesso nella compilazione del suo porto d’armi e cercando di porgere la sua rivoltella al Pretore, continua – Ecco, io sono un commerciante di sapone che gira il mondo per guadagnarmi il pane
– Dammi quell’arma – gli intima uno degli uomini. Messina ubbidisce e gliela porge. L’uomo la scarica e gliela restituisce dicendogli – Tu adesso vattene!
Ammazziamolo! – ripete quello che sembra il capo, avvicinandosi al Pretore Armentano, ormai in preda al terrore per la sua imminente esecuzione. Si inginocchia e si mette a piangere implorando pietà. Tra gli aggressori c’è un momento di sconcerto. Si guardano negli occhi, poi guardano il Giudice che singhiozza come un bambino.
Ebbene vattene ma non rivoltarti nemmeno indietro; qui non c’è più giustizia, il governo siamo noi e qui comandiamo noi!
Al Giudice non sembra vero di essere stato risparmiato e, senza badare al cavallo, si da a precipitosa fuga per un percorso di 18 chilometri per sentieri aspri e maledetti. Però, giunto nei pressi della stazione ferroviaria di Verbicaro, viene colto da infarto e muore all’istante.
Ma ormai l’allarme è stato lanciato e la rivolta ha le ore contate. Nel giro di poche ore il paese viene militarizzato e si procede agli arresti di chi è stato riconosciuto per strada tanto dai Carabinieri quanto dalle autorità del posto. Una vera e propria rappresaglia di cui fa le spese anche il sacerdote don Francesco Ruggiero, accusato di avere arringato la folla dicendo di non escludere che una delle cause del colera era la propagazione del veleno detto la polverella ad opera delle autorità comunali di Verbicaro e di essere il responsabile del richiamo della popolazione mediante il suono a martello delle campane, visto che è l’unico prete del paese ad avere le chiavi del campanile.
In pochi giorni vengono arrestate 54 persone alle quali vengono contestati reati che vanno dall’omicidio all’incendio, alla istigazione a delinquere, ma ben presto il numero sale a 117. Per i militari che sparando in aria feriscono due donne affacciate alla finestra e uccidono Vincenzo Tufo che era in strada, al contrario, non viene preso alcun provvedimento.
Poi, il 10 settembre, in seguito a degli indizi avuti, i Carabinieri vanno a casa di un certo Pasquale Savelli, tornato l’anno prima dall’America con un bel po’ di risparmi in tasca, allo scopo di rinvenire la minuta della famosa lettera anonima spedita al Presidente dei Ministri. La minuta non c’è, però sequestrano diverse lettere ed altre carte scritte dallo stesso, la cui calligrafia parrebbe identica a quella del ricorso trasmesso al Ministro dell’Interno. Sequestrano anche un quinterno di carta bianca dello stesso formato di quella su cui è scritto il predetto ricorso e un altro ricorso al Procuratore Generale di Catanzaro il quale, sia per l’intonazione generale, sia per i fatti a cui si riferisce e le persone che attacca, sia per la consueta forma anonima vale bene a dimostrare che anche il ricorso al Ministro dovette essere scritto dalla stessa persona che ha scritto il ricorso al Procuratore Generale di Catanzaro, mentre a comprovare questo concorre anche l’epoca vicina entro cui i detti ricorsi furono scritti ove varia la calligrafia è da notarsi che il Savelli è molto abile ad usare calligrafie diverse. I Carabinieri concludono che molto facilmente egli stesso sia stato uno dei principali fautori ed organizzatori, come si rileva da segreti indizi, sebbene siasi poi tenuto dietro la scena nello svolgimento dell’ultimo atto.
Pasquale Savelli viene arrestato e si dichiara innocente, avanzando il dubbio che  qualcuno può avercela con lui perché ha rifiutato di candidarsi come Consigliere nel partito del Sindaco e che il Sindaco stesso è il difensore della sua controparte in una causa pendente presso la Pretura del paese. Aggiunge anche che il Sindaco Guaragna gli mostra una certa freddezza.
D’altra parte lo stesso Savelli avrebbe motivi personali di risentimento nei confronti del Sindaco, visto che la seconda lettera “anonima”, datata 24 giugno 1911, è come se l’avesse firmata di suo pugno dal momento che si rivolge al Procuratore Generale del re di Catanzaro affermando di scrivere nell’interesse di suo cognato Bloise Fioravante partito per America, lamentando, davanti a prove che si ritengono inoppugnabili, il proscioglimento di Guaragna, di Baldassarre Bonomo, dell’assessore Antonio Gambardella e del Segretario Comunale Dante Terzo dalle accuse di falso e abuso d’autorità, cosa della quale non solo ne hanno menato vanito, ma si è fatto tra essi una bicchierata, come si dice, per dimostrare la loro impunità e la loro potenza. Le stesse persone nominate nella lettera anonima indirizzata al Ministro. Solo una coincidenza? Dall’esame delle carte sequestrate a Pasquale Savelli emerge un’altra coincidenza: alcuni degli arrestati per la rivolta avevano costituito, nel 1898, insieme a Savelli stesso la Società Operaia di Mutuo Soccorso “La Speranza”, chiusa poi nel 1900.
Ma non c’è tempo o, forse, voglia di indagare in altre direzioni per scoprire, cioè, se l’epidemia di colera sia stata solo l’occasione estemporanea per mettere in atto un disegno volto a liberarsi di coloro i quali tengono sotto un tallone di ferro la popolazione o se l’epidemia sia davvero da attribuirsi a untori che hanno agito per provocare la rivolta e cercare così di liberarsi dal giogo. La contingenza dovuta all’enorme clamore mediatico a livello nazionale suscitato dai moti di Verbicaro impone di fare in fretta per punire quella gente primitiva, ignorante, superstiziosa e sanguinaria che si è macchiata di delitti orrendi contro la civiltà, così l’istruttoria viene chiusa in pochissimo tempo nonostante le centinaia di interrogatori e testimonianze raccolte. Dei 117 imputati originari ne vengono rinviati a giudizio 67 e il processo viene diviso in tronconi a seconda della gravità dei reati ascritti. Tra gli imputati prosciolti figurano anche don Francesco Ruggiero e Pasquale Savelli per insufficienza di prove.
Quello per l’orrendo omicidio di Agostino Amoroso viene celebrato presso la Corte d’Assise di Rossano il 23 settembre 1912 e vede alla sbarra 14 imputati: 1) Vito Silvestri, 65 anni, è accusato di essere colui il quale ha materialmente ucciso Amoroso, quasi decapitandolo, a colpi di roncola; 2) Salvatore Campolongo, 19 anni; 3) Maria Giuseppa Rummolo, 35 anni; 4) Rosa Fazio, 45 anni; 5) Pasquale Di Giorno, 25 anni; 6) Francesco Russo, 22 anni; 7) Francesco Fazio, 37 anni; 8) Vito Annuzzi, 19 anni; 9) Salvatore Martino, 35 anni; 10) Angelo Tufo, 29 anni; 11) Battista Conte, 50 anni; 12) Giuseppe Campolongo, 20 anni; 13) Spingola Felice, 18 anni; 14) Giuseppe Silvestri, 18 anni, tutti a vario titolo imputati di correità o concorso in omicidio. Oltre a questi ci sarebbe stata anche Maria Francesca Crudo, ma l’azione penale non viene esercitata perché il 10 gennaio 1912 è morta nel carcere di Cosenza.
Vito Silvestri viene condannato a 10 anni, 5 mesi e 2 giorni di reclusione per omicidio volontario, adunata con armi e porto di roncola senza giustificato motivo, col beneficio del vizio parziale di mente; Salvatore Campolongo a 10 anni e 5 giorni; Maria Giuseppa Rummolo a 10 mesi e 16 giorni; Rosa Fazio a 8 anni e 4 mesi; Pasquale Di Giorno a 12 anni, 4 mesi e £ 200 di multa; Francesco Russo a 12 anni e 2 mesi; Francesco Fazio a 12 anni e 2 mesi; Vito Annuzzi a 8 anni, 8 mesi e 7 giorni; Salvatore Martino e Angelo Tufo a 2 anni e 2 giorni; Battista Conte a 2 anni; Felice Spingola, Giuseppe Campolongo e Giuseppe Silvestri a 1 anno e 8 mesi. Il successivo ricorso per Cassazione sarà respinto l’8 marzo 1913.
I restanti 57 imputati vengono processati per il reato minore di partecipazione ad una radunata di dieci o più persone la quale, mediante violenza e minacce, tende a commettere il fatto e condannati a pene minime. [1]
 Tutti i dubbi su come siano realmente andate le cose restano, ma la cosa peggiore in tutta questa tristissima vicenda è l’assoluta indifferenza del Governo Giolitti davanti alle condizioni di vita disumane degli abitanti di Verbicaro. Nessun investimento statale per portare l’acqua corrente, per migliorare le vie di comunicazione, per migliorare le condizioni igieniche del paese. Al contrario fu mandato l’esercito a presidiare il paese di quella gente ignorante, superstiziosa, sanguinaria per tre anni.
Meglio spendere i soldi per la guerra di Libia.


[1] ASCS, Processi Penali.

 

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