
Verso le 20,30 del 17 aprile 1949 Francesco Gagliardi sta tornando a casa, nell’abitato di Cardinale in provincia di Catanzaro, e vede il calzolaio Nicola Mele seduto sul gradino della sua bottega:
– Che fai seduto lì? – gli chiede.
– Niente, sto qui… – gli risponde evasivamente. Gagliardi capisce che Nicola è in attesa di una giovanetta con la quale amoreggia e continua a percorrere i pochi metri che lo separano da casa. Dopo pochi minuti esce di nuovo e vede il calzolaio insieme a Domenico Badolato, garzone del possidente Rocco Rosanò. Sente anche qualcosa che i due si dicono. Sente che Mele dice a Badolato “vattene via!” e Badolato che si allontana. Allora si avvicina all’amico e gli chiede:
– Che è successo? Che voleva?
– Niente – gli risponde, poi cominciano a parlare del più e del meno e cominciano ad avviarsi verso la piazza del paese. Vengono raggiunti da Badolato che nel sorpassarli, rivolto a Nicola Mele, dice:
– Adesso vado e glielo dico al mio padrone!
Perplesso da queste parole, Gagliardi chiede di nuovo all’amico che cosa fosse successo tra lui ed il garzone e a cosa aveva voluto riferirsi con quelle parole, ma la risposta è uguale alla precedente: “niente”. Continuando il loro cammino verso la piazza, Francesco e Nicola si fermano accanto ad un fabbricato in costruzione per scambiare qualche parola con due conoscenti, che se ne vanno quasi subito.
In questi stessi istanti Domenico Badolato arriva davanti alla casa del padrone e lo chiama. Rosanò esce sul balcone e il garzone gli dice:
– Stavo andando a soddisfare un bisogno corporale e mi sono imbattuto in Nicola Mele, che era vicino alla sua bottega. Mi ha domandato dove stavo andando. Io gliel’ho detto e lui mi inibì di proseguire. Alle mie rimostranze, Mele mi ha percosso con schiaffi e con calci alle natiche e alle gambe. Io non ho reagito e sono andato egualmente fuori dell’abitato per soddisfare il mio bisogno. Al ritorno ho visto Mele in compagnia di un altro giovane, non sono stato più molestato e sono venuto da voi…
– Aspetta che scendo – gli risponde Rosanò mentre rientra in casa per mettersi la giacca e prendere la sua rivoltella. Poi raggiunge il garzone e si avviano verso il posto dove Badolato aveva sorpassato Mele e Gagliardi e proprio lì li incontrano.
Rosanò si avvicina a Mele e lo schiaffeggia mentre gli dice:
– Così mi porti rispetto? Come ti sei permesso di picchiare il mio garzone?
La reazione del calzolaio è immediata: un pugno in pieno viso ed il sangue comincia a scorrere dal naso di Rosanò. Poi i due si azzuffano. Mele riesce a buttare a terra Rosanò, che si rialza e butta a terra l’avversario. A questo punto interviene Gagliardi che afferra per le spalle Rosanò e lo allontana, ma quello riesce a svincolarsi dalla stretta e sembra allontanarsi. Sembra, appunto, perché fatti pochi passi torna indietro ed arrivato a pochi passi da Mele alza il braccio destro armato della rivoltella e gli spara un colpo. Mele esclama:
– Mamma mia, mi ‘mmazzasti!
Poi crolla a terra, praticamente morto perché il proiettile, penetrando dalla parte sinistra del torace, gli ha trapassato il polmone di questo lato, l’arco aortico ed il polmone destro, per poi fuoriuscire e perdersi a qualche metro di distanza.
Gagliardi scappa, temendo che Rosanò spari anche contro di lui, mentre Badolato si allontana con calma in compagnia del suo padrone.
Il comandante della stazione dei Carabinieri di Cardinale ed un suo sottoposto sono di pattuglia nel paese, quando sentono una detonazione di arma da fuoco provenire da qualche decina di metri da loro, in direzione di via Regina Margherita e si dirigono di corsa verso quella direzione. Subito dopo da un vicolo spuntano due uomini che vanno verso via Regina Elena e intimano loro di fermarsi. Si ferma solo uno dei due, che viene identificato per Domenico Badolato, mentre l’altro, che gronda sangue dal naso e dalla bocca, continua a camminare e dopo pochi metri entra nel portone di casa di Rocco Rosanò.
Portandosi dietro Badolato, i Carabinieri entrano in casa del possidente e interrogano immediatamente i due, che dichiarano di ignorare chi abbia esploso il colpo e Rosanò inoltre dichiara:
– Ho ricevuto due pugni alla bocca…
– E chi è stato?
Silenzio.
I due vengono portati in caserma per procedere ad interrogatori più stringenti, ma devono soprassedere perché vengono informati che nell’ambulatorio del medico condotto Nisticò è stato trasportato un giovane gravemente ferito ed il Maresciallo si precipita sul posto, dove gli viene mostrato il cadavere di Nicola Mele.
– Gli hanno sparato a brevissima distanza, il foro sulla giacca è bruciacchiato – dice il medico.
Il Maresciallo sospetta che a sparare sia stato Rosanò e prima di tornare in caserma decide che è opportuno procedere subito ad una perquisizione domiciliare per rinvenire l’arma del delitto, ma non trova nessuna rivoltella o pistola. Però in un tiretto del cassettone trova un pugnale lungo 24 centimetri con lama acuminata, un tempo in dotazione alla milizia fascista, e lo sequestra. Poi va sul luogo del delitto e verbalizza che su di una pietra del selciato, a 24 centimetri dalla parete del fabbricato in costruzione, ci sono delle macchie di sangue e l’impronta di una mano. Poco più distante c’è una sigaretta “Nazionale”.
Tornato in caserma interroga Rosanò, che questa volta parla:
– Ho esploso un colpo di pistola contro Nicola Mele, la pistola l’ho data a mia moglie per nasconderla…
La moglie indica il posto dove ha nascosto l’arma, che viene rinvenuta e sequestrata: è una Beretta calibro nove, con incisa la sigla R.E. n. 793350, con una cartuccia in canna ed altre cinque nel caricatore. R.E., è chiaramente un’arma da guerra in dotazione al Regio Esercito durante il conflitto mondiale, quindi detenuta illegalmente.
Ormai è notte fonda e prima di interrogarli è meglio far riflettere i due fermati nell’isolamento delle camere di sicurezza.
La mattina dopo il Maresciallo torna sul luogo del delitto e rinviene una pallottola calibro nove. Ora può procedere ad interrogare i due fermati. Badolato ricostruisce i fatti sostanzialmente come li abbiamo raccontati, tranne che per i calci ed i pugni; Rosanò, invece, fornisce una versione contrastante:
– Ieri sera verso le otto e mezza, dopo aver cenato con me, Badolato uscì per andare a dormire in una casa poco distante. Stavo per andare a letto allorché, dopo circa dieci minuti, fui chiamato da Badolato, il quale mi informò che, mentre si recava a soddisfare un bisogno corporale fuori dal paese, era stato fermato da un individuo che, senza rivolgergli neppure la parola, lo aveva preso a pugni e a calci. Io, allora, pregai il mio garzone di attendermi, misi a letto un mio bambino, mi armai a solo scopo di difesa personale e scesi in strada, incamminandomi col Badolato verso via Regina Margherita. Ci fermammo davanti a due giovani che parlavano a bassa voce e Badolato mi indicò colui che lo aveva malmenato e che era Mele. Mi avvicinai, gli domandai se fosse stato effettivamente lui, ma non ottenni risposta e quando mi lamentai della mancanza di rispetto mostratami per aver percosso il mio garzone, Mele mi afferrò al petto con la mano sinistra e con la destra mi vibrò un violento pugno alla bocca provocandomi un forte dolore ai denti e l’uscita di sangue. Il compagno di Mele mi afferrò per il collo dalla parte delle spalle e io diedi uno spintone a Mele, al quale avevo assestato degli schiaffi dopo aver ricevuto il pugno, facendolo cadere per terra. Liberatomi dalla stretta dell’altro mi diedi alla fuga, mettendo involontariamente un piede sul ventre del Mele. Fatti una quindicina di passi, mi accorsi di avere imboccato una via diversa da quella che conduce a casa mia, tornai indietro, misi la mano alla tasca della giacca ove tenevo la pistola, che non estrassi, e giunto all’imbocco di via Regina Elena vidi Mele che, stando appoggiato alla parete del fabbricato in costruzione, mi guardava tenendo la mano destra dietro il fianco. Temendo che volesse fare uso di qualche arma, estrassi la pistola, che avevo messo in posizione di sparo quando ero fuggito, e alla distanza di circa quattro passi esplosi contro Mele un colpo verso i piedi. Vedendolo piegarsi su sé stesso mi allontanai.
Ma la prima parte degli avvenimenti non sembra essere andata come hanno raccontato Badolato e Rosanò. Secondo la testimonianza di due donne che abitano nelle immediate vicinanze della bottega del povero Mele, è assolutamente da escludersi che Badolato venne percosso da Mele, che si limitò a pregare il garzone di andarsene e lasciarlo in pace. E c’è un altro testimone oculare che smentisce Rosanò quando afferma di avere visto Mele che lo guardava minaccioso tenendo una mano sul fianco, probabilmente nascondendo un’arma. Ebbene, il testimone afferma che in quel momento Mele stava spolverandosi i pantaloni e aveva in mano una sigaretta, cioè quella che il Maresciallo repertò sul luogo del delitto.
Secondo la Procura non ci sono elementi per accogliere la richiesta di proscioglimento avanzata dalla difesa, secondo cui l’imputato è responsabile di eccesso colposo di legittima difesa ma, al contrario. ci sono tutti gli elementi necessari per chiedere il rinvio a giudizio di Rocco Rosanò con l’accusa di omicidio volontario, aggravato dai futili motivi, oltre a quelle di porto abusivo di arma da guerra e detenzione abusiva di pugnale.
Ad occuparsi del caso è la Corte d’Assise di Catanzaro nell’udienza del 17 marzo 1950. Nelle prime fasi del dibattimento, attraverso alcune deposizioni e certificati medici, sorge il dubbio che l’imputato non godesse, nel momento in cui commise il delitto, delle facoltà di intendere e di volere e la Corte ne dispone l’accertamento dello stato di mente, affidando l’incarico al professor Felsani. Il giudizio viene sospeso e la causa rinviata a nuovo ruolo.
Il professor Felsani, dopo un accurato studio del soggetto in tutte le sue manifestazioni fisio – psichiche e dell’anamnesi familiare, stabilisce che l’imputato è soggetto di costituzione somatica neuroeretistica ipertiroidea, con complesso psichico caratterologico a tendenza paranoide e che per sensibilizzazione di tale complesso anomalo somato – psichico, al momento del commesso reato la sua capacità di intendere e volere non era annullata, ma grandemente scemata. L’imputato non è socialmente pericoloso.
Adesso il processo può andare avanti e la causa viene fissata e discussa il primo marzo 1951.
Rosanò, nuovamente interrogato, modifica la sua versione dei fatti e dice:
– Non ho visto armi in mano al Mele ed il colpo mi partì inavvertitamente…
La Corte, letti gli atti ed ascoltati i testimoni e le parti, osserva innanzi tutto che non può che fare sue le conclusioni del perito e ritenere Rocco Rosanò semi infermo di mente, anche per gli abbondanti elementi che si rinvengono in processo attraverso deposizioni di testi disinteressati. Poi passa a vagliare le richieste della difesa e, dopo una lunga ed articolata disamina, conclude: le risultanze processuali escludono nel modo più assoluto che nel caso ricorra l’ipotesi dell’eccesso colposo di legittima difesa, sia reale che putativa. Non solo. Rigetta anche le altre attenuanti richieste, quella dello stato d’ira e della provocazione: la prima perché non è vero che Mele lo colpì per primo, quindi non poteva provocare nell’imputato lo stato d’ira; la seconda perché, essendo risultato che Rosanò aggredì Mele schiaffeggiandolo, fu lui a provocare Mele, che reagì sferrandogli il pugno. L’ultima, quella del risarcimento del danno. La Corte osserva che si tratta solo di un’offerta e non di un effettivo risarcimento, sia perché l’offerta, come prescrive la legge, non fu fatta spontaneamente da Rosanò come dimostrazione attiva del suo ravvedimento e quindi come indice di sua minore criminosità, ma fu fatta dai suoi difensori e dalla moglie, per giunta nemmeno autorizzati dall’imputato, che li ha rimproverati aspramente in un esposto al Giudice.
Ora è il momento di accertare se Rosanò ebbe la volontà di uccidere Mele o di ferirlo e la morte avvenne oltre la sua intenzione. La Corte esclude subito la possibilità che si sia trattato di omicidio preterintenzionale e si concentra sulla volontà omicida: Rosanò non volle un evento meno grave di quello derivato dalla sua azione, non volle cagionare semplicemente una lesione, dalla quale derivò la morte del Mele, ma l’evento letale fu da lui preveduto. Le modalità dell’azione, il mezzo adoperato – arma micidiale quale la pistola Beretta cal. 9 –, la regione colpita, ne offrono chiara dimostrazione. È risultato, infatti, che dopo la zuffa non si allontanò col proposito di rincasare, come ha affermato, ma per mettere a punto la pistola per lo sparo, operazione che non avrebbe potuto eseguire restando vicino a Mele, perché ne sarebbe stato impedito da questi e da Gagliardi, dal quale era stato trattenuto sino a pochi momenti prima. Ritornò sui suoi passi non perché aveva sbagliato strada, in quanto avrebbe potuto, proseguendo, raggiungere ugualmente la sua abitazione, ma per sfogare l’ira per il suo prestigio offeso. Mirò osservando bene il bersaglio alla luce della lampada elettrica esistente sul luogo del delitto e sparò a brevissima distanza. Non reiterò i colpi perché vide la vittima subito accasciarsi al suolo. Quindi omicidio volontario.
L’ultima affermazione della Corte sul prestigio offeso serve ad introdurre l’esame del movente, finora ignorato: non va dimenticato in proposito che Rosanò doveva ritenersi un signorotto del paese, al quale si doveva ossequio, come è dimostrato dalla frase “è questo il rispetto che mi porti?” rivolta a Mele, incolpato di aver percosso il suo garzone. Ma la Corte individua un altro movente, seppure strettamente collegato al “suo prestigio offeso”: quel pugno ricevuto in bocca e per giunta da un comunista quale era il Mele, nutrendo egli rancore e odio verso gli appartenenti al detto partito, che prima gli avevano usato violenza e imposto di dividere a metà con i coloni il raccolto delle castagne. Causale imponente per Rosanò, di carattere autoritario e molto irritabile, ritenuto uno psicopatico e un neuropatico dai dottori Russomanno e Manes.
Per questi motivi la Corte ritiene Rocco Rosanò responsabile di omicidio volontario, ma esclude l’aggravante dei futili motivi, spiegando: è futile il motivo quando la spinta criminosa non è in alcun modo apprezzabile né giuridicamente, né psicologicamente, assolutamente sproporzionata all’entità del delitto e non trova plausibile giustificazione nella coscienza collettiva. E non può dirsi ricorrano tali estremi nel motivo che spinse Rosanò al delitto, poiché egli agì non solo perché si ritenne offeso nel suo prestigio, ma per quel duro colpo ricevuto alla bocca, sia pure da lui provocato, che gli cagionò dolore. A parte ciò, l’aggravante sarebbe, nel caso, inapplicabile, facendo parte i motivi a delinquere del processo intellettivo e volitivo, col vizio parziale di mente, che la Corte non può non concedere all’imputato in base al risultato della perizia psichiatrica. L’infermità accertata dal perito e risultata chiaramente dal processo è di quelle che incidono fortemente sulla volontà, limitando la capacità d’intendere e di volere di colui che ne è affetto. La Corte, in ultimo, ritiene di poter concedere all’imputato le attenuanti generiche per il migliore adeguamento della pena al fatto stesso ed alla sua personalità, che in sostanza è anche di buoni precedenti penali.
Ovviamente Rosanò è anche responsabile di detenzione abusiva di pugnale, di porto abusivo di arma e di detenzione e omessa consegna di arma da guerra.
È veramente tutto, adesso la Corte deve solo quantificare la pena da irrogare a Rocco Rosanò: la pena, tenuto conto di tutto, dopo complicati calcoli per scomputare le attenuanti e quantificare le pene per i reati minori, viene complessivamente fissata in anni 13 e mesi 4 di reclusione, oltre alle spese, ai danni ed alle pene accessorie. La Corte, inoltre, ordina il ricovero di Rosanò in una casa di cura per un tempo non inferiore agli anni 3. Ma il lavoro non è finito: visti gli artt. 1 e 3 del D.P. 23 dicembre 1949 n. 930, dichiara condonati anni 3 della pena.
La Suprema Corte di Cassazione, il 15 ottobre 1951, converte il ricorso in appello e designa per il giudizio di secondo grado la Corte d’Assise d’Appello di Reggio Calabria che, con sentenza del 15 febbraio 1952, conferma la sentenza della Corte d’Assise di Catanzaro.
Il 30 marzo 1952 la Suprema Corte di Cassazione rigetta il ricorso dell’imputato.
Il 21 gennaio 1954 la Corte d’Appello di Catanzaro, applicando il D.P 19 dicembre 1953, dichiara condonati anni 3 di reclusione.[1]
In definitiva la pena reale da scontare resta fissata in anni 7 e mesi 4 di reclusione, oltre al ricovero in una casa di cura.
[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Catanzaro.