IL GONFIORE DELL’ADDOME

Santo Arcuri e Vincenzina Di Santo sono sposati, vivono a Falconara Albanese, e hanno una bambina. Nel mese di aprile del 1934 Santo deve lasciare la famiglia perché chiamato sotto le armi per ordinario servizio militare e rimane fino al mese di dicembre del 1935. Un anno e mezzo.

Vincenzina, durante questo anno e mezzo, cede alle avances di Saverio e rimane incinta. Un bel problema, ma Vincenzina non ha nessuna intenzione di provare ad abortire con uno dei tanti sistemi rudimentali e quando, agli inizi del mese di settembre 1935, arriva al settimo mese di gravidanza deve trovare il modo di nascondere il pancione a Santo, improvvisamente arrivato a casa con una licenza di pochi giorni.

– Sono malata all’utero, ma il medico ha detto che non è grave e vedrai che a dicembre, quando torni, sarò guarita!

Santo le crede e, sebbene un po’ preoccupato per la salute di sua moglie, finita la licenza torna a marciare e a montare di guardia.

È ormai la metà di dicembre quando Santo rientra definitivamente a casa e la pancia di Vincenzina è più gonfia di prima.

– E che ci posso fare? Il medico mi ha detto che ormai sono quasi guarita, un po’ di pazienza…

Sono passati appena tre giorni da quando Santo è arrivato. È sera. Marito e moglie, dopo aver mangiato qualcosa, vanno a letto. All’improvviso Vincenzina comincia a contorcersi nel letto con delle fitte tremende. Le sono venute, improvvise, le doglie e adesso non ci sono scuse che tengano perché in quattro e quattr’otto partorisce davanti a Santo, talmente incredulo ed esterrefatto, da non riuscire ad avere alcuna reazione, nemmeno un’offesa, una bestemmia. Niente.

La mattina dopo, però, prende le sue quattro cose e torna dai genitori, ancora incapace di capire come abbia potuto credere alla grossolana bugia di Vincenzina e l’unica cosa a cui pensa è che vuole dimenticare in fretta la cocente delusione e rifarsi una vita con una donna che lo ami veramente. E l’onore? Non ci pensa all’onore? Che diranno in paese? Ma chi se ne fotte dell’onore! Santo è giovane e ha voglia di vivere, che parlino pure. Che parlino pure quelli che sono cornuti come lui, ma che non lo sanno e vivono beati.

Smaltita un po’ la delusione, Santo chiede a Vincenzina il consenso alla separazione, ma lei da questo orecchio non ci sente e non c’è niente da fare. E allora come farà Santo a rifarsi una vita se non può unirsi legalmente con un’altra donna? Semplice, se un’altra donna lo vorrà, vivranno in concubinato alla luce del sole.

Con le prime due giovani che comincia a corteggiare non va bene perché Vincenzina si intromette minacciando pesantemente le due, che si ritirano in buon ordine. Poi Santo conosce Teresa, che ha avuto una cocente delusione amorosa e sarebbe contenta di vivere con lui anche al di fuori della legge.

Sarebbe, ma non ha fatto i conti con Vincenzina che con la sua capacità di convincere le rivali le intima di rientrare nei ranghi e di lasciare in pace Santo che, ormai disperato, va a trovare la moglie per una definitiva spiegazione.

– Non l’hai capito? Io non lascerò in pace alcuna donna che verrà a convivere con te!

Santo non dice una parola, abbassa la testa e se ne va, ma ha già deciso quello che farà.

La sera dopo, 30 settembre 1936, torna da Vincenzina e le dice:

– Ho capito che il mio destino è quello di rimanere con te, voglio dimenticare il passato, riappacificarmi e tornare a casa – Vincenzina sorride soddisfatta, ha ottenuto ciò che voleva. I due si abbracciano, poi Santo continua –. Vieni con me fino a casa di mio fratello onde prendere qualche cosa da mangiare e poi torniamo nell’antica nostra casa insieme.

Vincenzina, contenta, si avvia fiduciosa con Santo, ma quando arrivano vicino ad un fosso, un punto nascosto alla vista, all’improvviso Santo l’attira a sé, la butta supina nel fosso, le si mette sopra e le stringe le mani alla gola fino a che Vincenzina non respira più. Poi si alza e comincia ad andarsene, ma non è del tutto sicuro di averla uccisa, così torna indietro e le serra di nuovo le mani alla gola. Sì, adesso è sicuramente morta e può andare a costituirsi.

Mi aveva reso la vita impossibile e allora decisi di finirla una buona volta e maturai nella mia mente il pensiero di disfarmi di lei. Non sono pentito di quanto ho fatto perché, ripeto, mia moglie mi aveva reso la vita impossibile.

Omicidio doppiamente aggravato per i rapporti di parentela (coniuge) e per la premeditazione. Con questa terribile accusa Santo Arcuri viene rinviato al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza e la causa si discute il 26 gennaio 1937.

Nel corso del dibattimento viene contestata all’imputato la recidiva reiterata nel quinquennio, essendo stato condannato nel 1932 e nel 1934 per furto. Il Pubblico Ministero chiede la condanna ad anni 22 di reclusione per l’uxoricidio volontario con recidiva, esclusa la premeditazione, e con l’attenuante dello stato d’ira. La difesa chiede la condanna per omicidio preterintenzionale con le attenuanti dello stato d’ira e dei motivi di particolare valore morale.

La Corte, letti gli atti ed ascoltati i testimoni e le parti, osserva che non può dubitarsi che il prevenuto sia stato causa volontaria e materiale dell’uxoricidio, avendo agito con intenzione di uccidere la moglie e non già di lederne l’integrità personale, come egli stesso affermò, onde egli deve esserne ritenuto responsabile. Quindi la richiesta della difesa di derubricare il reato è respinta. Poi la Corte continua: per effetto della stessa confessione deve escludersi che il delitto sia stato premeditato anzitutto perché la determinazione a consumarlo avvenne nella sera stessa o qualche ora prima del delitto. Poi, solo ammettendo la determinazione improvvisa si spiega come il prevenuto si sia accinto al delitto senza essersi munito di armi o di altri mezzi di esecuzione che avessero potuto preventivamente garantirgli un successo rapido e sicuro.

Per quanto riguarda le attenuanti chieste dalla difesa, la Corte afferma che non può negarsi la diminuente dello stato d’ira, ammessa dallo stesso Pubblico Ministero, in quanto il prevenuto agì sotto l’angoscia della patita onta e coll’assillo di vedersi contrastato dall’adultera moglie il disegno di trovare una compagna, cosa di cui, per la sua stessa colpa, non avrebbe dovuto interessarsi. Non gli si può concedere, però, la diminuente dei motivi di particolare valore morale poiché l’omicidio per vendetta o per rimuovere l’ostacolo ad una finalità contraria al buon costume, quale è quella di vivere in concubinato, non ha nulla di morale, anzi riveste tutti i caratteri di un’azione per rendere a sé stesso possibile una vita licenziosa.

Non resta che determinare la pena da comminare: credesi giusto determinarla in misura mite, in considerazione dei motivi a delinquere, del mezzo adoperato, della pericolosità dell’imputato, onde, partendo dal minimo di anni 24, si può ridurre di un terzo per lo stato d’ira e scendere così ad anni 16. La pena, però, deve essere aumentata della metà per l’aggravante della recidiva nel quinquennio e risale, per tal guisa, ad anni 24 di reclusione, oltre alle spese, ai danni ed alle pene accessorie.

È il 27 giugno 1937.

Del ricorso pendente in Cassazione non ci sono notizie.[1]

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.