Antonio Larosa, contadino da Mammola in provincia di Reggio Calabria, appena tre mesi dopo il suo matrimonio con Maria Rosa Papandrea emigra in America e resta lontano da casa per qualche anno, poi torna e riparte quasi subito, ma deve rientrare quando scoppia la Prima Guerra Mondiale perché richiamato alle armi. Finita la guerra fa altri quattro viaggi nel nuovo continente sicché, a causa delle frequenti emigrazioni e del servizio militare, poco tempo ha potuto coabitare con la moglie, non mancando mai, però, di mandarle somme di denaro, frutto del suo lavoro e dei suoi risparmi.
Maria Rosa, da parte sua, in tutti questi anni serba intatta la fede coniugale e mette al mondo due figli maschi, ma durante l’ultimo viaggio del marito cede alle proposte d’amore di Antonio Vinci e si abbandona all’adultera tresca. I parenti del marito, venutine a conoscenza, gli scrivono per informarlo del tradimento e lui, nel 1932, rientra subito in paese.
Acquistata piena sicurezza dell’adulterio della moglie, denuncia lei e l’amante e a quelli che lo rimproverano per non averla ammazzata, come la tutela dell’onore suo e della famiglia richiede, risponde pacatamente:
– Al fine di conservare la mia libertà preferisco ottenere dalla giustizia la riparazione che, altrimenti, avrei dovuto farmi con le mie stesse mani! – perfetto, non fa una piega, ammazzare per questi motivi è da selvaggi e non per lui che ha vissuto nella nazione più civile e avanzata del mondo. In fondo spera che la moglie capisca la lezione e ritorni ad essere quella di sempre, amorevole e remissiva.
Dopo la denuncia Maria Rosa e l’amante vengono condannati, ma non per questo desistono dalla tresca e Antonio, constatata l’ostinazione della donna, decide di abbandonarla definitivamente e si mette in casa un’altra donna.
Tutto risolto? No, ci sono di mezzo i due figli, di quindici anni il maggiore, di otto anni il minore che vivono con la madre e questo ad Antonio non va proprio giù, non può permettere che i figli convivano in casa con un uomo che non è il loro padre, devono assolutamente andarsene ad abitare con lui e con la donna che si è preso. Per raggiungere il suo scopo Antonio va a parlare col Maresciallo dei Carabinieri e attraverso il suo solerte interessamento Maria Rosa cede ed i figli lasciano la casa della madre in contrada Zimbi e si trasferiscono a casa del padre. A questo punto tutte le cause di ulteriori incomprensioni e possibili litigi dovrebbero essere state rimosse, ma c’è sempre qualcosa che si mette di traverso perché, mentre il figlio adolescente accetta di buon grado la nuova sistemazione, il bambino si allontana frequentemente dalla casa del padre e va dalla mamma, della quale sente il bisogno degli abbracci e delle cure, restandoci ogni volta per due o tre giorni, cosa che fa andare su tutte le furie Antonio e i dissapori con Maria Rosa si riaccendono, tanto più che Antonio, con atto pubblico del 18 marzo 1933 per notar Agostino da Gioiosa Ionica, ha simulatamente venduto alcuni fonducoli, che costituiscono l’intero suo patrimonio, alla donna che vive con lui, così da far perdere ai figli ed alla moglie legittima ogni speranza di ereditare.
Per tutto questo Maria Rosa manifesta in ogni occasione l’acredine del suo animo e quando parla del marito, o quando parla direttamente con lui, lo chiama “cornuto”.
È l’alba del 4 ottobre 1933 quando Antonio si alza, indossa l’abito nuovo e dice alla donna che vive con lui:
– Vado a far legna alla montagna…
– Con l’abito nuovo?
– Sono fatti miei – tronca subito, poi prende la scure ed esce.
Antonio non va a far legna, ma va a casa di Maria Rosa, picchia violentemente alla porta e urla:
– Apri perlamadonna se no butto giù la porta!
Maria Rosa si sveglia di soprassalto, si alza e apre. Antonio, con mossa fulminea, le è addosso e la tempesta, con tutta la forza e la violenza repressa che ha, di colpi con la scure, facendola stramazzare a terra, immersa in un lago di sangue, poi sputa a terra e se ne va, mentre Maria Rosa muore dopo una breve agonia.
5 lesioni dovute a taglio di scure, di cui la prima, lunga circa centimetri 20 e profonda fino al midollo spinale, in corrispondenza della seconda con la terza vertebra occipitale; la seconda, lunga circa centimetri 15, poco al di sotto ed in senso parallelo alla prima; la terza all’altezza dell’osso ioide, con interessamento del canale tracheale; la quarta all’altezza del giugulo (La regione antero-inferiore del collo. Nda), con interessamento dei soli tessuti superficiali; la quinta, anch’essa superficiale, sulla mano destra. Orrore! Un evidente tentativo di decapitazione.
Antonio si costituisce e viene interrogato:
– Ho agito in stato d’ira a causa dell’adulterio di mia moglie, delle ingiurie che mi rivolgeva e dell’accoglienza che faceva al nostro figlio minore quando andava a trovarla…
Per la Procura non si può trattare di omicidio per causa d’onore ed il 30 gennaio 1934 viene rinviato al giudizio della Corte d’Assise di Locri per rispondere di uxoricidio.
La causa si discute il 18 giugno 1934 e la difesa, adducendo che un giorno il giudicabile, durante il servizio militare prestato nella guerra europea, essendo addetto al rastrellamento dei proiettili, fu scaraventato lontano dal punto ove lavorava dallo scoppio di una granata e riportò shock nervoso, in conseguenza del quale dové essere ricoverato in un manicomio, ove rimase settanta giorni, chiede di sottoporre Antonio Larosa a perizia psichiatrica.
La Corte, letti gli atti ed ascoltati i testimoni e le parti, per prima cosa rigetta la richiesta motivando che nessuna prova è stata fornita dall’imputato di tali circostanze, rivelate oggi per la prima volta, mentre dalle concordi deposizioni di numerosi testimoni è risultato che egli, anteriormente al reato, aveva serbato condotta normale mostrandosi persona seria, non già squilibrato, come si è sempre mostrato durante la custodia preventiva da lui subita. Il fatto decisivo, però, è che egli, congedato dal servizio militare, emigrò per ben quattro volte in America, dove rimase due o tre anni per ciascuna volta e non diede mai luogo al benché minimo rilievo circa la regolarità della sua condotta.
Ora che si può entrare nel merito, la Corte osserva: dall’insieme delle prove assunte è emerso che Larosa volle uccidere la moglie, ciò che è reso manifesto specialmente dalla causale del fatto, dall’essersi recato a casa della moglie, dall’avere picchiato fortemente alla porta minacciando di sfondarla e dall’avere poi aggredito la moglie, inferendole con la scure adoperata con estrema violenza, diverse gravi lesioni sul collo e sulla nuca. Non si può però negare a lui l’attenuante dello stato d’ira, essendo accertato che agì in stato di eccitazione a causa dell’adulterio e dalle ingiurie che la moglie gli rivolgeva. Adulterio e ingiurie erano fatti assolutamente ingiusti, mentre nello stesso modo non poteva definirsi il contegno della Papandrea verso il figlio minore, non potendosi pretendere ch’ella lo respingesse quando il bambino, sentendo ancora il bisogno delle carezze materne, andava a coabitare con lei per qualche giorno.
La difesa, a questo punto, chiede la concessione dell’attenuante dei motivi di particolare valore morale e sociale, ma la Corte respinge la richiesta perché Larosa non può addurre di avere agito per motivi morali, quando egli si era adattato alla nuova condizione creatagli dalla moglie, prendendo in casa una donna di piacere e mantenendola in luogo di moglie, con che aveva inoltre demoralizzato i figli, i quali notavano che egli coabitava con una donna che non era la madre. L’irregolare condotta dell’imputato esclude ch’egli, nell’uccidere la moglie, fosse animato da motivi di particolare valore morale.
Poi continua: per adombrare un risarcimento di danni, si è fatto dichiarare al figlio maggiore che il padre, prima di costituirsi ai Carabinieri, gli consegnò la somma di lire 6.000, che il giovinetto avrebbe poi speso pel mantenimento suo e del fratellino ma, a parte che tale dichiarazione ha tutti i caratteri di una pietosa invenzione, se l’imputato aveva dato le lire 6.000 (che egli non possedeva) l’avrebbe fatto per provvedere al mantenimento dei figli, mentre se avesse voluto risarcire costoro del danno loro arrecato, avrebbe dovuto trattare col curatore speciale ad essi nominato dall’Autorità Giudiziaria. La prova del risarcimento è sembrata evanescente allo stesso difensore, che non ha creduto di chiedere che all’imputato si concedesse la relativa attenuante.
È tutto, si può passare a quantificare la pena: nel determinare la pena da infliggere a Larosa deve aversi riguardo ai precedenti penali di lui, che sono buoni, alla speciale natura del fatto, allo stato di mente in cui egli trovavasi allorché commise l’omicidio, al grado di pericolosità non elevato. Tenuto conto di ciò e dell’attenuante concessa, stimasi giusto infliggere la pena di anni 16 di reclusione, oltre alle spese.
Il 25 ottobre 1965 la Corte d’Appello di Catanzaro dichiara Larosa Antonio riabilitato dalla condanna riportata.[1]
[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Locri.