
Nel corso del 1944 Antonio Maringolo da Longobucco parecchie volte ha subito danni e qualche furtarello nel suo orto sito in contrada Ciccarello a causa del pascolo abusivo di capre. Secondo Maringolo non ci sono dubbi che il responsabile sia il sedicenne Cataldo Murrone che, affrontato e rimproverato dal danneggiato per evitare altri danni e per farsi rimborsare quelli patiti, ha sempre negato ogni responsabilità e i danni nell’orto continuano a verificarsi.
Stanco di questo stato di cose, il 10 settembre 1944 verso le dieci di mattina, Antonio Maringolo va nell’orto di contrada Ciccarello col proposito di sorprendere sul fatto Cataldo Murrone e si nasconde in attesa.
Ed ecco che verso le due di pomeriggio, guardandosi intorno con circospezione per assicurarsi di non essere visto, Cataldo fa entrare nell’orto una cinquantina di capretti che cominciano a brucare tutto ciò che capita, mentre lui stacca qualche fico da un albero e tranquillamente se lo mangia.
– Oh! Oh! – urla Antonio uscendo dal nascondiglio e avvicinandosi al pastore – finalmente ci sei incappato! Adesso ti faccio pagare questo e il resto! – Cataldo è sorpreso e non reagisce, così il proprietario dell’orto si impossessa della sua giacca, che tiene sotto un braccio e del tascapane, appeso ad una spalla – Questi sono la prova che sei stato qui con gli animali, adesso vattene subito se no succede brutto!
– Sì, sì, me ne vado ma non finisce qui, ricordatelo! – poi Cataldo raccoglie gli animali con un fischio e si allontana. Antonio sorride soddisfatto con le prove in mano e poi, visti allontanare pastore e animali, comincia a raccogliere qualche fico e un po’ di verdura da portare a casa.
Non visto dai due contendenti, il diciannovenne Domenico Cicero, a circa duecento metri da loro sta facendo pascolare i suoi animali e ha assistito alla scena. Poi, sempre non notato, si allontana per i fatti suoi.
Ormai sono le tre di pomeriggio e Antonio, sorpreso sul fatto il pastore e riempito il paniere, si incammina verso casa tenendo sotto il braccio la giacca ed il tascapane di Cataldo. Dopo circa mezz’ora di cammino, mentre attraversa un fitto querceto viene proditoriamente aggredito alle spalle con un colpo di scure alla testa. Prima di cadere, Antonio ha il tempo di girarsi e riconoscere Cataldo Murrone, che ha accanto un altro uomo, ma non fa in tempo a guardarlo bene perché gli arriva un altro colpo di scure sulla testa e ormai è in loro balìa: Murrone lo colpisce e l’altro lo tiene.
Antonio, nonostante i tremendi colpi che si abbattono sulla sua testa, è cosciente, si agita per liberarsi ed è perfettamente consapevole che basteranno pochi altri colpi, forse anche uno solo, e lui morirà. Allora perché non tentare? Emette un rantolo, trattiene il respiro e fa afflosciare tutti i suoi muscoli, così da sembrare morto.
Cataldo si ferma ansimando e l’altro molla la presa.
– L’abbiamo fatto, ce ne possiamo andare! – dice Cataldo all’altro mentre raccoglie la sua giacca ed il tascapane, poi si allontanano abbandonando il supposto cadavere al suo triste destino.
Dopo circa un’ora il povero Maringolo, raccolte tutte le sue estreme forze, riesce a rialzarsi e ad avviarsi verso il pagliaio dei Cicero, che sa distante un buon chilometro di cammino a piedi e circa 400 metri in linea d’aria. Per sua fortuna incontra Domenico Cicero che, avendolo scorto in lontananza camminare barcollando, cadendo e rialzandosi a stento, gli corre incontro.
Lo spettacolo che si trova davanti il giovane è raccapricciante: il viso di Antonio e la testa in generale sono una maschera di sangue e di brandelli di carne che penzolano informi e dai quali il sangue gocciola sinistramente. Sorretto da Domenico, Antonio raggiunge il pagliaio, dove viene amorevolmente e sapientemente curato dallo stesso Domenico e dal padre Paolo, che provvedono anche ad avvertire tempestivamente i familiari di Antonio ed i Carabinieri.
La mattina dopo di buon’ora arriva al pagliaio il dottor Giuseppe Citino, che visita il ferito e gli riscontra cinque ferite da taglio in corrispondenza della regione parieto – occipitale, tutte confluenti fra di loro, interessanti il cuoio capelluto fino al tavolato osseo, scoperto in molti punti, determinando un vasto spacco di forma irregolare; due ferite da taglio in corrispondenza della regione parietale destra a forma di L; una ferita da taglio alla regione frontale sinistra; una ferita da taglio alla regione occipitale; una ferita da taglio alle prime falangi dell’indice e del medio della mano sinistra ed escoriazioni al dorso della stessa mano.
– È un miracolo che non ci siate rimasto – gli dice il medico mentre comincia pazientemente a ricucirlo.
– Non mi ci hanno voluto… – sogghigna mentre storce il muso per il dolore causatogli dal grosso ago che gli entra nelle carni. Guarirà in un paio di mesi.
In questo frattempo arriva il Pretore accompagnato dai Carabinieri e Antonio racconta loro come sono andati i fatti e, a proposito del secondo, sconosciuto aggressore, aggiunge:
– Sospetto che lo sconosciuto possa essere il pastore Giuseppe Federico e ciò per la sola circostanza che è alle dipendenze di Natale Murrone, il padre di Cataldo.
L’accusa ipotizzata nei confronti di Cataldo Murrone è gravissima: avere, al fine di assicurarsi l’impunità per il delitto di pascolo abusivo commesso poche ore prima ed in precedenza in danno di Maringolo Antonio, tentato di uccidere, mediante reiterati colpi di scure al capo, esso Maringolo. La posizione di Giuseppe Federico è più leggera: concorso in tentato omicidio.
C’è un problema: i due giovanotti sono spariti dalla circolazione e riescono a restare latitanti fino al 3 maggio 1947, cioè due anni e otto mesi!
– Io non ne so niente, non sono stato io! – protesta Cataldo quando lo interrogano.
– E allora perché sei scappato e ti sei presentato dopo quasi tre anni?
– Perché avevo saputo che ero stato incolpato e non volevo fare la galera da innocente!
La stessa cosa dice Giuseppe Federico.
Poi, quando Cataldo capisce che le cose si fanno molto pericolose per lui, cambia versione e ammette solo il diverbio avuto con Maringolo:
– Spossessato arbitrariamente da Maringolo, nel mio orto, della giacca e del tascapane e poi schiaffeggiato, reagii vibrando un colpo di bastone alla testa del mio aggressore, che cadde per terra.
Comunque, i due, con sentenza della Sezione Istruttoria della Corte d’Appello di Catanzaro, il 28 febbraio 1948, vengono rinviati al giudizio della Corte d’Assise di Catanzaro.
La causa si discute il 4 agosto 1948 e la Corte, letti gli atti ed ascoltati i testimoni e le parti, osserva: la colpevolezza di Murrone nel delitto ascrittogli emerge, sicura e precisa, dagli atti processuali. Murrone, questo precoce delinquente sedicenne, la cui capacità di intendere e di volere – la capacità, cioè, di comprendere l’importanza morale e giuridica dei fatti umani e di determinarsi liberamente alla stregua di essi – rifulge di vivida, per quanto sinistra, luce attraverso il suo comportamento nella preordinazione, nell’esecuzione avveduta e nell’esaurimento del delitto e nella furbesca condotta che ha tenuto nell’istruzione e continua a mantenere nel dibattimento. Murrone prima nega tutto, poi prospetta una legittima difesa o, quanto meno, una provocazione, ma questa sua tardiva e furbesca escogitazione è smentita in pieno dalla deposizione del teste Domenico Cicero, che assistette alla scena non visto, dalle risultanze processuali, dalla località in cui cadde il povero Maringolo e dove fu amorevolmente soccorso da Domenico Cicero; dal teste a discarico dell’imputato Federico, Celestino Luigi, il quale narra che, trovandosi nella stessa camerata delle carceri dove fu rinchiuso Murrone ed avendogli, come suole accadere, domandato, insieme con altri detenuti, il perché della sua detenzione, ne ebbe questa risposta: “ho cagionato lesioni con la scure ad un tale”. Soggiunse Celestino che quando Murrone cagionò le lesioni con la scure, Federico si trovava alla custodia delle capre in altra località; dal riconoscimento sicuro e dal più sicuro immediato conquesto da parte del Meringolo; dalla latitanza di Murrone immediatamente dopo il delitto e per anni ancora durante l’istruzione; dalla sparizione, di dosso al sospettato cadavere di Meringolo, del tascapane e della giacca di Murrone; dalla riparazione del danno eseguita dal padre di Murrone, la quale circostanza, benché inadeguata e non eseguita dall’imputato come indice del suo operoso ravvedimento, la Corte tuttavia valuta in favore dell’imputato in considerazione soltanto della minore età di lui.
La Corte conferma che debba essere mantenuto il titolo del reato, ossia tentato omicidio volontario, aggravato dai futili motivi, perché la spinta omicida fu un motivo futile, spinta che si manifesta precisa, sicura e spietata nella reiterazione e nella violenza dei colpi di scure sul capo della vittima designata (8 colpi). Il fine, assicurarsi l’impunità per il precedente delitto di pascolo abusivo, emerge altrettanto sicuro e preciso, a parte il resto già rilevato, dalla circostanza della sottrazione, dal supposto cadavere, del tascapane e della giacca di Murrone, prove della di lui colpevolezza nel precedente delitto di pascolo abusivo.
Accertata la responsabilità di Cataldo Murrone, non resta che determinare la pena: la Corte, in considerazione dell’età dell’imputato, parte dal minimo prescritto dalla legge, anni 12. Questa diminuisce di un terzo per l’età e di un terzo ancora per la riparazione del danno, quindi è fissata in anni 5 e mesi 4 di reclusione, oltre alle spese e alle pene accessorie.
Ora c’è da esaminare la posizione di Giuseppe Federico e la Corte osserva: a suo carico non è nulla di concreto se non la sua latitanza. Ma questa, da sola, non può costituire prova sicura di colpevolezza, potendo ben essere determinata dal proposito di evitarsi una carcerazione preventiva prima che luce fosse fatta. I sospetti manifestati dal ferito Meringolo, per quanto fondati su di una circostanza apprezzabile, restano sempre sospetti e sono resi sempre più evanescenti dallo stesso Meringolo ed in qualche modo da due testimoni. Indubbiamente la feroce aggressione fu commessa da Murrone e da una seconda persona, ma non si hanno elementi certi e tranquillanti che questa seconda persona sia stata Federico e non, piuttosto, altri più vicini al Murrone. S’impone, pertanto, l’assoluzione di Giuseppe Federico per insufficienza di prove.
La Corte d’Appello di Catanzaro, applicando il D.P. 23 dicembre 1949, dichiara condonati anni 3 della pena inflitta a Cataldo Murrone.[1]
Restano solo anni 2 e mesi 4.
[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte di Assise di Rossano.