SCINNA SI TÌANI CURAGGIU!

Il sole è un mezzo disco rosso dietro le montagne verso il mare e l’Ave Maria è già suonata, quando tre o quattro giovanotti stanno scherzando tra di loro spingendosi a vicenda davanti alla cantina di Carmine Venneri in contrada Noci di Greco, sulla via per Parenti poco fuori l’abitato di Rogliano. È il 15 marzo 1914.

Ad un certo punto uno dei giovanotti, il diciottenne Pasquale Calandra, si avvicina alla moglie del cantiniere ed accarezza il visino del bambino che ha in braccio e la mano scivola pericolosamente verso il viso della donna. Pericolosamente? Sì perché Carmine Venneri è affacciato dalla finestra di casa, di fronte alla cantina, e vede che gli scherzi non sono molto leciti.

Ohé! Giuvinò, tu e l’amici tua jati jocati a n’atru pizzu!

E sinnò chi fai? – gli risponde Calandra in modo provocatorio.

Sinnò scinnu e te fazzu ‘a faccia nivura! – gli risponde Venneri.

E scinna abbasciu si tiani curaggiu! – dice Calandra.

Venneri, rosso in faccia per la rabbia, lascia la finestra e rientra in casa per scendere in strada.

In attesa dell’avversario, Calandra caccia di tasca un rasoio, ma gli amici lo convincono a lasciar perdere e ad andare via tutti insieme. Poi si fermano a parlottare davanti al fabbricato dove abita uno degli amici, Angelo Gabriele. All’improvviso Calandra tira uno schiaffo in faccia al quindicenne Amedeo Alessio, un altro della compagnia, reo di aver fatto una battuta sgradita.

Pasquà, fa bellu bellu ca mò ‘a sta cacannu a tutti! – gli dice Angelo Gabriele, altro membro della combriccola.

Apriti cielo! Calandra gli sferra un pugno sul petto e Gabriele raccoglie un pezzo di legno per reagire, ma Calandra toglie di nuovo di tasca il rasoio e l’altro preferisce lasciar perdere. Però lo avvisa:

Pasquà, staju jennu addue i Carbinieri a te fare a denunzia! – e si allontana, ma fatti pochi passi si pente, non volendo fargli un male denunciandolo, e torna indietro.

In questo frattempo è scesa in strada la sorella di Gabriele, Agata, per riportare il fratello a casa, ma non lo trova e Calandra l’aggredisce alle spalle, stringendole il braccio sinistro al collo, mentre con la mano armata di rasoio cerca di tagliarle la faccia, ma l’ultimo del gruppo, il sedicenne Valentino Garofalo Porro, gli trattiene il braccio cercando di togliergli l’arma.

Il trambusto che c’è nella strada richiama l’attenzione del quarantunenne trainiere Nicola Guarascio che accorre e riesce a disarmare Calandra e a mettersi il rasoio in tasca per scongiurare tragedie.

Sulla scena adesso riappare Angelo Gabriele e Pasquale Calandra rivolge di nuovo a lui le sue attenzioni e, non avendo più il rasoio, raccatta da terra un mezzo mattone e glielo tira contro. La mira non è delle migliori e il mezzo mattone colpisce in pieno petto il figlio di Guarascio.

Puru a figliuma mini? – urla il trainiere, afferrando Calandra per il petto, scuotendolo e facendolo ruzzolare nella cunetta della strada.

Calandra sbuffa sapendo che non può fare niente, viste le circostanze e allora, umiliato, si rialza e corre via verso casa lasciando a terra il suo cappello, mentre Guarascio sorregge il figlio e con l’aiuto di un vicino lo porta dal medico.

Tutto finito, una sciocchezza sarebbe potuta finire nel sangue.

Angelo Scalzo, 15 anni, sta tornando a casa dalla frazione Cuti, quando nel largo di San Domenico incontra Pasquale Calandra tutto eccitato e senza cappello. Incuriosito, lo prende per un braccio e gli chiede:

Dove stai andando?

Lasciami stare! – gli risponde scrollandoselo di dosso.

Scalzo resta perplesso per qualche secondo, poi lo segue per vedere dove andava. A casa e quando Pasquale entra, Angelo lo segue e, vista la sorella di Pasquale, Vincenzina, le dice:

Non lo lasciate uscire, credo che ha fatto qualche quistione

Vincenzina lo guarda come se volesse rispondere per chiedergli qualcosa, ma in questo momento Pasquale esce dalla stanza in cui era entrato con una coppola di panno in testa ed una cosa luccicante in mano, che in fretta nasconde nella manica destra della giacca e fa per uscire.

Preoccupati, Vincenzina e Angelo cercano di trattenerlo ma Pasquale li gela:

Perlamadonna lassatime ca sinnò m’ha pigliu ccu vua!

La sorella e l’amico, temendo per la propria incolumità, si spostano e Pasquale esce di casa, ma Domenico lo segue a poca distanza per capirne le intenzioni.

Arrivati nei pressi della chiesa di San Giuseppe, Calandra, sempre seguito da Angelo Scalzo, si imbatte in un gruppo di persone tra le quali c’è Nicola Guarascio.

Perlamadonna! – urla Calandra e poi, senza che nessuno abbia il tempo di capire cosa stia accadendo, mentre il pugnale che aveva nascosto nella manica della giacca scivola nel suo pugno, spicca un salto e affonda la lama nel collo di Nicola Guarascio. Ma non è finita, Pasquale ha ancora sete di sangue e si avventa contro Angelo Gabriele per colpirlo, che è lesto a parare il colpo con il pezzo di legno che aveva preso da terra poco prima per difendersi dall’assalto precedente.

A questo punto Pasquale Calandra, dopo aver dato uno sguardo a Nicola Guarascio per vedere zampillare il sangue, scappa, protetto dall’oscurità che ormai è calata.

Nicola Guarascio riesce a fare un passo con le mani strette alla gola per cercare di fermare il sangue e la vita che sente andare via, poi cade a terra morto.

Una lesione da punta e taglio sulla regione giugulo carotidea destra a bordi netti, profonda da interessare il fascio nervo vascolare di destra, nonché il bronco dello stesso lato e l’apice del polmone, che ha prodotto emorragia interna e conseguente asfissia, causa unica ed esclusiva della morte istantanea. Scannato come un maiale.

La mattina del 16 marzo Carmine Buffone, Capo Guardia Municipale di Rogliano, si presenta in caserma e consegna al Maresciallo un pugnale avente la lama lunga centimetri 14 e centimetri 2 di larghezza.

– Dove l’avete trovato? – gli chiede il Maresciallo.

– Non l’ho trovato io, me lo ha portato la donna che lo ha trovato sul viale Margherita mezzo intriso di sangue, che lavò prima di consegnarmelo.

– Come si chiama la donna?

Mi riservo di dichiarare le generalità della donna all’occorrenza… se non dovesse essere l’arma del delitto, che ve lo dico a fare il nome?

La certezza che sia il pugnale di Calandra non c’è, ma il fatto che l’omicida sia stato visto scappare verso il viale Margherita fa supporre che l’arma sia proprio quella usata per uccidere.

Pasquale Calandra si costituisce nel carcere di Cosenza il 20 marzo e, interrogato, fornisce la sua versione, ma il Giudice Istruttore, Antonio Giannuzzi, che lo interroga ancora non sa come sono andati i fatti:

Nella sera del 15 marzo, in compagnia di tre persone, mi trattenni nella cantina di Carmine Venneri giuocando a carte e bevendo vino. Io fui favorito dalla sorte e feci da padrone nella distribuzione del vino, lasciando al verde Angelo ‘U Miserune (Gabriele. Nda), il quale si adontò e quando uscimmo dalla cantina cominciò ad inveire contro di me; dopo avermi ingiuriato mi percosse con un bastone e Nicola Guarascio, amico dell’altro, vedendomi maltrattato in quel modo, anziché fare da paciere diede braccio forte allu Miserune ed entrambi mi malmenarono. Rimasi malconcio, nel tafferuglio persi anche il cappello, tanto che, piangendo, quando riuscii a svincolarmi da essi mi recai a casa per prendermi il berretto. Sono ritornato di nuovo ad uscire e lungo la strada incontrai Guarascio e lu Miserune. Entrambi, nel vedermi, mi aggredirono con i bastoni ed io, che tenevo in tasca un pugnale, lo estrassi e mi posi in atto di difesa. Guarascio venne da sé stesso, senza che io avessi spinto la mano innanzi, a ferirsi gravemente. Vedendolo ferito mi diedi alla fuga… ero abbastanza brillo per il vino bevuto e non avevo intenzione di ucciderlo.

– Il pugnale lo hai preso quando sei tornato a casa?

No, lo avevo anche nella cantina.

– Quali lesioni, contusioni hai riportato nella colluttazione con i tuoi avversari?

Non ho riportato alcuna contusione sebbene avessi ricevuto molte bastonate

Per il momento basta così, ma anche senza conoscere i fatti a Giannuzzi il racconto di Pasquale sembra non quadrare. Nei due giorni successivi arriva il fascicolo da Rogliano e adesso l’imputato deve spiegare le molte circostanze che non quadrano:

– Allora, Calandra, sei sicuro che le cose sono andate come hai verbalizzato? – fa il Giudice Giannuzzi.

I fatti da me esposti nel precedente interrogatorio rispondono a verità, né ho altro da aggiungere.

– Io dico che devi spiegare tante cose… per cominciare, è vero che scherzavi con la moglie del cantiniere, che lui ti ha rimproverato e che tu hai estratto un rasoio e lo hai minacciato? – Pasquale sbianca in viso e capisce che il Giudice sa tutto e forse qualcosa dovrà ammetterla.

È vero, purtroppo, che io mi permisi di scherzare con la moglie di Venneri e che, redarguito da costui, estrassi un rasoio e lo minacciai

– Lo vedi che la memoria ti sta tornando? Vediamo se ricordi di avere dato uno schiaffo ad Amedeo Alessio…

Non lo ricordo, però ricordo che egli cercava di allontanarmi da quel sito, anzi mi tirò per la giacchetta.

– E del pugno al petto che hai dato ad Angelo Gabriele che mi dici?

Anche con lui ebbi quistioni perché io, a suo dire, provocavo dei disordini, ma se gli abbia tirato un pugno al petto non lo rammento

– E le minacce alla sorella di Gabriele?

Non è vero che io abbia fatto minacce anche contro di lei.

– Eppure tutti i testi presenti dicono il contrario…

Non è vero!

– È vero che Nicola Guarascio ti ha trattenuto ed è vero che hai tirato un mezzo mattone contro Gabriele e invece hai colpito il figlio di Guarascio?

Lo nego, è falso!

– È vero che Nicola Guarascio ti ha disarmato?

Non è vero, almeno non ricordo. Certo, il rasoio non me lo sono trovato più addosso, ma non so se mi sia caduto per terra o ne sia stato disarmato da Guarascio o da altri. Quello che è certo è che io sono stato bastonato tanto dal Guarascio che da Gabriele, non perché avessi usato violenza contro di essi, ma perché nell’alterco che ebbe luogo tra me e il cantiniere presero le parti di quest’ultimo.

– Quindi ora è certo che il rasoio non lo avevi più, come non avevi il pugnale perché è evidente che non sei uscito da casa armato come un brigante. Ormai eri disarmato e per questo sei corso a casa a prendere il pugnale, ci sono i testimoni, tua sorella Vincenzina e Angelo Scalzo…

Non è vero! Il pugnale lo tenevo addosso anche prima, come il rasoio. Andai a casa per mettermi un copricapo, visto che avevo perso quello che avevo

– E poi hai aggredito proditoriamente Guarascio e lo hai scannato come un maiale! – termina Giannuzzi picchiando violentemente il pugno sulla scrivania.

No! Per via incontrai nuovamente Guarascio e Gabriele i quali, senza nessuna provocazione da parte mia, cominciarono a malmenarmi di nuovo ed io, che avevo paura, estrassi il pugnale e ferii Guarascio, ma non ricordo con precisione come si svolse la scena… non è vero quanto affermato da Gabriele e altri, cioè che io, ripassando davanti a loro, senza alcuna provocazione e dopo aver bestemmiato la Madonna, abbia estratto il pugnale e ferito mortalmente Guarascio!

– E quindi non sarebbe nemmeno vero che dopo aver ferito Guarascio rivolgesti l’arma contro Gabriele…

No, non è vero perché appena mi accorsi che Guarascio era caduto per terra scappai ed il pugnale mi cadde dalle mani

Troppe le incongruenze, troppi i “non ricordo” sistemati nei punti più difficili da spiegare e, soprattutto, le ammissioni fatte. Per gli inquirenti può bastare e viene chiesto il rinvio a giudizio di Pasquale Candreva davanti alla Corte d’Assise di Cosenza per rispondere di omicidio volontario, lesioni personali, tentata lesione personale, minaccia di grave ed ingiusto danno a mano armata, porto di pugnale di nottetempo ed in luogo abitato, porto di rasoio senza giustificato motivo.

La Sezione d’Accusa, il 27 maggio 1914, accoglie la richiesta della Procura e la causa viene fissata al 15 ottobre 1915.

La discussione è veloce e la Corte, concesse le attenuanti generiche, l’attenuante della provocazione e quella per l’età minore degli anni 18, condanna Pasquale Candreva ad anni 5 di reclusione, alle spese, ai danni ed alle pene accessorie. Dichiara condonati anni 1 della pena per l’amnistia del 27 maggio 1915.

Il 10 novembre 1915, non avendo l’imputato presentato i motivi del ricorso per Cassazione, la Corte d’Assise di Cosenza ordina che la sentenza abbia la sua esecuzione.[1]

[1] ASCS, Processi Penali.