IL PICCOLO COMMERCIANTE

La mattina del 26 giugno 1947 il piccolo commerciante Pietro Roma si presenta nella caserma dei Carabinieri di Rossano per denunciare, con gli occhi lucidi, il furto subito durante la notte appena trascorsa:

Sono entrati nel mio negozio in via Roma attraverso un foro praticato nel pavimento soprastante ad una stalla, di cui hanno forzato la porta

– Cosa hanno rubato? – gli chiede il Maresciallo Napoli, comandante la stazione.

Tessuti, biancheria, indumenti, filati e altro… quasi tutto il mio patrimonio!

Recatisi sul posto, il Maresciallo ed i suoi uomini procedono ai rilievi di rito e poi si dedicano alla ricerca dei responsabili, perché per portare via tutta quella roba ci sono volute due o più persone. Nell’immediatezza vengono fermati due noti pregiudicati della cittadina, ma devono essere rimessi subito in libertà per mancanza di indizi concreti. Le ricerche vanno avanti.

Il giorno dopo Pietro Roma torna dal Maresciallo Napoli e gli racconta cosa ha fatto per conto proprio:

Nella notte, insieme con mio fratello Giovanni e mio nipote Giuseppe Pisani, mi aggiravo per le vie basse dell’abitato alla ricerca della refurtiva e verso le due abbiamo scorto un piccolo chiarore nella chiesetta abbandonata e sconsacrata “del Soccorso”. Ci siamo appiattati e abbiamo sentito un rumore nella chiesetta; poi, spentasi la luce, abbiamo visto uscire, cauto, uno sconosciuto che si è dileguato nel buio. Allora siamo entrati nella chiesetta, ci abbiamo trovato tutta la refurtiva e l’abbiamo recuperata!

– Meno male! Allora a noi resta solo di trovare i responsabili!

28 giugno, la mattina alle 9,00. Un usciere dell’Ospedale di Rossano consegna un referto medico al Maresciallo Napoli:

addì 28 giugno, poco dopo la mezzanotte è stato trasportato in questo Ospedale Civile, dove è degente in imminente pericolo di vita, Campana Santo di anni 41 da Rossano, il quale presenta ferita da arma da fuoco alla natica destra, rimontante a circa 24 ore prima. Il proiettile, sparato a brevissima distanza, dal basso verso l’alto e da dietro in avanti, è penetrato dalla metà superiore della regione glutea destra e ha prodotto quattro fori all’intestino tenue e due al colon discendente e si è fermato nell’addome, donde è stato estratto.

“Deve essere stato un regolamento di conti all’interno della malavita locale” pensa il Maresciallo Napoli perché Santo Campana lo conosce bene essendo un emerito pregiudicato, condannato varie volte per lesioni, anche in danno del padre, e per furto, dichiarato nel 1945 delinquente abituale ed assegnato ad una colonia agricola.

Napoli si precipita in ospedale e interroga il ferito, che racconta:

Ieri mattina verso le undici ero andato a spigolare nella lontana contrada Foresta e mentre, inginocchiato, mi stavo dissetando al rigagnolo Nubrica ho sentito il colpo alle mie spalle, ma non ho visto che lo ha esploso

Il Maresciallo Napoli torna in Caserma e trova ad aspettarlo Pietro Roma, visibilmente mortificato, che dice di dovergli parlare:

– Marescià, vi dico una cosa per mio scrupolo di coscienzaquando ho rinvenuto la refurtiva nella chiesetta “del Soccorso” c’è stato uno scambio di colpi di pistola tra me e lo sconosciuto

– Ah!

Io, mio fratello e mio nipote Giuseppe Pisani ci siamo accorti che nella chiesetta si dovevano nascondere delle persone e allora ci siamo messi in agguato: io sull’angolo del muro che guarda la porta, mio fratello e mio nipote addossati alla parete della chiesetta sotto la finestra. Ad un certo momento ho visto uscire un uomo che alla mia intimazione di fermarsi ha risposto con un colpo di pistola, al quale ho risposto con la mia pistola in direzione dell’uomo che fuggiva… però ritengo che il mio colpo sia andato a vuoto

– Non cambia niente, ma perché non lo avete detto prima? La pistola l’avete con voi?

– Sì, eccola – risponde Roma, porgendogli l’arma, una pistola calibro 6,5 con due cartucce nel caricatore, che il Maresciallo provvede a sequestrare.

Napoli, con ingenuità, non intravede alcuna relazione tra la seconda versione dei fatti narratagli da Pietro Roma con il ferimento di Santo Campana e lo lascia andare.

Trascorrono altri tre giorni senza che si riesca a trovare alcun indizio che porti all’identificazione dei ladri e al feritore di Campana, poi il primo luglio il Maresciallo viene convocato d’urgenza all’Ospedale perché Campana, che sta per morire, ha manifestato il proposito di rivelare ogni cosa:

Sono stato io a commettere il furto in danno di Roma, insieme con “Gatangello”, Giuseppe Lupinetti, e con “Gamillo”, Giuseppe Pisani… Gamillo poi ha tradito… Pietro Roma mi ha sparato… io non ho sparato

– Confermi che hai fatto il furto con Gatangello e Gamillo, che Pietro Roma ti ha sparato e tu non hai sparato?

– Sì, confermo tutto… io non ho sparatonon potevo sparare perché sprovvisto di arma

Ed è tutto. Il rantolo della morte gli impedisce di profferire altra parola e, dopo circa tre ore, muore per la peritonite acuta insorta alla perforazione degli intestini e non potuta arrestare dalla penicillina e dall’intervento chirurgico praticato nelle prime ore del 28 giugno, quando si constatò che la ferita doveva rimontare a circa 24 ore prima.

Quando il Maresciallo Napoli esce dall’Ospedale si imbatte nella carrozza guidata da Lupinetti, con al suo fianco Giuseppe Pisani e li dichiara in arresto.

Ma Giuseppe Pisani chi? Il nipote del derubato Pietro Roma? Sì, esatto, proprio lui!

Interrogati, i due si dichiarano estranei al furto, ma il fatto che Pisani è il nipote del derubato e che si trovava in compagnia dello zio quando Campana è stato ferito, dovrebbe costituire una prova solida, almeno a suo carico. Poi ci sono i loro numerosi precedenti penali, che li classificano come emeriti pregiudicati, più volte condannati a pene gravi per furti aggravati.

Napoli va ad arrestare anche Pietro Roma, ma non lo trova perché, sapendo che Campana avrebbe potuto parlare, ha preferito sparire dalla circolazione non appena il Maresciallo lo ha lasciato libero.

La Procura avanza la richiesta di rinvio a giudizio nei confronti di Giuseppe Lupinetti e Giuseppe Pisani per furto più volte aggravato in danno di Pietro Roma, con il concorso dell’ucciso Santo Campana e contro Pietro Roma per omicidio volontario in persona di Santo Campana e per detenzione e porto abusivo di pistola ed il 5 giugno 1948 la Sezione Istruttoria della Corte d’Appello di Catanzaro, su conforme requisitoria del Procuratore Generale della Repubblica, dichiara non doversi procedere in ordine al delitto di furto contro Pisani e Lupinetti per insufficienza di prove e contro Campana per estinzione del reato in seguito alla morte dell’imputato. Dichiara non doversi procedere contro Pietro Roma in ordine alla detenzione e porto abusivo di pistola per l’amnistia del 9 febbraio 1948, n. 32. Rinvia Pietro Roma, latitante, al giudizio della Corte d’Assise di Rossano per rispondere, modificato il titolo del reato, di omicidio preterintenzionale in persona di Santo Campana.

La causa si discute il 26 luglio 1948, ma Pietro Roma è sempre latitante. La Corte, letti gli atti e ascoltati i testimoni e le parti, con un articolato ragionamento che merita di essere letto integralmente perché spiega ogni particolare della vicenda, osserva: non è il caso di procedere ad una disamina analitica, che potrebbe condurre a conclusioni diverse da quelle della Sezione Istruttoria in ordine alla partecipazione di Lupinetti e di Pisani al furto commesso da Campana. La sentenza istruttoria ha prosciolto questi due emeriti furfanti, sia pure con formula dubitativa ed ammantandoli di sospetti gravi, precisi e concordanti. Qui occorre occuparsi soltanto dell’azione delittuosa di Pietro Roma. Ma essa non si può compiutamente ed umanamente valutare avulsa dal furto, cui perciò bisogna necessariamente accennare. Il furto, dunque, fu sicuramente commesso e per esso Pietro Roma era stato messo quasi sul lastrico. Fu confessato la mattina del primo luglio in punto di morte dall’autore principale, Santo Campana, il quale, nella sua confessione in extremis, aggiunse altre quattro circostanze rilevanti: la partecipazione di Lupinetti e di Pisani; il tradimento successivo di Pisani; il suo ferimento ad opera del derubato Pietro Roma; che egli, Campana, non aveva sparato. Vero è che Campana, appena ricoverato nell’ospedale, narrò la fandonia del ferimento nella lontana contrada Foresta mentre si dissetava inginocchiato, il 27 alle ore 11,30. Ma, è ovvio, egli questa fandonia inventò e disse perché, sperando di sopravvivere, aveva, da incallito delinquente, divisato di conseguire l’impunità e di regolare, poi, direttamente i conti con il traditore Pisani e con il feritore Roma. Senonché, quando sentì approssimarsi la fine, al cospetto della morte – che è trasfigurazione della personalità terrena ed anelito e viatico verso la fede e verso la purificazione dell’anima – non seppe più persistere nella menzogna e, per impulso della sua rinnovata coscienza etica e cristiana, confessò la verità, tutta la verità, la quale fa giustizia dell’altra fandonia del derubato Roma: il ritrovamento occasionale della refurtiva. Invece, la ragione comune induce a ritenere che Pietro Roma, il fratello Giovanni ed il nipote Giuseppe Pisani, su indicazione di quest’ultimo, si recarono, la notte dal 26 al 27 giugno, alla chiesetta del Soccorso sicuri di rinvenirvi la refurtiva. Quivi trovarono Campana che, sorpreso per l’improvviso sopraggiungere di tre persone, che poté anche ritenere appartenenti alla polizia, si diede alla fuga senza nulla, si noti, portare seco. Contro il fuggiasco, Pietro Roma, esasperato per il furto che lo aveva quasi messo sul lastrico, sparò il colpo di pistola. Che sia stato Roma a ferire Campana, da breve distanza mentre fuggiva, è certo. La pallottola rinvenuta nell’addome di Campana corrisponde esattamente al calibro (6,5) della pistola consegnata da Roma ai Carabinieri ed alle altre due cartucce non sparate contenute nel caricatore. Il tragitto della pallottola – che entra dalla parte alta della natica destra, da dietro in avanti, dal basso in alto, attraversa le parti muscolari glutee, fora l’osso iliaco, entra nella cavità addominale, cagiona sei lesioni agli intestini e permette il passaggio preciso della sonda solo quando, sul tavolo anatomico, il cadavere è piegato in avanti, dimostra in maniera irrefutabile, tenuto conto del piccolo calibro e della limitata potenza dell’arma, che il colpo fu sparato a brevissima distanza, da dietro e da basso contro persona piegata in avanti, che fugge in salita.

Ora, siccome la difesa di Pietro Roma in linea principale ha chiesto la sua non punibilità per avere agito in stato di legittima difesa ed in via subordinata che il suo assistito non sparò né per ferire e né tantomeno per uccidere, ma solo per intimorire il fuggiasco, la Corte smonta per prima questa seconda tesi, affermando che chi spara volontariamente, a brevissima distanza in direzione dell’avversario, dimostra quanto meno l’intenzione di ferirlo, non già di intimorirlo perché nel caso in esame manca la volontarietà di un fatto doloso (minaccia) diverso dalla lesione, che qui invece rifulge nella materialità del fatto e nell’intenzione. Quindi si tratta manifestamente (e si potrebbe aggiungere benevolmente) di omicidio preterintenzionale. Poi smonta anche la richiesta della legittima difesa, reale o quanto meno putativa, basata sulla seconda versione del fatto data dall’imputato ed avallata dal fratello Giovanni Roma. La Corte afferma: si osserva subito che la seconda versione ed il relativo avallo appaiono artificiosi e compiacenti. E spiega: Pietro Roma, la mattina del 27 giugno, quando già poche ore prima, nella notte, era avvenuto il voluto conflitto a fuoco seguito al voluto fermo, tace tutto ciò ai Carabinieri e lo mette avanti, ammantato da scrupoli francescani e da addomesticata legittima difesa, soltanto nella mattinata inoltrata del 28 giugno, quando ha già saputo che Campana è da parecchie ore ricoverato, ferito, nell’Ospedale ed è stato interrogato. Ora, è di comune nozione che chi ha anche subcoscienza di avere difeso un suo sacrosanto diritto (la propria incolumità personale) contro il pericolo grave ed imminente di un’offesa ingiusta, non indugia a conclamarlo quando riferisce il fatto, a questa difesa intimamente connesso. Se, invece, come nella specie, Roma riferisce il fatto della refurtiva e tace il conflitto che, poi, si affretta a mettere in evidenza in tempo successivo, quando apprende che il ferito è scoperto e ha parlato o può parlare, vuol dire che il conflitto non v’è stato, ma v’è stato solo il volontario ferimento, che prima aveva voluto astutamente occultare. V’è, poi, la dichiarazione del moribondo che merita la maggiore attendibilità, specie quando è aderente alla critica delle risultanze processuali. V’è, infine, l’interrogatorio dell’imputato prosciolto Pisani, nipote di Pietro Roma, che nella notte dal 26 al 27 giugno si trovava nelle identiche condizioni di audizione e di visibilità di Giovanni Roma. Ebbene, Pisani non parla né di intimazione di fermo, né di priorità del colpo da parte dello sconosciuto che scappava, né di sibilo della pallottola, né di esclamazione “mi ha sparato!” da parte di Pietro Roma. Ed è intuitivo che se queste circostanze fossero realmente avvenute, egli le avrebbe messe in evidenza. Da rilevare ancora che Pisani parla il 15 luglio 1947, a distanza di soli 18 giorni dal fatto ed era in carcere dal primo luglio. Giovanni Roma depone il 2 dicembre 1947, a distanza di oltre 5 mesi dal fatto, durante i quali, mentre il fratello era, come è, uccello di bosco, aveva potuto liberamente manovrare ed essere manovrato nella poderosa offensiva del ben architettato salvataggio. Potrebbe bastare, ma la Corte si sente in dovere di fare un’ultima osservazione in merito: ma poi, anche a voler ritenere veritiera, in via di semplice ipotesi, la versione postuma dell’imputato e l’avallo dell’affettuoso fratello, come si può configurare l’attualità, l’immanenza del pericolo di un’offesa da parte di chi, sia pure dopo aver sparato (e non sparò), fugge e per giunta senza alcun bagaglio?

Adesso è veramente tutto e non resta che, affermata la colpevolezza di Pietro Roma nel delitto di omicidio preterintenzionale, quantificare la pena da irrogare e la Corte comincia con le attenuanti che spettano all’imputato, cioè quella della provocazione perché egli, alla vista del ladro incallito che lo aveva quasi messo sul lastrico, sparò contro di lui nello stato emotivo dell’ira, determinato dal fatto ingiusto del ladro stesso. Reputa, poi, la Corte concedere anche le attenuanti generiche, in considerazione dei motivi che determinarono il delitto. La pena, sottratte le attenuanti, viene fissata in anni 4 e mesi 11 di reclusione, oltre alle spese, ai danni ed alle pene accessorie.

La Suprema Corte di Cassazione, il 14 gennaio 1953, rigetta il ricorso dell’imputato.

L’8 marzo 1954 la Corte d’Appello di Catanzaro, applicando il D.P. 19 dicembre 1953, n. 922, condona a Pietro Roma anni 3 di reclusione.

Il 17 novembre 1962 la Corte d’Assise d’Appello di Catanzaro, applicando il D.P. 11 luglio 1959, n. 460, dichiara condonati anni 1 della pena inflitta a Pietro Roma, in aggiunta agli anni 3 già condonati.[1]

Della pena originariamente stabilita rimane solo un residuo di 11 mesi di reclusione, ma non sappiamo se Pietro Roma ha deciso di scontarli o di restare latitante.

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Rossano.