
Sono le 15,30 di domenica 20 luglio 1925 e a Reggio Calabria fa caldo nonostante la brezza marina. Vincenzo Palaia, ventiseienne ex guardia daziaria avventizia, attualmente disoccupato, sta andando all’istituto della disoccupazione per riscuotere il sussidio percorrendo Via XXI Agosto. Quando passa davanti all’ebanisteria dei fratelli Trunfio vede che dentro c’è il ventiquattrenne gelataio Bruno Verbaro, si ferma e gli dice:
– Cammina!
– Aspetta che ce ne andiamo – gli risponde Verbaro, che saluta i Trunfio promettendo di tornare e pochi secondi dopo esce dalla bottega incamminandosi con Palaia verso Piazza Carmine.
Dopo una mezzoretta la Guardia Municipale Consolato Cozzupoli, di servizio nella zona, e il calzolaio Giuseppe Barbagallo, attirati dalle urla provenienti dalla parte della salsamenteria Sarica, vedono due uomini che si inseguono. Proprio davanti alla salsamenteria quello che è davanti si arresta cercando di voltarsi, ma non può farlo completamente perché quello che lo insegue, e che è a brevissima distanza, gli è già addosso e colpisce con un pugnale in un fianco lasciandoglielo conficcato e dandosi subito alla fuga, immediatamente inseguito dalla Guardia e dal calzolaio, che però lo perdono di vista nei pressi del forno Mammì.
In questo frattempo il ferito è riuscito ad estrarre il pugnale dalle carni, a lanciarlo verso il feritore e a tentare di inseguirlo, ma è crollato a terra, quasi incosciente. Alcuni passanti e alcuni abitanti delle case vicine sono accorsi e lo hanno preso e portato a casa del dottor Casciano che, osservata la ferita, dice ai presenti:
– Non posso fare altro che consigliare il trasporto all’ospedale, è in imminente pericolo di vita…
Qualcuno corre al telefono di un negozio vicino e chiama i Pompieri che hanno un mezzo idoneo al trasporto, qualcun altro prende una sedia, riesce a mettere a sedere il ferito ed in quattro lo portano in strada in attesa del mezzo.
Intanto è tornato sul posto Consolato Cozzupoli che, all’arrivo dei Pompieri sale anche lui per cercare di farsi dire il nome dell’aggressore, ma il ferito fa segno di no con la testa. Arrivati all’ospedale, però, fa segno a Cozzupoli di avvicinarsi e a stento gli sussurra:
– È stato l’innamorato della Carabiniera… – poi non aggiunge altro e muore pochi minuti dopo per l’enorme emorragia causata dalla recisione dell’arteria addominale.
L’innamorato della Carabiniera. E chi è? Vattelapesca! Ma se non si sa chi sia costui, qualcuno può sapere il nome della donna soprannominata Carabiniera. Però, al momento, la cosa più urgente è scoprire il nome della vittima. In tasca ha una tessera dell’Istituto Nazionale per la disoccupazione, una copertina di un vecchio permesso di porto d’armi, la partecipazione di nomina a Guardia Daziaria e numerose effigi di santi. È Vincenzo Palaia!
La Carabiniera è la cinquantaduenne Concetta Nucera, che ha un negozio di generi alimentari nel Rione Gabella, dove è anche casa sua e dove va ad interrogarla il Vice Commissario di P.S. Manfredi Forasaccio, accompagnato dai suoi uomini; l’innamorato invece è il diciannovenne gelatiere Bruno Verbaro. La donna è a letto in preda a dolori alle articolazioni e dichiara:
– Da più giorni non vedo Verbaro, non so cos’altro dirvi…
A questo punto il Vice Commissario va a casa di Verbaro, ma ovviamente non lo trova, effettua la perquisizione di rito e sequestra una rivoltella detenuta illegalmente, poi torna in Questura, dove il Comando delle Guardie Municipali ha provveduto a consegnare un pugnale con la punta spezzata che presenta tracce di sangue, l’arma del delitto.
– Da diverso tempo mi servivo per l’acquisto di generi alimentari presso il negozio della Carabiniera – comincia a raccontare Antonina Rafeli, la fresca vedova –. Essendo però mio marito rimasto disoccupato, rimasi in debito. Circa quindici giorni fa venne a casa mia un giovanotto, certo Bruno, amante della Carabiniera, a chiedere a nome di costei il pagamento del debito. Io gli risposi che mio marito non era né in casa, né a Reggio essendosi recato a Candidoni, il suo paese. Gli assicurai che al suo ritorno, mio marito avrebbe fatto in modo di pagare ratealmente il debito e Bruno allora disse “Se non mi date i soldi, datemi il mandolino”, ma io obiettai che senza l’ordine di mio marito non potevo consegnare cosa alcuna. Alla mia risposta Bruno replicò “O me lo date o me lo prendo!”. Feci l’atto di prenderlo ma, avendo minacciato di denunziarlo ai Carabinieri, alzò il bastone che portava, colpendomi due volte, una al braccio destro e l’altra al sinistro. Per tali lesioni feci redigere referto medico dal dottor Mazzacuva e lo consegnai ai Carabinieri di Sbarre, ma non sporsi querela per non far sapere niente a mio marito ed evitare questioni tra gli uomini. Quando mio marito tornò non gli dissi niente e solo lo esortai a pagare il debito. Mio marito mi rispose che appena riscossa l’indennità di disoccupazione avrebbe dato un acconto alla Carabiniera. Senonché, non avendo ancora riscosso il sussidio, non fu possibile pagare neppure in parte il debito. Ritengo, quindi, che l’omicida, temendo che mio marito, informato da me, si volesse vendicare delle bastonate datemi, lo abbia ucciso per timore della vendetta.
– A quanto ammonta il debito?
– Non lo so perché mio marito, ogni volta che occorrevano generi alimentari, mandava un biglietto, quindi la Carabiniera deve conservare tutti i biglietti rilasciati da mio marito.
– Sapete se tra vostro marito e l’uccisore c’erano già state questioni?
– Mio marito mai mi disse di avere avuto questioni con Bruno.
Bruno Verbaro si costituisce in Questura il 27 luglio successivo e, interrogato, racconta:
– Sono amico di Concetta Nucera, la Carabiniera, ma non sono suo amante. Nel mese di giugno scorso la Carabiniera, essendo ammalata ed avendo bisogno di danaro mi pregò di andare ad esigere alcuni suoi crediti. Non conoscendo le persone mandò con me una sua figlia. Tra gli altri crediti vi era quello di una donna di Sbarre, che doveva dare circa quattrocento lire. Entrò la figlia della Nucera ed io rimasi fuori. Senonché, avendo inteso quella donna che ricopriva d’improperi la ragazza, intervenni e le dissi “Signora, se non avete soldi non fa niente”, ma costei cominciò ad inveire contro di me e, dicendomi “Che cosa volete, mascalzone?”, diede di piglio ad una scure. Minacciandomi con quell’arma m’insultava con le parole “Disonesto, cornuto!”. Io allora mi feci indietro e per difendermi presi un pezzo di legno che era per terra e con questo detti due colpi alla donna e mi allontanai insieme alla figlia della Carabiniera. Non ebbi più occasione di tornare in casa di tale donna, continuando, però, ad adoperarmi per rimandare la riscossione del credito. Venerdì 17 luglio, due giorni prima dell’omicidio, verso le quattro di pomeriggio, mi recavo alle Sbarre per trovare degli amici e andarmi a divertire, quando sulla via delle Sbarre Inferiori, vicino al Soccorso Vecchio, incontrai Vincenzo Palaia in compagnia di quattro amici suoi. Mi fermò e mi disse “Vieni qua ché ti devo dire una parola”. Io mi avvicinai ed egli mi condusse nel vicolo vicino. Qui tanto Palaia quanto gli amici suoi mi si buttarono addosso e mi picchiarono e Palaia, bestemmiando e bastonandomi, mi diceva “Tu con mia moglie fai il malandrino? Per questa volta ci sono le bastonate e non ti fare vedere perché se ti vedono i miei amici ti finisco!”. Essendo da solo ed in condizioni di non potermi difendere fui costretto ad allontanarmi. Appresi così che la donna che mi aveva minacciato con la scure era la moglie di Palaia, che io conoscevo per prepotente. Dopo questo fatto, temendo le ire di Palaia, cominciai ad andare armato di un vecchio pugnale che avevo a casa. Il 20, verso le due di pomeriggio mi recai dai fratelli Trunfio, con i quali avevo lavorato come gelatiere in occasione della festa del Carmine. Verso le 15,30 mi trovavo sulla porta del negozio dei Trunfio suonando la chitarra, quando vidi Palaia e cercai di farmi indietro. Palaia, passando davanti la porta, bestemmiando la Madonna, mi disse “Puru ti mmucci, nesci fora cca sinnò ti pigghiu puru intra!”. Mi prese per il braccio sinistro, mi tirò sul marciapiede e subito cominciò a picchiarmi dicendomi “Te lo avevo detto che dovunque ti vedevo ti dovevo fare quello che ti ho promesso!”. Seguitò a percuotermi a schiaffi, pugni e calci trascinandomi fino all’angolo tra via del Carmine e via dei Tribunali. Qui era riuscito quasi a dominarmi perché mi teneva la testa bassa avendomi messo tutte e due le mani sulla nuca. Per il sudore le mani gli scivolarono e potei vedere distintamente Palaia mettere la mano destra nella tasca posteriore dei pantaloni, cavandone una rivoltella. Io allora con la mano sinistra gli tenni fermo il braccio destro, mentre con la mia destra trassi dalla cintola il pugnale e, in un momento di paura e di smarrimento, gliene detti un colpo, dandomi subito alla fuga. Vidi che Palaia, cavatosi dal fianco il pugnale che io vi avevo lasciato, lo scagliò contro di me sfiorandomi la testa.
La figlia della Carabiniera, interrogata, conferma le parole di Bruno Verbaro sull’incontro con Antonina Rafeli, che viene richiamata.
– Ci risulta che avete maltrattato la figlia della Concetta Nucera quando venne a chiedervi il pagamento del debito e che avete ingiuriato il Verbaro quando intervenne, minacciandolo anche con una scure.
– Non è vero che io abbia rivolto improperi alla ragazza che mi chiedeva il danaro, né che abbia ingiuriato Verbaro e minacciato con la scure. Presi la scure per difendermi, solo dopo aver ricevuto i colpi…
– Vostro marito aveva una rivoltella?
– Aveva la rivoltella che portava soltanto in servizio quando lavorava come guardia daziaria…
Più di qualcosa sembra non quadrare. Per esempio, dalle indagini fatte non risulta che ci sia stata alcuna rissa nel pomeriggio del 17 luglio sulla via delle Sbarre Inferiori, vicino al Soccorso Vecchio, come sostiene Verbaro, ma la cosa più strana è che né la Guardia Municipale, né i testimoni oculari, né i Pompieri hanno trovato a terra sul luogo del delitto una rivoltella e nemmeno il dottor Casciano o i medici dell’ospedale che hanno spogliato Palaia gliel’hanno trovata addosso.
– Verbaro, né sul luogo dove avvenne il delitto e né addosso a Palaia è stata trovata la rivoltella di cui avete parlato, come la mettiamo?
– Sono sicuro che Palaia aveva in tasca una rivoltella. La vidi luccicare sebbene egli non sia riuscito ad estrarla… non so perché non è stata trovata…
– Abbiamo fatto delle indagini e non risulta che sia avvenuta la rissa che ci avete raccontato…
– Eppure il fatto è vero…
Da tutto il complesso delle indagini, la Procura crede di avere acquisito elementi sufficienti a chiedere il rinvio a giudizio di Bruno Verbaro per rispondere di omicidio premeditato, porto abusivo di pugnale e detenzione abusiva di rivoltella.
L’8 luglio 1926, praticamente un anno dopo i fatti, la Sezione d’Accusa accoglie parzialmente la richiesta, escludendo l’aggravante della premeditazione.
La causa si discute un anno dopo, l’8 agosto 1926 davanti alla Corte d’Assise di Reggio Calabria e non ci sarà tra i testimoni Concetta Nucera, la Carabiniera, purtroppo deceduta.
Il dibattimento dura una sola udienza e la Corte, letti gli atti ed ascoltati i testimoni e le parti, conclude: considerato che il 20 luglio 1925 Palaia Vincenzo riportò la morte per un colpo di pugnale infertogli col fine di uccidere da Verbaro Bruno; considerato che il fatto esaminato costituisce il reato di omicidio volontario che porta la pena da anni 18 ad anni 21 di reclusione, crede equo, per le modalità del fatto, applicare la pena di anni 19 di reclusione. Tale pena va ridotta di un sesto per l’età dell’imputato, maggiore degli anni 18 e minore degli anni 21 e poi di un altro sesto per le attenuanti generiche concesse, riducendosi così ad anni 13, mesi 2 e giorni 10 di reclusione, oltre alle spese, ai danni e alle pene accessorie.
Il 4 aprile 1928 la Suprema Corte di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso di Bruno Vergara. [1]
[1] ASRC, Atti della Corte d’Assise di Reggio Calabria.