VELENO! VELENO!

La storia, viva testimonianza dei pensieri e delle opere di quei che furono, ricorda che gli errori, i pregiudizi e le superstizioni spesso si riproducono nella umana specie, nonostante che il millantato secolo dei lumi, del progresso e della civilizzazione abbia sorpassato il culmine di sua durata.

Da quattro e più lustri l’Asiatico morbo, cholera denominato, si rese pur troppo molesto in questi Reali dominî e sebbene mostrasse ritirarsi nelle Terre di origine, improvvisamente or in una, ora in un’altra parte del Regno ricompariva e vittime non poche con se traeva in questa Citeriore Calabria negli ultimi mesi del 1855.

I comuni di S. Agata e di Verbicaro, più di ogni altro, ne risentirono i malefici influssi ed in pochi giorni decimava quegli abitanti, facendo strage particolarmente tra i miseri.

Si appalesava il morbo con carattere fulminante: le famiglie agiate e chi avea mezzi fuggivano nelle casine di campagne e nei comuni non attaccati ed a stento si otteneva dai morienti l’estremo conforto della Religione. Si vide inoltre qualche cadavere insepolto su la strada, che diveniva pascolo dei porci ed altri, non rimossi dalla loro casa, marcivano a vista dei congiunti. La gente, vedutasi in preda della desolazione, novella a quella strage, si abbandona agli orrori e cerca con l’alterata fantasia invano indagare la vera causa, che in modo sì strano rapiva al figlio il genitore, a costui l’amata prole, la consorte, a questa l’adorato sposo ed a ciascuno il congiunto, l’amico, il benefattore!

È esattamente questa la situazione di Verbicaro dove, su una popolazione di circa 5.000 abitanti, in pochi giorni si registrano oltre 600 morti e più di un centinaio di persone fuggite per trovare scampo, complessivamente il 15% della popolazione sparita in pochi giorni.

La sera del 17 novembre 1855, una voce, uscita al certo da qualche bolgia infernale, comincia ad insinuarsi nella popolazione ormai stremata dall’epidemia e, soprattutto, dall’assoluta mancanza di aiuti da parte delle autorità: non più effetto del morbo le morti, non più effetto di precauzione l’allontanamento delle persone comode ed agiate, non più gl’incomprensibili giudizi di Dio, ma VELENO, AVVELENATORI che hanno avvelenato l’acqua della fontana pubblica. E allora bisogna che si cerchino, si stanino e si polverizzino questi maledetti avvelenatori e assassini della povera gente!

La voce corre di casa in casa ed in men che non si dica una folla inferocita corre verso la fontana pubblica per rompere ed esplorare la condotta. Il Sindaco e qualche gendarme cercano di calmare gli animi minacciando di arrestare di chi avesse tentato di rompere la fontana ed il gendarme Luigi Mottola, spinto da verace zelo, per far capire alla folla che l’acqua è buona, alla presenza di ognuno beve a sazietà ed ottiene l’effetto sperato: la folla ondeggia, poi indietreggia e si disperde.

Ma quel soffio satannico che offuscato avea le menti di quei rozzi abitanti, non cercava che ben lieve incentivo per rianimarsi e tanto avveravasi per straordinario accidente.

E si, perché il gendarme Mottola, tornato a casa soddisfatto per aver sedato il tumulto, viene colto dai violenti sintomi del fiero morbo micidiale ed in meno di due ore non è più tra i viventi.

È pur troppo vero che si veggono dei fenomeni in natura, pei quali l’uomo non debba chinar la fronte e se risalir volesse alla causa efficiente e rendersi scrutatore dei giudizi del Supremo Facitore dell’universo, troverebbe la risposta in quelle pagine non periture – quis autem consiliarius eius fuit? [ma chi era il suo consigliere? Nda]

La mattina del 18 novembre la notizia della morte del gendarme ha l’effetto di una bomba: ci hanno provato, ma la verità è venuta fuori perché è  tutta opera degli avvelenatori! Il torrente popolare non trova più argini che lo infreni; si corre a rompere l’acquedotto della fontana, se ne estrae della melma, si mostra agli astanti e, ritenendo quelle innocue sostanze per venefiche ivi depositate dalla mano dell’uomo, si corre per tutto il villaggio e si grida: VELENO, VELENO!

All’errore si aggiunge il pregiudizio ed a piena gola si ripete: I SANTI PROTEGGITORI HAN FATTO LA GRAZIA DI TROVARE LA CAUSA DELL’ESTERMINIO!

E chi può essere stato ad avvelenare l’acqua se non il farmacista, pratico di veleni? D’altra parte, don Francesco Saporiti ha abbandonato il paese con tutta la famiglia, lasciando la casa alla custodia di Felice Lamenza; qualcuno dice di sapere con certezza che in un basso della farmacia Saporiti esiste un meato che comunica con la fontana pubblica e tutte queste cose non sono forse le prove provate della colpevolezza dell’untore novello?

La folla accorre davanti all’edificio di Saporiti, determinata ad entrarvi e distruggere tutto, ma Felice Lamenza, il custode, si oppone e cerca di resistere. Ecco, se si oppone è anche lui in combutta col farmacista, che lo ha lasciato lì non per custodire il fabbricato, ma per proseguire a mettere sostanze venefiche nel meato. Cominciano a volare pietre, bastonate e colpi di accetta, che in pochi minuti portano il malcapitato ad una orrenda morte, causata da decine di ferite e fratture su tutto il corpo, compreso il cranio. Mentre la folla si accanisce su Fedele Lamenza, una donna, Marta Fazio, accorre in suo aiuto, ma anche lei, per questo gesto di umana pietà, viene considerata complice dei venefici. La donna riesce a rifugiarsi in casa del Caporale Antonio De Stefano, ma questi le urla in faccia, mentre la spinge sulla strada:

Il popolo à ragione!

Non appena Marta è fuori, qualcuno tra la folla comincia ad urlare:

Uccidetela questa porca! – così la poveretta viene presa e linciata, ma ancora si muove ed un uomo, presa a due mani una grossa pietra, gliela fracassa sulla testa, urlando:

Porca fricata, ancora ti riminii, paga la pena di fratima! – adesso Marta è davvero morta con orrende ferite su tutto il corpo, specialmente sul cranio, lasciato quasi del tutto scoperto.

Ora non ci sono più ostacoli e la porta della farmacia viene abbattuta. Gli insorti entrano e distruggono ogni cosa. Poi la folla indietreggia, cambia percorso e si mette alla ricerca del sindaco, Biase Cerzosimo. Lo trova e lo ricopre di bastonate, colpi di pietra e di scure, ma Cerzosimo, prima di essere finito, fa in tempo a chiudersi nel suo botteghino. Inutilmente: la porta cede, alcuni entrano e gli danno la seconda razione e, credendolo morto, se ne vanno. Biase Cerzosimo non è morto, ma resterà per il resto della vita storpio e col viso orrendamente sfigurato.

Intanto le campane della chiesa parrocchiale hanno cominciato a suonare a stormo e per rendere più lugubre e desolante il suono, qualcuno le ha ricoperte con un panno di lana. Ma il popolo crede che stiano suonando da sole per miracolo della Madonna e tutti si inginocchiano in atto di ringraziamento. Al suono, in tal modo procurato, aumenta il terrore e si progetta la distruzione di tutti coloro che vengono ritenuti cospiratori nell’avvelenamento. Si fanno i nomi del Regio Giudice, del Parroco, del farmacista Saporiti e famiglia, del proprietario don Francesco Saverio Guaragna e, in generale, dei sacerdoti e dei galantuomini. Così la folla, prima che faccia buio, comincia con l’assaltare la casa del giudice, a solo fine di trovarvi sostanze venefiche, ma vanamente e tutti tornano a casa, dandosi appuntamento in piazza per l’indomani, 19 novembre. All’alba le campane suonano lugubremente a raccolta e chi si munisce di pietre, chi di bastoni o scure e si torna in casa Saporiti per compiervi la distruzione delle mobilie e delle suppellettili nelle superiori stanze esistenti e lasciati intatti la sera precedente. Poi è la volta della casa dell’ottuagenario Don Francesco Saverio Guaragna, che viene trovato nascosto in un fienile e trascinato a furor di popolo nella pubblica piazza. Qui la folla trova una sorpresa: le forze di Gendarmeria ed Urbana, in tutto sette, alla meglio raggranellata, ma i rivoltosi sono in numero troppo esorbitante rispetto all’esiguità della forza pubblica che, arretrando, tuttavia riesce a farsi consegnare il prigioniero e, credendo di non poter resistere, stima utile depositarlo nelle prigioni circondariali, come asilo il più sicuro.

Il popolo à ragione, ma, figlioli, dove volete andare a trovare il veleno? Gridate viva il Re! – Per un po’ la folla si calma invocando il sovrano ed il comandante della forza pubblica promette che il vecchio Guaragna sarà punito dalla Legge come uno degli avvelenatori, ma il giochino non riesce e la folla reclama il prigioniero per giustiziarlo seduta stante. Bisogna dire che i pochi gendarmi accorsi in piazza sono gli stessi che, dopo il primo assalto alla casa del Giudice Regio, erano stati mandati a presidiarla per prevenire ulteriori attacchi ed ora, pensando di aver messo al sicuro il vecchio Guaragna, tornano a presidiare la casa del giudice. Ovviamente il movimento viene visto e, quello che viene considerato il capo della rivolta, Biase Basuino, incita la folla urlando:

Andiamo a prendere Don Saverio!

La porta del carcere viene sfondata, la folla irrompe e si impadronisce di Guaragna, che viene legato con una fune e, coi modi più atroci ed inumani, condotto in piazza e crudelmente linciato, arrivando addirittura a colpirlo così violentemente sulla testa, da provocare l’asportazione dell’apice del cranio, lasciando denudato il cervello, che è un ammasso di sangue.

Paga di sé, la turba prende la fune che tuttora circonda la fredda salma del Guaragna e corre nel palazzo del Giudice. A centinaia si scagliano le pietre contro le lastre delle finestre, si chiama col nome suo particolare, gli si dirigono i più vituperevoli improperi e gli si fa mostra della corda grondante del sangue del martoriato Guaragna. Il Giudice sembra avere i minuti contati e i gendarmi, impossibilitati a fronteggiare fisicamente la folla, decidono di sparare e feriscono uno degli insorti, Salvatore Crudo, che morirà nel giro di qualche giorno.

Alla vista del proprio sangue, la folla sbanda, ondeggia e poi comincia il fuggi fuggi generale, lasciando la piazza e le vie del paese deserte. Ristabilita la tranquillità, la forza pubblica riesce, già nel prosieguo della giornata, a trarre in arresto molti dei facinorosi ed altro di sinistro non ha luogo, nemmeno nelle giornate successive.

Adesso si pensa, benché con grave ritardo, ai soccorsi ed ai provvedimenti sanitari: i risultati sono subito evidenti perché il morbo decresce sensibilmente e si attutisce all’intutto appena in qualche giorno.

Le indagini portano all’arresto di centosessantacinque persone, perseguite con l’ipotesi di reato di: Attentati contro la sicurezza interna dello Stato per vociferazioni di spargimento di veleno; omicidi volontari nelle persone di Felice Lamenza, Marta Fazio, D. Saverio Guaragna e Salvatore Crudo; mancat’omicidio con ferite in persona del Sindaco Biase Cerzosimo; devastazione e saccheggio in pregiudizio di Francesco Saporiti ed altri. La competenza è della Sezione Politica della Gran Corte Criminale.

Dalle indagini emergono subito alcune circostanze: la folla non ebbe mai il proposito di commettere furti perché dalle case assalite e devastate non manca nulla; non si riesce a stabilire da chi ebbe origine la voce di avvelenamento, sebbene gli inquirenti ritengano possibile che da qualche agitatore politico si fosse suscitata, ma questo sarebbe rimasto fra le misteriose e tenebrose latebre dei loro perversi concepimenti; la forza pubblica si dimostrò incapace, arguendosi da quella prolungata inazione una specie di complicità con gl’insorti. Ma ciò che emerge chiaramente è la non esistenza di quei preconcetti attentati contro la interna sicurezza dello Stato e che il cuore di quella sciagurata gente non era infetto da turbe sì trista.

Alla fine delle indagini degli iniziali 165 arrestati, ne restano 27, imputati a vario titolo di omicidio, tentato omicidio, ingiurie, oltraggio e danneggiamento.

Ma durante il dibattimento, le deposizioni dei testimoni d’accusa non sono ritenute decisive per stabilire ogni singola responsabilità dalla Gran Corte, che dice: non risulta affatto, per le pruove raccolte e discusse, chi fra i giudicabili sia stato autore dei colpi mortiferi, onde furono spenti Lamenza, Guaragna e Marta Fazio. Niun testimone, tra la confusione e la molteplicità della gente raccolta nei luoghi ov’ebber morte quei miseri, poté ravvisare, fra tanti che li percuotevano, dov’erano i colpi di ciascuno diretti; sotto quali esalarono l’ultimo fiato. È però che l’accusa di omicidi volontari vien meno, ché niuno degli accusati può qualificarsene autore. Però non era ignota ad alcuno di quei forsennati la ragione del tumulto, il motivo ond’eran gli estinti segno al furor popolare. Erasi già proclamato ad alta voce che per veleno propinato dalla mano dell’uomo, crudelmente periti fossero in men che tre giorni centinaia di congiunti ed amici; erasi determinata una vendetta contro i propinatori e si era eccitata la popolazione a spiegarla tremenda e tale che se non potesse risarcire i danni già fatti, valesse almeno ad allontanarne altri per lo avvenire, a respingere la morte ond’era minacciato ciascuno. Quindi, se non possono i veri autori di quelle straggi conoscersi, debbono almeno certamente quali complici ritenersi tutti coloro che vi concorsero. Essi agirono in conseguenza di uno stesso movente e di un precedente concetto e vicendevolmente cooperarono e facilitarono la esecuzione del loro progetto. Non può però siffatta complicità estimarsi qual necessaria e tale che senza di essa non sarebbero i reati avvenuti, perché soli ed inermi eran gli estinti contro un’intera massa popolare che gridava al loro sterminio e contro molti che li aggredivano. La mancanza di taluno dei giudicabili non avrebbe potuto in nulla immutare o migliorare la sorte di quei sventurati.

Primi fra i tumultuanti erano Biase Basuino, Giuseppe Cava Sargente, Basilio D’Addiego, Giuseppe Lucia Gattarella e Vito Accurso Mezzino. Furon essi che, nella speranza di rinvenire il veleno, aprirono il basso di Saporiti, sotto il quale passavano le acque del pubblico fonte e Lamenza, che a ciò si opponeva, aspramente percuotevano, secondo che per le deposizioni di più testimoni, non ripulsati, risulta. Pruove non dubbie, del pari convincono che essi medesimi, meno Vito Accurso Mezzino, inveirono contro Marta Fazio, accorsa per difender Lamenza e che si affannava a smentire la infamia che gli si apponeva. Onde, riputata anch’ella sua complice, veniva sacrificata del pari.

Il concetto di non essersi conosciuti gli autori degli omicidi, raggiunge la evidenza in quello di Guaragna. Furon tante e tali le ferite che costui riportò, prese parte alla uccisione di lui tanto numero di persone, che han tutto l’aspetto del vero le dichiarazioni di quei testimoni i quali, mentre designavano parecchi dei suoi aggressori, negavano però di aver distinto ov’erano i colpi diretti. Ad esuberanza, è dimostrato esser fra costoro Biase Basuino, Giuseppe Cava Sargente, Basilio D’Addiego, Giuseppe Lucia Gattarella, Nicola Rotondaro, Giuseppe Tuoto Casato, Salvatore Todaro, Vincenzo Dito Selvaggio, Angelantonio Agnone ed Annibale Campilongo i quali, non sazi del sangue nel giorno antecedente versato, appena il nuovo giorno sorgeva, altre vittime designavano ancora, fra cui Don Saverio Guaragna, che Biase Basuino trascinò, ormai cadavere, per le vie del paese. A tutti questi atti di barbarie prendeva anche parte Giuseppe Cava Sargente, Basilio D’Addiego, Giuseppe Lucia Gattarella.

L’offeso Don Biagio Cerzosimo ebbe varie ferite pericolose di vita, una sola nella mascella grave, che produsse lo storpio e lo sfregio. Tra coloro che lo aggredirono furono Giuseppe Cava Sargente, Biase Basuino, Basilio D’Addiego, Giuseppe Lucia Gattarella, Giuseppe Covello, Giuseppe Lucia Grasta. Essi percossero fuori dubbio Cerzosimo. Compiuto appena nel giorno 19 lo eccidio di Don Saverio Guaragna, lungi di smorzarsi la sete di vendetta, lungi di sentir l’orrore dei fatti in questo e nell’antecedente giorno consumati, si chiedeva ancora altro sangue, quello del Regio Giudice. I primi a lanciarsi all’attacco furono Biase Basuino e Giuseppe Cava Sargente, subito seguiti da Annibale Campilongo e Giuseppe Lucia Gattarella i quali, sciolta la fune ond’era avvinta la salma ancora calda di Guaragna, si recarono sotto le finestre di quel funzionario e ad alta voce gridarono di voler fare di lui ciò che di Guaragna avean fatto.

L’assalto alla farmacia di Saporiti fu guidato da Biase Basuino, Giuseppe Cava Sargente e Giuseppe Lucia Gattarella e parteciparono anche Annibale Campilongo, Giuseppe Pietrantonio, Basilio D’Addiego e Giuseppe Pisciotta.

Quindi, fin qui la Gran Corte ha individuato con certezza quindici persone che a vario titolo hanno partecipato ai fatti. Contro gli altri giudicabili è rimasta debole di elementi di reità l’accusa.

È tempo di emettere la sentenza:

Biase Basuino, Giuseppe Cava Sargente, Basilio D’Addiego, Giuseppe Lucia Gattarella sono riconosciuti responsabili dei reati loro ascritti e condannati alla pena di anni diciotto di ferri ciascuno;

Nicola Rotondaro, Vincenzo Dito Selvaggio e Annibale Campilongo alla pena di anni quindici di ferri ciascuno;

Giuseppe Tuoto Cesato, Salvatore Todaro, Angelantonio Agnone e Vito Accurso Mezino ad anni tredici di ferri ciascuno;

Giuseppe Covello Pacienza e Biase Lucia Grasta ad anni sei di relegazione ciascuno;

Giuseppe Pietrantonio e Giuseppe Pisciotta a mesi sette di prigionia ciascuno.

È il 30 settembre 1856.[1]

 

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[1] ASCS, Gran Corte Criminale, Processi Politici.