L’uomo, Antonino Tripodi, diciannovenne contadino di Montebello Ionico in provincia di Reggio Calabria, nel cuore della notte, dopo essere riuscito ad aprire la porta di casa di sua cognata Agata Romeo, sola in casa con la sua bambina perché il marito Leonardo Foti è emigrato da qualche mese in Francia, procede scalzo e a tentoni fino alla camera da letto e le sussurra:
– Agata… Agata… svegliati… ho fatto un sogno… – la donna si sveglia borbottando qualcosa di incomprensibile, mentre il cognato continua – ho sognato che c’è un vaso pieno di danaro seppellito nell’orto…
– E che volete da me? – gli risponde infastidita.
– Ho sognato che per poterlo trovare io e te dobbiamo congiungerci carnalmente…
– Che cosa? Siete pazzo! Aiuto! – urla Agata, poi salta dal letto, afferra la bambina che si è messa a piangere, e scappa prima che Antonino riesca a metterle le mani addosso, correndo a rifugiarsi in casa di un’altra cognata, Caterina Foti.
– Non dire niente a nessuno se no ti ammazzo! – la minaccia prima di scappare anche lui, scalzo com’è, ma non torna a casa da sua moglie, ha paura che Agata stia raccontando tutto e teme la reazione dei familiari, quindi sparisce nel buio e nessuno sa che fine abbia fatto, ma forse lo sa Giuseppe Familiari che va dalla moglie e si fa dare le scarpe per portargliele.
La mattina dopo, 28 agosto 1925, Agata, sua cognata Caterina ed il convivente di questa raccontano tutto ad Annunziato Foti, suocero di Agata e padre di Caterina, che ne rimane indignato ed è inevitabile che i rapporti tra la famiglia Foti ed Antonino Tripodi si incrinino.
Nella tarda mattinata del 29 agosto Antonino torna a casa con una doppietta carica appesa alla spalla e ci trova il suocero e l’altro cognato Giovanni Foti. Padre e figlio si guardano preoccupati perché non gli avevano mai visto prima quell’arma, poi guardano verso una parete e vedono al suo solito posto l’antico fucile ad avancarica.
– Chi volete ammazzare con questo fucile? – gli chiede il suocero, senza ottenere risposta. Allora, temendo che possa accadere qualcosa di grave, gli si lancia addosso e afferra il fucile dalle canne per disarmarlo, ma Antonino resiste e inizia un furibondo tira e molla al quale si unisce anche Giovanni. All’improvviso parte un colpo e tutti si fermano. Annunziato si tocca pensando di essere stato colpito e Antonino, convinto di averlo ammazzato, scappa portandosi dietro l’arma, poi va a costituirsi dai Carabinieri di Melito Porto Salvo. Per fortuna il colpo è andato a vuoto e nessuno si è fatto male, così i Carabinieri rilasciano Antonino e gli restituiscono anche il fucile.
Dopo l’accaduto è chiaro che Antonino non può più vivere in contrada Galatti, dove vivono tutti i Foti, così va con la moglie ad abitare in casa dei genitori in contrada Mastropietro e la situazione ritorna tranquilla. O almeno così sembra.
6 novembre 1925, ore 8,30, contrada Sarcomanno. Giovanni Foti, le sue due sorelle nubili Grazia ed Antonia ed il loro padre Annunziato stanno lavorando la terra, quando Giovanni si allontana per soddisfare un bisogno corporale dietro uno spuntone di roccia, ma non fa nemmeno in tempo a sbottonarsi i calzoni che gli si para davanti Antonino Tripodi con la doppietta spianata e, a distanza di una diecina di metri, gli spara un colpo con una cartuccia caricata a pallini, la cui rosa si allarga e lo investe al torace ed al viso, ma forse la carica di polvere è insufficiente e Giovanni, seppure orrendamente ferito, scappa per salvarsi dal secondo colpo. Secondo colpo che non parte e allora Antonino tira fuori una rivoltella e gli spara altri tre colpi, senza fortunatamente centrare il bersaglio, poi scappa e sparisce nel nulla per la seconda volta e le ricerche condotte dal Brigadiere Tommaso Capozzi, comandante la caserma di Montebello Ionico, sono vane. La buona notizia è che nessuno dei pallini ha leso organi vitali e dopo una lunga opera di estrazione dalle carni del petto e del viso, i medici dell’ospedale di Saline Ioniche certificano che guarirà in una quindicina di giorni.
Due giorni dopo il ferimento di Giovanni Foti, la mattina di domenica 8 novembre verso le 11,00, sua sorella Caterina sta falciando erba in contrada Marelle, quando all’improvviso le si para davanti suo cognato Antonino Tripodi.
– Sarebbe meglio che ti costituissi ai Carabinieri invece di andare ramingo per le campagne – gli dice.
– Allora tu cerchi di farmi la spia? – le risponde.
– Io non dirò nulla, il mio era semplicemente un consiglio – poi si piega per tagliare una pianta di fichidindia e Antonino, estratta la rivoltella, le spara tre colpi, tutti a segno, e poi le dice:
– Adesso vai a raccontarlo ai tuoi! – e si allontana, mentre Caterina scappa urlando per il dolore. Poi, stremata, crolla a terra proprio mentre dal posto passa Antonino Familiari che la vede e corre a chiamare i Carabinieri.
Il Brigadiere Capozzi con i suoi uomini si precipita sul posto, constata le ferite e le chiede il nome di chi l’ha ferita e perché. Caterina gli narra il fatto e aggiunge:
– L’ha fatto per la relazione illecita che Antonino tentava di avere con mia cognata Agata Romeo e se fosse riuscito nell’intento sarebbe stata una vergogna per tutti i famigliari, quindi noi di famiglia cominciammo a guardarlo di malocchio…
I Carabinieri la prendono e la portano a casa, dove il dottor Paolo Tripodi, medico condotto del paese, le estrae un proiettile di piccolo calibro dal fianco destro e, data la gravità delle ferite, la dichiara in imminente pericolo di vita e ne dispone il ricovero urgente all’ospedale di Melito Porto Salvo. La diagnosi dei medici è impietosa: ferita da arma da fuoco con foro d’entrata alla regione sopra clavicolare destra e foro d’uscita alla regione sopra spinosa destra, ledente i soli tessuti molli; ferita d’arma da fuoco con foro d’entrata alla regione ipocondriaca sinistra, penetrante nella cavità addominale; ferita con foro d’entrata al fianco destro, penetrante nella cavità addominale e con foro d’uscita alla regione lombare destra, ledente il rene destro. Serve un intervento chirurgico urgente per capire quali danni hanno provocato le pallottole penetrate nella cavità addominale e cercare di porvi rimedio, ma la situazione è disperata. Una volta aperta, è chiaro che i danni sono irreparabili perché le due pallottole hanno provocato la lesione dello stomaco in corrispondenza della regione pilorica e lesioni multiple dell’intestino tenue con cospicuo versamento ematico, misto a materia fecale. Non c’è niente da fare, Caterina muore nel pomeriggio di lunedì 9 novembre, proprio mentre al Brigadiere Capozzi arriva un telegramma dalla Questura di Reggio Calabria: giorno 9 corrente si costituiva in questo ufficio certo Tripodi Antonino, dichiarando di essere ricercato dalla forza pubblica perché autore di un duplice mancato omicidio.
Antonino viene subito interrogato dal Commissario Gregorio Caratore, che sa solo i nomi delle vittime, e racconta:
– Il sei corrente, verso le ore otto, mi avviavo verso casa quando, giunto in contrada Arennà, mi imbattei in mio cognato Giovanni Foti, fratello di mia moglie, il quale attendeva ad arare un lotto di fondo. Giovanni, appena mi scorse, depose l’aratro e si diresse di corsa verso di me impugnando nella destra una pistola Mauser. Io, che lo sapevo animato da prave intenzioni a mio riguardo, imbracciai il fucile ad una canna ed a bacchetta di cui ero munito e gli esplosi contro, alla distanza di circa sei metri, un colpo, attingendolo in pieno petto. Quando lo vidi cadere tramortito a terra buttai l’arma, che mi era di imbarazzo e che poteva richiamare su di me l’attenzione della forza pubblica, e mi allontanai. Ramingai due giorni riposando in aperta campagna in luoghi solitari. La mattina di domenica otto, verso le ore nove, mi trovavo a passare per la contrada Don Nicola, quando avvertii del rumore come di persona che si muoveva dietro un’armacera (un muro a secco. Nda). Temendo di essere sorpreso da qualche parente di mio cognato, sparai in quella direzione tre colpi di rivoltella che, come il fucile, asportavo senza licenza. Dovetti colpire nel segno perché udii delle grida di dolore. Mi allontanai da quel luogo e mi avviai a Reggio per costituirmi…
– Perché tuo cognato nutriva rancore nei tuoi confronti?
– Perché certa Agata Romeo, moglie di mio cognato Leonardo Foti, quindi fratello di Giovanni, che in atto si trova emigrato in Francia, gli riferì che io avevo tentato di possederla. Da quel giorno Giovanni Foti nutrì odio implacabile contro di me e giurò di vendicarsi.
– Lo sai che l’altra persona a cui hai sparato è Caterina Foti, presumo tua cognata?
– Contro Caterina non avevo alcuna ragione di rancore…
Trasmesso l’interrogatorio ai Carabinieri di Montebello, non ci vuole molto a smentire la dichiarazione di Antonino. Ora, con tutti gli atti a disposizione, ad interrogarlo è il Giudice Istruttore e Antonino, dopo aver ritrattato la prima dichiarazione, ricostruisce i fatti in modo alquanto diverso:
– Il sei novembre stavo andando in contrada Galatti presso Domenico Iaria per restituirgli lire venti datemi in prestito una ventina di giorni prima. Io passai ad una trentina di metri da mio cognato Giovanni Foti e non potevo vederlo perché di mezzo ci stavano delle rocce. Tutto ad un tratto mi vidi davanti Giovanni il quale mi puntò contro una Mauser a distanza di circa venti passi. Io, che portavo un fucile ad avancarica ad una canna, già carico, vedendo in pericolo la mia vita e conoscendo le intenzioni ostili di lui, gli esplosi contro la carica del fucile e scappai lasciando sul posto l’arma perché mi cadde dalle mani per essere scivolato durante la corsa.
– Possibile che tu non l’hai visto e invece lui ti ha visto? Se l’impedimento c’era per te, doveva esserci anche per lui, o no?
– Io non potevo vederlo per la roccia, ma lui certamente mi vide perché si avvicinò armato…
– Ora raccontami il fatto accaduto con tua cognata Agata Romeo.
– La mia casa è distante da quello della Romeo circa venti passi ed una sera, essendomi accorto che non avevo acqua in casa, giacché la fontana è distante, approfittando della buona amicizia con Agata andai a prenderne un poco nella sua cucinetta, che è posta al lato della casa, ma distaccata di circa un metro. Sapevo che la cucinetta è sfornita di porta ed ebbi appena il tempo di prendere l’acqua che Agata uscì gridando “Tripodi il figlio del sindaco venne ad inquietarmi!”.
– Il figlio del sindaco?
– Sindaco è il soprannome di mio padre…
– E poi?
– Io non risposi temendo che le grida fossero intese dalla famiglia del suo sposo e mi allontanai dalla zona per evitare eventuali quistioni. La mattina appresso seppi da Giuseppe Familiari che Giovanni Foti, armato di fucile, gli aveva domandato di me. Allo scopo di difendermi da una possibile aggressione di Giovanni acquistai un fucile a due canne a dietrocarica per lire duecentoventicinque da Antonio Familiari ed ebbi anche quattro cartucce cariche. Il giorno successivo, armato del fucile, verso mezzogiorno tornai a casa mia, ove mi attendevano mio suocero e mio cognato. Li salutai, entrai in casa e deposi il fucile, carico come si trovava. Giovanni mi disse con tono brusco “venite con me ché devo parlarvi”. Gli risposi che non stavo comodo ed egli, muovendo il bastone che aveva in mano, cercava di entrare in casa. Mio suocero, che era in casa mia, mi disse “perché avete portato quest’altro fucile? Ve lo romperei addosso!”. E così dicendo tolse il fucile dal muro. Intanto entrò Giovanni e io cercai di togliere il fucile dalle mani di mio suocero, che lo teneva per le canne aiutato da suo figlio. Nei movimenti che facemmo il fucile esplose ed io scappai perché mio suocero gridò “mi ammazzò!”. Pensai che il colpo l’avesse raggiunto e mi costituii ai Carabinieri di Melito i quali, quando seppero che il colpo era stato esploso accidentalmente, mi rilasciarono. Me ne andai a casa di mia madre, ove venne a trovarmi mia moglie e mi disse di non andare più nella casa coniugale perché mio suocero e mio cognato mi avrebbero ammazzato. Io non volevo sottostare a questa imposizione ingiustificata, ma cedetti alle preghiere di mia moglie e dei miei genitori. Mandai più volte mia moglie a dire a mio cognato di lasciarmi in pace perché nulla avevo fatto contro Agata, ma lui rispose che non voleva vedermi davanti ai suoi occhi perché mi avrebbe sparato in fronte.
– Invece lo hai sparato tu e hai pure ucciso tua cognata Caterina.
– Non ho la coscienza di avere ucciso Caterina.
– Spiegami perché dici così.
– Giorno otto non andai affatto in quella contrada dove fu uccisa Caterina, lei non ha proprietà lì e non so come possa essersi trovata lì. È vero che giorno otto, verso le sette, passai dalla contrada Pizzola di Plaga, vicino alle case dei Zampaglione. Avendo sentito del rumore in una siepe di fichi d’India, come di un sasso che rotola, e pensando che passasse qualche volpe sparai due colpi di rivoltella in mezzo alla siepe. Non sentii gridare e continuai la mia via.
– E allora perché ti sei costituito dicendo al Commissario che avevi commesso due mancati omicidi, che hai parlato con la Foti Caterina e che dopo avere sparato i tre, e non due, colpi di rivoltella sentisti gridare e dicesti “adesso vai a raccontarlo ai tuoi”?
– Non è vero che ho detto al Commissario di aver sentito delle grida dopo i colpi. Tanto meno è vero che abbia parlato con Caterina Foti prima di sparare i colpi e che dopo abbia detto “adesso vai a raccontarlo ai tuoi”! Io non avevo motivi di rancore verso di lei!
Tutto cozza contro le dichiarazioni dei testimoni, anche quelli citati da Antonino a suo discarico e la Procura chiede il suo rinvio a giudizio per rispondere di: a) tentato omicidio premeditato in persona di Foti Giovanni; b) omicidio volontario in persona di Foti Caterina; c) porto abusivo di fucile e rivoltella.
Il 6 luglio 1926 la Sezione d’Accusa accoglie parzialmente la richiesta e derubrica il reato di tentato omicidio premeditato in persona di Foti Giovanni in quello di lesioni personali volontarie con premeditazione. Accoglie, invece, pienamente la richiesta per quanto riguarda l’omicidio volontario in persona di Caterina Foti, definendo inverosimile e assurda la seconda versione dei fatti fornita dall’imputato, ritenendo pienamente credibile la prima rilasciata al Commissario Caratore.
Ad occuparsi del caso è la Corte d’Assise di Reggio Calabria il 17 ottobre 1927.
Letti gli atti ed ascoltati i testimoni e le parti, la Corte osserva: ritenuto che i Signori Giurati hanno affermato che Tripodi Antonino l’8 novembre 1925, volontariamente e col fine di uccidere esplose vari colpi di rivoltella contro Foti Caterina, che a causa dei colpi suddetti morì il giorno appresso, il fatto costituisce il reato di omicidio volontario, punibile con la pena che va dagli anni 18 a 21 di reclusione, e per le modalità del fatto, il Presidente crede applicare anni 21, che si riducono ad anni 17 e mesi 6 di reclusione per la diminuente dell’età dell’imputato, al momento del delitto compiuto maggiore degli anni 18 ma minore degli anni 21; che i Signori Giurati hanno affermato altresì che lo stesso Tripodi il 6 novembre 1925 esplose contro Foti Giovanni un colpo di fucile e vari colpi di rivoltella, producendogli lesioni guarite in giorni 16; hanno poi affermato i Signori Giurati che il Tripodi agì con premeditazione e la pena prevista per tale reato va da giorni 35 ad anni 1 e mesi 4 di reclusione, il Presidente crede equo applicare giorni 66, che per il cumulo giuridico si riducono a giorni 33.
Poi c’è il porto abusivo di fucile e rivoltella e si aggiungono altri 145 giorni di reclusione. Fatti i conti, la condanna complessiva ammonta ad anni 17, mesi 7 e giorni 27 di reclusione, più le spese, i danni e le pene accessorie.
La Suprema Corte di Cassazione, il 29 aprile 1928 rigetta il ricorso di Antonino Tripodi.[1]
[1] ASRC, Atti della Corte d’Assise di Reggio Calabria.