
Il sole è ancora abbastanza alto alle sei del pomeriggio del 21 luglio 1916, quando Bruno Pucci e Pasquale Bernardo bussano alla porta della caserma dei Carabinieri di Aiello Calabro e chiedono, con evidente agitazione, di parlare col Maresciallo Salvatore Falconieri.
– Marescià davanti alla sua casa colonica c’è Luigi Coccimiglio ferito gravemente…
– Ferito per un’incidente o si tratta di delitto?
– Non lo sappiamo, la moglie ci ha visti e ci ha pregati di venirvi ad avvisare…
– E dove si trova la casa colonica?
– In contrada Serrapelata.
– Dovete accompagnarmi sul posto, andiamo.
Luigi Coccimiglio è disteso supino sulla nuda terra del cortile adiacente alla casa; sul lato sinistro del petto ha il foro di un proiettile e si guarda intorno con aria stranita. Il Maresciallo Pucci ordina di portarlo in casa e quando alcuni presenti lo sollevano, in corrispondenza della ferita sulla parte sinistra del torace, si scopre che ce n’è un’altra alle spalle, evidentemente il foro di uscita del proiettile, ma nessuno nota che sulla parte destra del torace, nella zona ascellare, c’è un’altra ferita da arma da fuoco, con foro d’uscita nella zona posteriore dell’ascella, ferita che verrà repertata più tardi dal medico condotto, che dichiara Luigi in pericolo di vita.
– Ce la fate a parlare? – gli chiede Pucci.
– È sordomuto – gli rispondono.
Allora Pucci a gesti gli chiede chi è stato a sparargli e Luigi, a gesti, gli fa capire che poche ore prima il fratello Giuseppe gli aveva esploso contro due colpi.
Poi si fa avanti il padre, Bruno, e racconta come sono andati i fatti:
– Per ragioni di interesse di certa acqua destinata all’irrigazione dei nostri fondi e di una cavalla che deteniamo in comune, venni a litigio con mio figlio Giuseppe che, inseguendomi nel momento in cui mi recavo nella stalla per dimostrargli che anch’io ho diritto alla cavalla, che pagammo insieme, e quindi posso servirmene, estrasse la pistola, mi disse “lascia la giumenta altrimenti ti ammazzo!” e tirò tre volte il grilletto, ma l’arma non sparò. Della lite si accorse Luigi e corse subito per mettere pace. Mentre io mi nascondevo dietro il forno e Giuseppe mi gridava “esci fuori dal nascondiglio!”, Luigi, visto il fratello con la pistola in pugno ma non udendo il minaccioso invito del fratello, gli si lanciò contro per disarmarlo ed allora il fratello, per sfogare la sua brutale passione, gli esplose due colpi facendolo stramazzare. Io, terrorizzato, compresi l’intenzione di Giuseppe e mi nascosi in casa, mentre lui, non saziato ancora della sua ira feroce, finita la carica della pistola e poco curandosi del fratello da lui crivellato, corse in casa e, armatosi di doppietta, scese nel cortile e sempre nascosto dietro il fabbricato, gridava a me, che ogni tanto mi affacciavo dalla finestra per osservare le sue mosse, “sporgi la testa che ti voglio acconciare!”. Poi passò nella propria casa e sporgendosi dalla finestra ripeteva la stessa minaccia. Non potendo riuscire nel suo intento, sempre col proposito di finirmi, scese dietro il muro di cinta del cortile, alto circa un metro e mezzo, e si appostò dirimpetto alla mia finestra, che chiusi subito non appena lo vidi che scavalcava il muro, e continuava a minacciarmi. Poi sopraggiunse sua moglie, Francesca Coccimiglio, la quale, per rancori verso di me, anziché cercare di portare suo marito a casa, si pose a gridare “esci fuori, cornuto, vigliacco, che ci divertiamo!”. Questa scena continuò per circa quaranta minuti e sarebbe terminata con altri funesti avvenimenti, se non fosse intervenuto il cognato di Giuseppe, Domenico Coccimiglio, che lo costrinse a ridursi in casa.
– E adesso è a casa?
– A casa sua certamente no, non so dove si è nascosto…
Prima di cominciare a cercare Giuseppe, il Maresciallo interroga i presenti che confermano sostanzialmente il racconto di Bruno. Qualcuno riferisce anche di aver sentito Francesca Coccimiglio aizzare il marito contro il padre dicendo “cornuto, esci che ti vogliamo ammazzare” e anche “ammazzalo che la colpa è sua”. Altri riferiscono di avere chiesto a Giuseppe, quando era affacciato dalla finestra di casa, perché avesse sparato contro il fratello e lui avrebbe risposto “perché mi è venuto incontro, io volevo uccidere mio padre e non mio fratello”. Ma molti testimoni riferiscono anche che Francesca Coccimiglio piangeva e si disperava con gli altri per l’accaduto, diceva parole sconnesse stando accanto al ferito, imprecava contro il marito per il ferimento fatto, lo rimproverava per avere ammazzato il fratello e tuttalpiù faceva risalire al suocero la colpa di quanto era successo. Le frasi minacciose attribuitele dai testimoni hanno però l’immediato effetto del suo arresto con l’accusa di correità in tentato omicidio.
A notte fonda vengono effettuate numerose perquisizioni domiciliari nelle case dei parenti e degli amici di Giuseppe per catturarlo, ma restano senza esito e la mattina dopo vengono diramate ricerche telegrafiche alle stazioni dell’Arma di Lago, Grimaldi, Martirano e Nocera Terinese, mentre i Carabinieri di Aiello battono palmo a palmo le campagne.
Interrogata, Francesca Coccimiglio si dichiara completamente estranea ai fatti, ma resta in carcere.
Sembra però che qualcosa non quadri nella ricostruzione dei fatti perché altri testimoni asseriscono di avere incontrato Giuseppe mentre si allontanava dal luogo del delitto e ne riportano quello che avrebbe riferito loro: “mi ci hanno portato, ne avevo due appresso, uno armato di martello, l’altro di bastone…”. È un tentativo di accampare lo stato di legittima difesa o, quanto meno, di avere risposto ad una provocazione? E poi, chi avrebbe avuto in mano il martello e chi il bastone? Questo è un punto che viene subito chiarito. Bruno, il padre, davanti al Pretore ammette:
– Presi un pezzo di legno che mi serviva per fare uso della giumenta…
– Quindi il martello doveva averlo Luigi…
– Luigi prima del fatto sanguinoso aggiustava una scala con un martello, ma non ho visto il martello accanto a lui dopo che fu ferito. Anzi, ho visto il martello presso la cucina…
Seppure a fatica, sia per le ferite e sia per la sua condizione di sordomuto, Luigi racconta la sua versione dei fatti con l’aiuto di Geniale Feraco, abituato a trattare con lui:
– Io avevo un martello in mano per accomodare una scala, ma quando andai incontro a mio fratello, che spianava l’arma contro nostro padre e lo esortavo alla calma, avevo le mani libere perché avevo lasciato il martello. Quando mio fratello mi esplose i colpi non vidi mia cognata Francesca, né mi accorsi posteriormente di lei perché ero tramortito per terra. Non ho ragioni di odio contro mia cognata, anzi vorrei che fosse scarcerata…
Adesso che Luigi in qualche modo scagiona la cognata, vengono rilette le dichiarazioni dei testimoni a suo favore e Francesca, in attesa di più approfondite valutazioni della sua posizione, viene messa in libertà provvisoria.
Per fortuna le condizioni di Luigi migliorano gradualmente, è salvo e torna alla sua normale vita di tutti i giorni dopo un paio di mesi.
Per la Procura non ci sono dubbi, non ci fu nessuna aggressione con bastone e martello ai danni di Giuseppe Coccimiglio, che deve rispondere di duplice tentato parricidio (il reato di parricidio comprende anche l’omicidio dei parenti in liea retta ascendente e discendente. Nda) e per questi reati ne viene chiesto il rinvio a giudizio. Per quanto riguarda sua moglie, non ci sono prove sufficienti a dimostrare la sua partecipazione ai fatti e ne viene chiesto il proscioglimento.
La Sezione d’Accusa, il 27 novembre 1916, ritiene che Giuseppe Coccimiglio, facendo scattare per tre volte il grilletto di una rivoltella carica atta a far fuoco e puntata contro suo padre, compì tutto ciò che era necessario alla consumazione del delitto di parricidio, che non avvenne per circostanze indipendenti dalla volontà dell’imputato. Lo stesso discorso vale per il tentato omicidio di suo fratello Luigi e per questi reati, accogliendo la richiesta della Procura, ne viene disposto il rinvio a giudizio davanti alla Corte d’Assise di Cosenza. Anche per Francesca Coccimiglio viene accolta la richiesta della Procura e disposto il suo proscioglimento perché è rimasto luminosamente dimostrato che non commise il reato a lei ascritto e non vi prese alcuna parte perché essa sopraggiunse quando già il marito aveva fatto scattare per tre volte il grilletto contro il padre ed aveva esploso i tre colpi contro il fratello, né è possibile che essa abbia precedentemente determinato ed eccitato il marito ad uccidere il padre perché la risoluzione di commettere il delitto venne presa da Giuseppe Coccimiglio quando il padre si diresse verso la stalla ed in quel momento l’imputata non era presente. Le parole pronunciate contro il suocero furono evidentemente uno sfogo di dolore che provò nel vedere che il marito si era reso colpevole di un grave reato e dello sdegno da cui fu presa nel pensare che del fatto era stato causa il suocero.
Però la guerra infuria, molti testimoni citati dalle parti sono sotto le armi e così la causa viene rinviata più volte ed in questo frattempo Giuseppe Coccimiglio è stato arrestato e racconta la sua versione dei fatti:
– La notte dal 20 al 21 luglio 1916 dormii sulla macchia. La mattina andiedi al lavoro e mi ritirai a casa ove mangiai e bevetti un litro di vino. Dopo uscii nel cortile e trovai mio padre che parlava dell’uso dell’acqua, che mi negava, per l’irrigazione del mio fondo e disse che io avevo diritto ogni due giorni. Io ripetetti a mio padre che mi concedesse dell’acqua come pel passato, ma si mostrò negativo. D’accordo si mandò a chiamare mio cognato Carmine Coccimiglio per decidere sulla questione e gli diede torto ma mio padre non volle saperne. Si riaccese in quella circostanza l’altra questione della giumenta che con mio padre avevo in comune. Mio padre si allontanò e tornò con un tridente in mano contro di me ed a lui si unì mio fratello Luigi, armato di martello. Io, intimorito, trassi la rivoltella e scappando sparai tre colpi per farli desistere d’inseguirmi, allorché intesi che mio fratello era stato ferito.
– I testimoni che erano presenti dicono che le cose andarono diversamente…
– Le cose andarono come vi ho detto.
– Quindi non è vero che avete puntato la rivoltella contro vostro padre e che l’arma fece per tre volte cilecca?
– No.
– Non è vero neanche che avete sparato a vostro fratello stando di fronte a lui a circa quattro metri di distanza, come ha accertato la perizia medica?
– No, non è vero.
Finalmente la causa viene fissata e si discute il 4 aprile 1919.
Durante lo svolgimento del dibattimento, dagli sguardi che si incrociano si percepisce che qualcosa sta cambiando, che forse qualcuno si sta convincendo che Giuseppe qualche ragione ce l’aveva per fare quello che ha fatto, ma ormai è arrivato il momento che i giurati si ritirino in camera di consiglio per votare sui quesiti che le parti hanno concordato di sottoporre loro.
E scoppia una grana su uno dei quesiti, propriamente quello proposto dalla difesa e relativo all’eccesso colposo di legittima difesa. Vediamo cosa è accaduto.
I giurati stanno votando sui quesiti relativi al tentato omicidio in persona di Luigi Coccimiglio. Alla domanda se l’imputato commise il fatto costretto dalla necessità di respingere da sé una violenza attuale ed ingiusta, quindi per legittima difesa, rispondono di no. Poi rispondono affermativamente alla domanda se l’imputato commise il fatto volontariamente. Adesso i giurati devono votare sulla domanda se l’imputato commise il fatto eccedendo i limiti della legittima difesa e scoppia la bagarre: il Pubblico Ministero protesta osservando che, essendosi risposto negativamente alla domanda della legittima difesa, non si possa procedere alla votazione della domanda sull’eccesso di difesa, mentre la difesa sostiene che si debba votare. Il Presidente della Corte stabilisce che si debba votare ed il risultato è che i giurati votano affermando che si trattò di eccesso di legittima difesa. Poi tutto il resto si svolge nella tranquillità ed il Presidente può leggere la sentenza: la Corte, derubricando il reato da tentato omicidio a lesioni personali, condanna Giuseppe Coccimiglio, concesse le attenuanti, alla reclusione per anni due, mesi cinque e giorni cinque e dichiara condonati mesi quattro della pena per il Decreto 21 febbraio 1919.
Il Pubblico Ministero è convinto delle sue ragioni e ricorre per Cassazione. La Suprema Corte, l’11 giugno 1919 emette la sentenza con la quale dichiara inammissibile il ricorso.[1]
[1] ASCS, Processi Penali