Nellina Maletta, 20 anni, vive a Colosimi in casa della sorella e del cognato Raffaele Caligiuri, che la tiene come figlia, nutrendo per lei paterno affetto. Le ha comprato una macchina da cucire, le ha costituito un peculio di circa lire duemila, depositato nell’Ufficio Postale su libretto a lei intestato, e l’ha assicurata contro l’invalidità e la vecchiaia. Davvero un affetto paterno.
E Raffaele dice anche che il suo affetto verso Nellina è così grande da fargli vagheggiare il disegno di farla sposare con suo figlio Achille, tredicenne, come questo fosse diventato più grandicello.
Cosa? Uno stranissimo affetto paterno verrebbe da dire. Ma forse è solo una battuta infelice. No, purtroppo no, è la realtà dei fatti e a niente servono le educate proteste di Nellina che, spinta dalla prepotente vitalità dei suoi vent’anni, corrisponde, annuenti i suoi fratelli, all’amore dichiaratole dal ventitreenne contadino Pietro Colosimo.
Ma Raffaele lo sa? Certo che lo sa e per questo ordina alla cognata/figlia/futuradesignatanuora di non rivolgere mai più la parola allo spasimante.
È il 17 ottobre 1945 quando Achille entra nella macelleria del padre, attigua alla casa, strofinandosi una guancia e con gli occhi lucidi:
– Pà, zà Nellina m’ha minatu…
– T’ha minatu? E pecchì?
– L’ho vista parlare con Pietro Colosimo e le ho detto che glielo avevi proibito…
– Valla a chiamare subito! – Raffaele cambia colore e i suoi occhi si iniettano di sangue.
Nellina lascia il lavoro di cucito a macchina che sta facendo e va nella macelleria.
– Ti avevo detto che non devi parlare con quello e tu, per tutta risposta, hai picchiato Achille! – le urla in faccia e poi le molla uno schiaffone. Nellina sta per rispondere, ma il cognato/padre/futurodesignatosuocero non glielo permette perché le pianta un coltello nel petto.
Nellina non sente dolore, ma resta un attimo a bocca aperta per la sorpresa, poi farfuglia:
– Vado dai Carabinieri – ed esce dalla macelleria correndo con una mano premuta sul petto.
Dieci metri? Forse venti, poi Nellina stramazza a terra senza un lamento, inutilmente soccorsa da un passante, Giuseppe Colosimo, che non può far altro che constatarne la morte. Giuseppe Colosimo corre alla macelleria per dare la terribile notizia e Raffaele sembra un pazzo: afferra il coltello col quale ha colpito Nellina e fa il gesto di volersi scannare, ma viene prontamente fermato dai clienti presenti nella bottega.
Avvisati, i Carabinieri si precipitano sul posto e arrestano Raffaele, che ricostruisce i tragici momenti:
– L’ho sgridata e colpita con uno schiaffo, adirato dal riferimento del mio figlioletto Achille di essere stato sgridato e percosso dalla zia Nella…
– E il colpo di coltello?
– Mentre la sgridavo e la colpivo con lo schiaffo, Nellina stava tagliando del pane duro con un coltello da macellaio e… probabilmente in un movimento inconsulto si ferì da sé, cagionandosi la lesione che le produsse la morte… io non mi accorsi di nulla e quando poco dopo appresi che Nellina era morta, fui preso da tanta disperazione da volermi uccidere e l’avrei fatto se non ne fossi stato impedito dagli amici Giuseppe Colosimo, Francesco Statti e dal dottor Colosimo…
Un movimento inconsulto. Può una persona che sta tagliando del pane con un coltello da macellaio, mediante un movimento inconsulto della mano, conficcarselo nel petto dall’avanti al dietro, dall’alto in basso e, attraversando i tessuti molli, la cartilagine della 4^ costa, il lobo medio del polmone, quindi trapassare l’atrio destro del cuore? No, non può. Non può essere andata così, affermano i periti: un moto inconsulto della vittima, che avrebbe fatto deviare il coltello col quale tagliava il pane dal pane al suo cuore, sia per la direzione, sia per la profonda penetrazione in cavità, non può avere determinato quel percorso. Il percorso riscontrato indica inequivocabilmente che il colpo fu inferto da altri con forza non esagerata ma neppure tanto lieve, avendo l’arma attraversato la cartilagine della 4^ costa, abbastanza dura.
Raffaele Caligiuri viene arrestato con l’accusa di omicidio volontario e, con citazione diretta del 31 dicembre 1945, rinviato al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza.
La causa si discute il 26 febbraio 1946 e la Corte, letti gli atti ed ascoltati i testimoni e le parti, osserva che si è convinta che la morte della giovanetta Maletta non fu dovuta né a fatto accidentale, né a fatto colposo, ma fu la conseguenza non voluta del fatto volontario dell’imputato che, volontariamente, la colpì con uno strumento del proprio lavoro, colpo che fu causa della morte della ventenne vittima.
È già una buona notizia per l’imputato, perché le parole della Corte derubricano il reato da omicidio volontario a omicidio preterintenzionale.
Poi la Corte, per smentire ulteriormente Raffaele sul fatto che si trattò di un fatto accidentale, tanto da non essersene nemmeno accorto, continua: risulta dalla prova specifica che la povera vittima, come fu colpita, scappò di casa diretta dal Maresciallo dei Carabinieri, ma non poté raggiungere la caserma perché venne a mancare e, soccorsa da Giuseppe Colosimo, non potette pronunziare alcuna parola perché era già moribonda. Se fosse stata vittima di un accidente e magari di un fatto colposo imputabile al cognato, al quale anch’ella era legata da affetto, certo non si sarebbe avviata verso il Maresciallo. Se ciò ha fatto è perché aveva del giusto risentimento verso il cognato, che l’aveva colpita con un coltellaccio.
Ma ora, la Corte come giustifica la derubricazione del reato? Per farlo comincia parlando della richiesta della difesa, tesa ad ottenere un’ulteriore derubricazione ad omicidio colposo, visto che la linea difensiva del proprio assistito non può reggere: i difensori dell’imputato hanno chiesto che il Caligiuri venisse ritenuto colpevole di omicidio colposo e condannato al minimo della pena. Ma tale richiesta non può essere accolta, essendo che il ferimento fu volontario, dal quale conseguì l’evento morte non voluto. Quindi, secondo la Corte, non ci fu volontà omicida, ma solo quella di procurare una lesione personale. Lesione che, è bene ricordare citando la perizia autoptica, fu procurata con forza non esagerata ma neppure tanto lieve, avendo l’arma attraversato la cartilagine della 4^ costa, abbastanza dura. Evidentemente Raffaele Caligiuri non ha fatto bene i conti con la propria forza.
Siccome Raffaele ha provveduto a risarcire la parti civili prima del dibattimento, ha diritto alla relativa attenuante. Poi, continua la Corte, il suo comportamento immediatamente dopo il fatto ed il rimorso che l’ha travagliato fino ad indurlo a porre fine ai suoi giorni, e tuttavia lo travaglia, consigliano un’attenuazione della pena.
Pena equa, stima la Corte, detratte le attenuanti, è quella di anni 4, mesi 5 e giorni 10 di reclusione, oltre alle spese e alle pene accessorie.[1]
[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.