
È il 27 luglio 1945 e la guerra è ormai definitivamente cessata. A Cosenza una cappa di afa rende difficile anche uscire da casa, così Maria Minolli, che abita nella palazzina all’angolo tra via Marco Aurelio Severino e il Vico San Nicola, pensa bene di buttare dell’immondizia dalla finestra. Raffaela De Franco, che è a casa di sua madre al piano sottostante all’appartamento di Maria, se ne accorge e, affacciatasi, comincia da urlare all’indirizzo della vicina:
– Mappina! Puttana!
– Io sono una gran signora e come tale mi conoscono tutti a Cosenza! – risponde piccata Maria.
Per fortuna tutto finisce con questo breve scambio, ma il giorno dopo, tornato da Napoli dove era stato per affari, Cesare De Grazia, il marito di Raffaela, viene informato dell’accaduto e verso le nove di sera, infuriato come un toro, esce di casa, sale le due rampe di scale e bussa a casa di Maria Minolli, che è da sola perché il marito, Cosimo Sardo, è uscito a prendere un po’ d’aria. Appena apre la porta viene aggredita da Cesare che, incurante dello stato di gravidanza della donna, la colpisce violentemente con pugni e calci mentre la insulta pesantemente. Poi la lascia tramortita e se ne torna a casa sua.
Quando Cosimo rientra e trova la moglie pesta e agitata gliene chiede il motivo e Maria risponde:
– Cesare De Grazia mi ha picchiata…
– E perché?
– Ho buttato dell’immondizia dalla finestra e sua moglie mi ha offesa… mappina e puttana mi ha chiamata!
Cosimo non dice niente alla moglie, si affaccia dalla finestra e urla:
– De Grazia! Solo i vili si possono mettere con le donne e non già gli uomini!
De Grazia non risponde e l’incidente sembra essere chiuso. Poco dopo aver cenato, Cosimo e Maria vanno a far visita al padre di Cosimo, che abita sul loro stesso pianerottolo, infermo a letto, lasciando il portoncino aperto. Dopo qualche minuto passa casualmente Vincenzo De Grazia, il figlio di Cesare, in compagnia di Mario Arcuri. Vedendo la porta aperta, Vincenzo, ignaro dell’accaduto, saluta, scende le due rampe di scale e rientra a casa, dove apprende ciò che successo e allora esce, risale le scale, trova la porta dei Carpino ancora aperta, si affaccia all’ingresso e dice:
– Oi mmerda, escia fora ca ‘na vidimu!
Cosimo esce sul pianerottolo e si para davanti al giovane. Maria cerca vanamente di trascinarlo in casa, mentre Raffaela, temendo per il figlio, è accorsa e cerca, altrettanto vanamente, di ricondurlo a casa. Nella confusione generale Vincenzo, sconvolto in viso ed alquanto alticcio, riesce ad afferrare Cosimo per una manica della giacca e i due cominciano a picchiarsi. Ad un certo punto Vincenzo viene colpito da una bastonata tiratagli da Maria Minolli al sopracciglio sinistro, che comincia a sanguinare. Alla vista del sangue la rissa sembra calmarsi, ma è solo un’illusione perché i due, dopo qualche secondo ricominciano a darsele di santa ragione, nonostante Vincenzo urli per il dolore che gli provoca la ferita. Alle sue grida accorrono il padre, il fratello e Gaetano Noce che, nonostante si buschi per sbaglio una bastonata al braccio sinistro, riesce ad interporsi tra i due litiganti e li separa, quindi spinge Cosimo e Maria in casa Carpino, entra anche lui e chiude la porta.
Potrebbe finire tutto qui, ma i De Grazia non tornano a casa, scendono in strada e cominciano una fitta sassaiola verso l’appartamento dei Carpino, rompendo i vetri delle finestre e colpendo diverse volte alla testa Cosimo mentre cerca di chiudere gli scuri. Vedendo il sangue che gli cola dalla testa, Cosimo è furibondo e giura immediata vendetta contro Vincenzo De Grazia, poi si lancia verso la porta di casa per scendere in strada, ma viene invitato alla calma da sua moglie, sua suocera e da Gaetano Noce che gli impediscono il passaggio. Sempre più furibondo, Cosimo elude il blocco del corridoio e si lancia contro la debole porticina interna che divide il suo appartamento da quello dei suoceri, rompe i listelli che tengono ferma la porta, sposta la cristalliera che nasconde il passaggio ed entra nella sua stanza da letto. Ansima mentre va verso il comodino dove ha posato la rivoltella, la prende e si precipita giù per le scale. Quando è fuori spara in aria un colpo, poi guarda verso i De Grazia, che hanno appena deciso di smettere la sassaiola e di rincasare e spara contro di loro due colpi.
Dopo il fuggi fuggi generale tutto si calma, ma a terra sono rimasti Raffaela De Franco, leggermente ferita al braccio destro, ed il marito Cesare De Grazia, ferito gravemente al petto. I suoi lo soccorrono e lo portano in casa di Angelina Guadagnuolo per prestargli le prime cure, ma è evidente che le sue condizioni sono disperate e corrono verso l’ospedale, dove Cesare, però, arriva già cadavere, con il cuore trapassato dal proiettile.
Intanto sul posto, richiamati dalle detonazioni e dalle urla dei presenti, sono arrivati i Carabinieri, che rintracciano subito Cosimo Sardo.
– Finalmente siete arrivati, altrimenti mi avrebbe ucciso! – dice Cosimo ai Carabinieri, poi consegna l’arma, una rivoltella Velo Dog di piccolo calibro a cinque colpi, e prima di essere portato in caserma viene medicato alla mano e all’avambraccio destri che presentano delle abrasioni.
Le accuse contro di lui sono di omicidio volontario in persona di Cesare De Grazia e tentato omicidio in persona di Raffaela De Franco.
– Mi sono difeso, voleva uccidermi… ho pensato che voleva uccidermi e ho sparato prima un colpo in aria e poi… forse ho esagerato ma non volevo ucciderlo, volevo ferirlo, come ho voluto ferire sua moglie…
– I testimoni hanno detto che i De Grazia lanciavano i sassi dalla strada e voi eravate in casa. Quando i De Grazia stavano rincasando siete sceso e avete sparato.
– No, tra il lancio dei sassi e i colpi di rivoltella non corse alcun intervallo.
– Cioè?
– Cioè mentre lanciavano i sassi, ho sparato.
L’Appuntato Corrado Mastrolillo, il primo dei suoi colleghi ad arrivare sul posto, lo corregge:
– No, il lancio dei sassi e i colpi di rivoltella sono stati “quasi” contemporanei e non contemporanei – calcando il tono sul “quasi”.
– E poi – dice spontaneamente Sardo -, se, come dicono, De Grazia stava rincasando, avrei dovuto colpirli alle spalle e non davanti.
– Ma avete appena detto di aver prima sparato un colpo in aria e poi contro De Grazia. Quindi è intuitivo che De Grazia, sentito lo sparo, si sia girato istintivamente per rendersi conto di che si trattava e lo avete colpito al petto!
– E allora, se stava rincasando, perché non è caduto davanti al suo portone?
– Perché non gliene avete dato il tempo, avendolo ucciso fulmineamente.
Questa è la sua linea difensiva, smontata però dai testimoni interrogati, che depongono di averlo visto sparare dopo che la sassaiola era terminata ed i De Grazia stavano rincasando. La conseguenza è che Cosimo Sardo viene rinviato al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza e la causa si discute il 9 luglio 1946.
Interrogato dal Presidente della Corte, Cosimo ribadisce per l’ennesima volta ciò che ha dichiarato appena arrestato.
Poi la Corte, letti gli atti ed ascoltati i testimoni e le parti, osserva: per aversi legittima difesa obbiettiva il pericolo deve essere attuale, vale a dire incombente. La difesa, pertanto, deve essere contemporanea al pericolo ed apparire come immediata reazione a questo. Se si reagisce ad un pericolo futuro, che del resto potrebbe non mai realizzarsi, o ad un pericolo passato, non sussiste legittima difesa perché in entrambi i casi è dato far ricorso all’Autorità. Nel caso in esame risulta che l’imputato si decise ad uscire di casa armato di rivoltella e fece fuoco contro i De Grazia quando stavano per rincasare e, pertanto, si era desistito dallo scagliare sassi contro l’abitazione dei suoceri dell’imputato, come deposto dai testi presenti al fatto, sassi scagliati dopo che la Carpino aveva cagionato a De Grazia Vincenzo lesione lacero – contusa al sopracciglio sinistro con un colpo di bastone, mentre in seguito di ciò l’imputato, ma prima che sparasse contro i De Grazia intenti a rincasare, aveva riportato dal lancio dei sassi escoriazioni al cuoio capelluto e lesione contusa al mento e nel trambusto precedente altra lesione lacero – contusa al margine esterno della mano destra.
Premesso ciò, è falso che pericolo attuale sovrastasse Sardo ed i suoi prossimi congiunti, sì da esser costretto dalla necessità di difendersi e difenderli a sparare e l’accampata discriminante della legittima difesa obiettiva è mera invenzione di lui.
La Corte ha un altro argomento da esaminare: la legittima difesa putativa, invocata in subordine dalla difesa e argomenta: è esatto che l’erronea opinione della necessità di difendersi, se non colposa, vale a dire se basata su dati di fatto concreti e non solo fantastici, integra gli estremi della discriminante della legittima difesa putativa. Ma i De Grazia, nel momento in cui Sardo sparò, non avevano posto in essere alcuna azione che, male interpretata e compresa dall’imputato, gli avesse fatto nascere la fondata persuasione di versare nello stato di necessità di difendersi e difendere i suoi prossimi congiunti contro il pericolo sovrastante di un’offesa ingiusta. Infatti, come è rimasto indubbiamente provato, la violenza (lancio di sassi) non era più in atto e perciò è semplicemente fantastico che Sardo abbia avuto l’erronea opinione della necessità. Nemmeno, dunque, si può ammettere che esiste nel caso la legittima difesa putativa e non è da accogliersi l’ipotesi dell’eccesso colposo, essendo il pericolo attuale ed effettivo presupposto pure di questo.
Siamo quasi alla fine, alla Corte resta solo da stabilire se Cosimo Sardo aveva, quando sparò, la volontà di uccidere o di ledere l’integrità fisica di Cesare De Grazia e della moglie Raffaela De Franco. Per la Corte è irrefragabile che sparò con la volontà e la coscienza di uccidere, come si desume dalla ripetizione dei colpi, dalla breve distanza tra lui e i De Grazia (appena sette metri) in rapporto alla potenzialità dell’arma adoperata, dalle parti vitali prese di mira, dalla causale adeguata al fatto e dai propositi di vendetta manifestati all’interno della casa (dove aveva riportato lesioni durante il lancio dei sassi), allorché il Noce, la moglie e la suocera cercavano di calmarlo. Però Sardo, con un unico disegno criminoso esplose i colpi, uccidendo Cesare De Grazia e tentando di uccidere la moglie di costui e poiché trattasi di violazioni della stessa disposizione di legge, la Corte ritiene che concorrano i requisiti del reato continuato di omicidio volontario.
Accertata la responsabilità penale di Cosimo Sardo, con la concessione delle attenuanti generiche e della provocazione, ci sono tutti gli elementi per emettere la sentenza di condanna, che ha bisogno di qualche calcolo: prendendo come pena base quella stabilita per il delitto consumato, si parte da anni 21, che si aumentano per la continuazione di anni 3 e fanno anni 24, che per la provocazione si diminuiscono di anni 5 = anni 19, che per le attenuanti generiche si diminuiscono di anni 1, restando la pena fissata in anni 18 di reclusione, oltre alle spese, ai danni e alle pene accessorie.[1]
[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.