LA SUGGESTIONE DELLA SUPERSTIZIONE

Sono le sette di sera del 12 gennaio 1949 quando Francesco Marafioti, carbonaio da Davoli in provincia di Catanzaro, dopo aver salutato esce dalla casa del compaesano Felice Froio in compagnia di due amici, Antonio Scicchitano e Pietro Ranieri. Fatti quattro o cinque passi, due forti detonazioni alle loro spalle coprono l’urlo di dolore di Marafioti, che si accascia al suolo colpito nella regione sacrale da un proiettile calibro 10,35, partito dalla micidiale rivoltella Bodeo modello 89, la “spacca roccia”, arma in dotazione all’esercito italiano fino a poco dopo la Prima Guerra Mondiale.

Istintivamente Scicchitano e Ranieri, ripresisi dallo spavento, si girano e vedono, immobile e con l’arma ancora in mano, il diciannovenne Vittorio Froio, il figlio di Felice, che viene subito bloccato e disarmato dai due, mentre i vicini accorsi corrono a chiamare il medico.

Marafioti è gravissimo, il proiettile lo ha trapassato da parte a parte e sicuramente ha leso gli organi interni, bisogna portarlo immediatamente in ospedale. Ampie e gravissime lesioni intestinali è la diagnosi e bisogna sottoporlo ad intervento chirurgico per cercare di salvarlo, ma non c’è niente da fare, Francesco Marafioti muore durante la notte, proprio mentre Vittorio Froio viene interrogato dal Maresciallo dei Carabinieri:

L’ho sparato perché si era interposto, minacciandomi e tentando di suggestionarmi, onde impedirmi di contrarre matrimonio con Francesca Procopio, di anni 18, mia compaesana.

– Che a sparare sia stato tu non ci sono dubbi, ma devi dirmi se hai sparato per ucciderlo.

Io avevo la precisa intenzione di cacciarmi dalle mani Marafioti, che cercava di ostacolare il mio matrimonio avvalendosi di incantesimi ed esorcismi

Ma davvero? Che cosa avrà mai fatto Marafioti? Le indagini ricostruiscono l’antefatto: Vittorio, da tempo, era in intime relazioni con Francesca e voleva sposarla, ma il matrimonio era energicamente ostacolato dai suoi genitori, soprattutto per la discutibile moralità della ragazza, che tempo prima aveva messo al mondo un figlio, frutto della relazione incestuosa col fratello. Di conseguenza sorsero violenti litigi, soprattutto nei giorni precedenti al delitto, tra Vittorio ed i genitori, che tentavano con ogni mezzo di dissuaderlo dal suo proposito. Vedendo, però, vano ogni sforzo, i genitori pensarono di chiedere a Marafioti di intervenire per sostenere le loro ragioni e tentare, così, di persuadere il figlio a desistere dalla sua idea di effettuare il progettato matrimonio. Fu per questo motivo che Marafioti, la sera del 12 gennaio, accompagnato da Scicchitano e Ranieri, andò in casa Froio ed ebbe con Vittorio, alla presenza dei due amici e dei genitori, un colloquio durante il quale cercò, con buone maniere e con parole persuasive, di indurlo a troncare la relazione con Francesca, rinunciando al proposito di sposarla o, quanto meno, a rinviare la decisione al ritorno dal servizio militare. Vittorio, però, non volle sentire ragioni e, più che mai fermo nel suo proposito, troncò il colloquio dicendo: “solo a me spetta regolare le mie cose!”. Dato che le cose stavano così, Marafioti ed i due amici salutarono ed uscirono, seguiti da Vittorio, che sparò per uccidere.

Ma è vero che Marafioti usò buone maniere nel corso del colloquio? Scicchitano, Ranieri ed i genitori di Vittorio sono concordi nelle loro deposizioni:

Marafioti non pronunciò minacce di sorta e si limitò a consigliare a Vittorio la volontà dei genitori, a troncare la relazione e a desistere dal proposito di sposare Francesca.

Con queste premesse, il 17 dicembre 1949, la Sezione Istruttoria, su conforme richiesta del Pubblico Ministero, rinvia Vittorio Froio al giudizio della Corte d’Assise di Catanzaro per rispondere di omicidio volontario, porto abusivo ed omessa denuncia di arma da guerra.

La causa si discute il 27 gennaio 1951 e la Corte, preliminarmente, contesta all’imputato anche il reato di aver detenuto l’arma da guerra oltre il termine di consegna stabilito dall’Autorità. Poi la difesa chiede il proscioglimento del suo assistito per avere agito in stato di legittima difesa o, in subordine, la concessione delle attenuanti della provocazione e dei motivi di particolare valore morale e sociale.

Letti gli atti ed ascoltati i testimoni e le parti, la Corte osserva: in ordine al fatto lesivo dell’integrità fisica di Marafioti non può dubitarsi minimamente che debba valutarsi sotto il profilo dell’omicidio, dato che le circostanze emerse dall’istruzione stanno a dimostrare che precisa intenzione dell’imputato fu quella di sopprimere e non semplicemente di ferire la vittima. D’altra parte lo ammise lo stesso Vittorio Froio nei suoi interrogatori, chiarendo anche il movente che lo spinse, quando affermò che la vittima voleva suggestionarlo con incantesimi ed esorcismi. Affrontando questo punto, la Corte afferma che ci troviamo di fronte ad un tipo di omicidio particolare: l’omicidio cosiddetto rituale e spiega che è quel tipo di omicidio nel quale la suggestione della superstizione impone la soppressione della vittima perché prospetta soltanto un dilemma: o tutto o nulla. È quella situazione nella quale non è ammessa altra via per levare l’incantesimo che togliersi davanti colui che tale incantesimo ha posto o vuole porre in essere; è il delitto in cui si vuole e si deve uccidere perché solo attraverso il sangue si può allontanare da sé stessi la mala sorte. Suggestione e superstizione che, se non possono trovare spiegazione e fondamento nell’animo di una persona sensata e di media cultura, trovano, invece, il loro substrato nell’animo di un ignorante e di un inesperto quale è l’imputato e deve essere convenientemente valutato. Al preciso, inequivocabile elemento soggettivo si accompagnano, poi, le modalità esteriori dell’azione e, in special modo, la reiterazione dei colpi, la regione del corpo presa di mira e colpita, la distanza – quasi a bruciapelo – da cui i colpi stessi furono sparati, la proditorietà dell’esecuzione, effettuata quando Marafioti, ignaro, si stava tranquillamente allontanando, per cui la volontà omicida non può, in nessun modo, essere contestata.

E se così è, non si può certamente parlare di legittima difesa. Ma restano in campo le attenuanti chieste in subordine dalla difesa: la provocazione e i motivi di particolare valore morale e sociale. La Corte, anche in questo caso le esclude e spiega: è risultato che Marafioti si recò in casa dell’imputato dietro reiterati inviti dei genitori di costui e che il colloquio si svolse in presenza dei testi Scicchitano e Ranieri che avevano accompagnato Marafioti, nonché dei genitori di Vittorio Froio. Tutti i testi, compresi il padre e la madre del prevenuto, esclusero che Marafioti avesse pronunciato minacce e furono concordi nell’affermare che si limitò a consigliare il Vittorio a troncare la relazione e a desistere dal proposito di sposare Francesca Procopio. Successivamente i genitori dell’imputato, davanti al Giudice Istruttore, aggiunsero che Marafioti minacciò il loro figliuolo, senza precisare in cosa fossero consistite le minacce. È evidente che tale modifica alle immediate e spontanee dichiarazioni precedenti è frutto del tentativo, giustificabile ed umano, di porre in essere una circostanza favorevole nei confronti della loro creatura per cui alla circostanza stessa, non confermata dagli altri testi presenti, non può essere dato credito alcuno. Accertato, così, che Marafioti si recò in casa Froio perché invitato a farlo e che nessun atteggiamento provocatorio o minaccioso mantenne nei confronti dell’imputato, su quale elemento si può basare la richiesta dell’attenuante della provocazione? La negazione dell’attenuante dei motivi di particolare valore morale e sociale è una logica conseguenza.

La Corte, però, ritiene giusto concedere all’imputato, in ordine a tutti i reati a lui ascritti, le attenuanti generiche, in considerazione dei suoi ottimi precedenti penali e dal fatto che egli, ignorante ed inesperto, si lasciò trascinare al delitto sotto l’influsso della suggestione della superstizione.

È tutto, ora si può passare a quantificare la pena: si stima equo infliggere per l’omicidio la pena di anni 21 di reclusione, diminuita di 1/3 per le attenuanti generiche e per i reati previsti dalla legge sul controllo delle armi quella complessiva di anni 5 di reclusione, diminuita di 1/3 per la lieve entità del fatto e di altro terzo per le attenuanti generiche. In definitiva, anni 14 per l’omicidio ed anni 2, mesi 3 e giorni 20 di reclusione per gli altri reati, oltre alle spese, ai danni ed alle pene accessorie.

L’11 dicembre 1951 la Corte di Cassazione converte il ricorso dell’imputato in appello, designando la Corte d’Assise d’Appello di Reggio Calabria.

Il 10 novembre 1952 la Corte d’Assise d’Appello di Reggio Calabria conferma la sentenza di primo grado.

Il 27 febbraio 1954 la Corte di Cassazione dichiara inammissibile il nuovo ricorso dell’imputato.

Il 14 maggio 1954 la Corte d’Appello di Catanzaro, applicando il D.P. 19 dicembre 1953, n. 953, dichiara condonati anni 3 della pena inflitta.[1]

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Catanzaro.