È la notte del 27 marzo 1946 e i cani di Roberto Labonia abbaiano furiosamente verso l’agrumeto adiacente all’abitazione in contrada Momena di Rossano. Labonia si sveglia e, convinto trattarsi dei ladruncoli che già in precedenza hanno compiuto piccoli furti di arance, si alza deciso di andare a sorprenderli per rimproverarli ed esce senza premunirsi di alcun mezzo di difesa. Percorso il breve tratto della vicina strada provinciale che costeggia la sua proprietà, sente la voce di un uomo che, ripetutamente e con tono sommesso, dice:
– Ciccio… Ciccio…
Poi Labonia si inoltra nel campo dove si trova la piantagione, costeggiandone il reticolato che lo recinge, in parte ricoperta da siepe, per giungere fino ad un punto, che per avere formato il passaggio abituale ai ladruncoli, si presenta più basso.
Arrivato, nota, attraverso l’oscurità, che uno sconosciuto sta scavalcando la rete e gli si lancia addosso afferrandolo per il collo della giacca, ma proprio in questo istante Labonia si accorge che un’altra persona si sta avvicinando, provenendo dall’interno dell’aranceto. No, forse non è una sola persona, ma due, forse anche tre, e Labonia, cominciando a temere per la propria incolumità, lascia andare il ladruncolo che aveva acciuffato.
– Che fai qua? – gli dice uno dei due ladruncoli sopraggiunti, seminascosto dietro un ulivo.
– E tu che fai qua? Vattene! – gli risponde, ma quello, improvvisamente ed inaspettatamente gli spara una revolverata, ferendolo alla mano sinistra, e poi un altro colpo che fortunatamente gli buca la giacca senza colpirlo, mentre gli altri due osservano la scena e poi tutti e tre scappano. Labonia, avvolto un fazzoletto attorno alla mano sanguinante, corre a casa per armarsi e inseguire i delinquenti, ma prima di arrivare si imbatte in Gennaro Romano, affittuario dell’aranceto, che lo convince a non rischiare oltre la vita per poche arance, ma piuttosto di denunciare l’accaduto ai Carabinieri, che si dovranno per forza occupare del caso, visto che potrebbe trattarsi di tentato omicidio a scopo di rapina, un reato gravissimo.
La denuncia, però, può essere fatta solo contro ignoti, dal momento che Labonia non ha riconosciuto nessuno dei ladri/aggressori e le indagini, per il momento, non portano a niente altro che al sequestro di un sacco, una bisaccia contenenti poche arance ed un berretto, rinvenuti nella piantagione.
Focalizzando l’attenzione sulla bisaccia, i Carabinieri notano che è formata da un tessuto lavorato in famiglia e questa particolarità può essere una buona traccia da seguire per arrivare ad identificare i malviventi. Mostrata a qualcuno che bazzica nell’ambiente giusto, i Carabinieri ottengono il nome di una persona che potrebbe sapere a chi appartiene la bisaccia: Ottavio Paludi, che viene convocato in caserma, messo prima sotto torchio e quando il Maresciallo capisce che è cotto, gli mostra di nuovo la bisaccia e lo incalza.
– Allora, sicuro che non l’hai mai vista?
Paludi la osserva, la rigira tra le mani, la apre e dice:
– Appartiene al marito di mia cognata…
– Come si chiama?
– Natale Scalise…
Natale Scalise viene fermato e dopo un estenuante interrogatorio, confessa:
– Al furto, oltre a me, hanno partecipato anche Giovanni Malieni, Pietro Curia, Luigi Magliarella e Francesco Pansa…
Mentre i Carabinieri indagano per arrestare tutti e quattro i chiamati in correità, Roberto Labonia viene sottoposto a perizia per accertare le conseguenze della ferita riportata ed emerge che la pallottola che ha colpito la sua mano sinistra gliel’ha trapassata da parte a parte fratturando la testa del quarto metacarpo e lasciandogli come ricordo l’indebolimento permanente dell’arto.
Giovanni Malieni e Luigi Magliarella vengono rintracciati subito, Pietro Curia dopo un paio di settimane, ma di Francesco Pansa si sono perse le tracce. Le dichiarazioni che, di volta in volta, gli arrestati rilasciano, coincidono tra loro:
Il 27 marzo tutti e cinque decisero di compiere un furto di agrumi e Scalise si munì di una bisaccia, mentre il sacco fu fornito da un altro di loro. Giunti nella località Cappuccini, punto di riunione, stabilirono di recarsi nell’agrumeto di contrada Momena, distante circa otto chilometri. Entrati nel giardino scavalcando la siepe ed il reticolato, si misero a raccogliere aranci. Pochi minuti dopo notarono che una persona era uscita dal cortile della casa padronale dei Labonia e si dirigeva verso l’agrumeto e ciò senz’altro indusse Scalise, Malieni e Magliarella alla fuga, ma Curia fu afferrato da Labonia e dopo accadde quel che già sappiamo. Quindi la responsabilità materiale del tentato omicidio viene addossata sulle spalle di Pietro Curia e Francesco Pansa. Almeno queste sembrano le intenzioni degli imputati. Vedremo.
Il 17 maggio 1947, su richiesta della Procura, la Sezione Istruttoria rinvia al giudizio della Corte d’Assise di Rossano Pietro Curia e Francesco Pansa per rispondere di rapina aggravata e tentato omicidio e, per connessione, Natale Scalise, Giovanni Malieni e Luigi Magliarella di furto aggravato. Quindi le cose sarebbero andate davvero come hanno raccontato i tre.
La causa si discute il 27 gennaio 1948 e l’imputato Malieni modifica le sue precedenti dichiarazioni, sostenendo adesso:
– Fu un semplice caso fortuito che Pansa e Curia si trovassero sul luogo del furto quella notte, trovammo i due lì senza previa intesa e agirono per proprio conto.
La Corte, letti gli atti ed ascoltati i testimoni e le parti, osserva: in confronto di detti tre giudicabili è stato ritenuto che nessun nesso di causalità potesse essere riconosciuto esistente fra la loro azione e quella, staccata nello spazio e nel tempo, posta in essere da Curia e da Pansa. Comunque, gli stessi hanno dato chiara dimostrazione, con la rapida fuga cui si determinarono non appena avvertirono l’avvicinarsi di persona estranea, di non volere commettere alcuna violenza contro siffatta persona. La responsabilità dei menzionati prevenuti Scalise, Malieni e Magliarella va pertanto limitata alla semplice azione dell’impossessamento di aranci di proprietà di Roberto Labonia e nel fatto ricorrono le aggravanti del mezzo fraudolento (per entrare nel recinto superarono l’ostacolo costituito dalla siepe e da filo spinoso risultato di sufficiente altezza, circa un metro); del numero di persone, cinque; dell’ostacolata difesa privata per l’avanzata ora notturna in relazione all’ubicazione dell’agrumeto intorno al campo.
Poi passa ad esaminare la situazione processuale di Pansa e Curia: rileva la Corte che non può minimamente dubitarsi che i detti Curia e Pansa, unitamente agli altri tre imputati si ebbero, la notte del 27 marzo 1946 ad introdurre nell’agrumeto di Roberto Labonia in località Momena di Rossano, iniziando la raccolta di aranci, che ponevano man mano in una bisaccia ed un sacco. Senonché, questa raccolta fu interrotta per la presenza sul luogo del proprietario Labonia, il quale giunse sino ad afferrare uno dei ladri e precisamente Curia. A questo punto il Pansa, che era stato tempestivamente avvertito da Curia, che per primo aveva notato l’approssimarsi di una persona, si affrettava a venire sul luogo ove Curia trovavasi e non poté fare a meno di notare che il suo compagno era stato acciuffato dalla persona che aveva destato l’apprensione di Curia, in quanto delle frasi concitate erano state scambiate fra Labonia e Curia. Brevissima era ormai la distanza fra i tre, per modo che il proprietario, impressionato dal sopraggiungere dall’interno del giardino di altra persona o altre persone in quanto la parte offesa ha insistito nel dichiarare che due furono le persone che in quell’istante gli si facevano incontro, si affrettò a lasciare libero Curia. Non può essere dubbio, pertanto, che l’intervento attivo di Pansa non poté avere di mira se non di procurare a sé ed a Curia l’impunità, data la sopravvenienza di persona che dimostravasi decisa ad impedire il compimento del delitto di furto afferrando e trattenendo uno degli autori. Quindi è che il fatto violento compiuto da Pansa con lo sparare due colpi di rivoltella contro Labonia costituisce ed integra in ogni suo estremo giuridico il delitto di rapina con l’aggravante dell’arma. Labonia venne attinto da un colpo alla mano sinistra e da un altro al lembo della giacca che indossava. In relazione a questi due colpi, l’imputazione addebitata a Pansa è quella di tentato omicidio, ma la Corte è portata a ritenere che, allorché Pansa esplose i due colpi verso la persona di Labonia, non fosse mosso dal preciso intendimento di volerlo sopprimere, ma soltanto di ferirlo per porlo nella condizione di non potere ulteriormente compiere nessun atto di forza verso esso Pansa o verso Curia, come aveva dimostrato di volere fare, e per indurlo ad allontanarsi dall’agrumeto, onde permettere la fuga agli autori del delitto. Deve pertanto essere affermata la penale responsabilità del Pansa, con degradazione di rubrica, in ordine al minore delitto di lesione grave commessa con arma. Poi passa ad esaminare la posizione di Curia: è stata addebitata al medesimo corresponsabilità penale nei reati di rapina e tentato omicidio, da degradarsi, come per Pansa, in lesioni gravi. E la corte osserva che anche senza immaginare che Curia e Pansa si fossero messi d’accordo prima — cosa poco logica, perché Curia avrebbe dovuto sapere in anticipo che Pansa portava con sé una pistola da usare in caso di bisogno durante il furto — bisogna comunque capire un punto importante: nel loro caso c’è un legame di causa puramente “materiale” e non psicologica? In altre parole, bisogna chiedersi se tra il reato più grave commesso da Pansa, ma non voluto da Curia, esista comunque un collegamento con il comportamento di Curia. Se cioè quell’evento più serio, anche se non previsto, sia semplicemente lo sviluppo naturale e progressivo dell’azione iniziale. Ed in questo senso non può, nella specie, essere negata la responsabilità concorrente a carico del Curia tanto più in quanto costui, dopo essere stato liberato da Labonia, a ciò indotto dal sopraggiungere di altre persone in evidente atteggiamento di aiuto a favore del detto Curia, non si dette alla fuga, ma si fermò a brevissima distanza da Labonia, dimostrando di essere in attesa degli ulteriori avvenimenti che indi a poco ebbero a manifestarsi. Quindi la corresponsabilità penale di Curia per i reati di rapina e lesioni gravi, per la Corte è pienamente accertata.
A questo punto non resta che quantificare le pene da irrogare ai cinque imputati e la Corte parte dai tre imputati di furto aggravato: pena adeguata per Natale Scalise, Giovanni Malieni e Luigi Magliarella stimasi quella di anni 3, da diminuirsi per tutti di un terzo per la speciale tenuità del danno patrimoniale cagionato ed ulteriormente diminuita per il solo Magliarella, minorenne di anni sedici, di mesi 8. Nei confronti di Scalise stimasi aumentare la pena di mesi 8 per la recidiva in cui lo stesso versa. Pene tutte interamente condonate. Per quanto riguarda Pietro Curia, la Corte ritiene di poter concedergli, per quanto riguarda il reato di lesioni gravi, l’attenuante dell’evento più grave di quello previsto e, relativamente al reato di rapina, l’attenuante del valore lieve. La condanna, scomputate le attenuanti, ammonta complessivamente ad anni 6 e mesi 10 di reclusione, oltre alle spese, ai danni ed alle pene accessorie. Resta Francesco Pansa: anni 7 e mesi 6 di reclusione, oltre alle spese, ai danni ed alle pene accessorie.
Il 24 marzo 1950 la Corte d’Appello di Catanzaro, applicando il D.P. 23 dicembre 1949, dichiara condonati anni 3 della pena inflitta a Francesco Pansa.
Il 19 novembre 1950 la Suprema corte di Cassazione dichiara inammissibili i ricorsi proposti da Natale Scalise, Giovanni Malieni e Luigi Magliarella per irrituale proposizione del gravame e quello di Francesco Pansa per rinuncia.
Il 18 marzo 1963 la Corte d’Appello di Bologna riabilita Francesco Pansa dalle conseguenze giuridiche della condanna.[1]
[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Rossano.