IL CUGINO AVVOCATO

La sera del 9 marzo 1931 il trentenne avvocato Nicola Catania rientra a casa a Mileto e dopo aver cenato con i familiari, verso le 21,30, dalla stanza da pranzo va nell’attigua cucina e apre per intero una porta – balcone al fine di facilitare la fuoriuscita del fumo che indugia nella stanza. Mentre sta tornando indietro, un colpo di fucile sparato dall’esterno lo fa stramazzare a terra, praticamente già morto. Poi le urla di disperazione dei familiari.

Ai Carabinieri, immediatamente arrivati sul posto, i familiari non sanno dare alcuna informazione utile alle indagini, ma nella folla subito riunitasi davanti la casa sorge una voce che accenna a gravi ragioni di rancore esistenti tra la vittima e la famiglia Baldo, residente nella frazione Calimera. Immediatamente i militari vanno nel paesino per accertare se qualcuno dei Baldo si fosse allontanato da casa, ma trovano tutti a letto. C’è, però, una stranezza: Francesco Mercuri, il ventenne figlio del padrone dell’appartamento dove abitano i Baldo, non è ancora rientrato quantunque sia prossima la mezzanotte. Insospettiti, i Carabinieri fanno finta di andarsene e si appostano nei paraggi e quando, poco dopo, vedono il giovane rientrare, riescono a sentire i familiari dirgli che i Carabinieri lo stanno cercando e subito dopo vedono Francesco uscire di nuovo. Lo seguono fino a casa di una zia, alla quale chiede di essere ospitato per la notte e, se interrogata, di dire che è stato da lei dalla sera precedente.

Ahi! Gatta ci cova! E siccome due più due fa sempre quattro, Francesco Mercuri finisce in camera di sicurezza e con lui ci finiscono anche Antonino Baldo e le sue due sorelle Rosina e Fortunata. Interrogati la mattina dopo, tutti dicono di non sapere niente in merito all’omicidio ed è subito chiaro che Antonino e Rosina Baldo sono davvero estranei ai fatti. Diverso sembra essere il discorso per Fortunata e Francesco, che vengono trattenuti e interrogati parecchie volte.

Ma perché la voce pubblica ha messo in giro la storia dei gravi rancori dei Baldo, soprattutto della ventisettenne Fortunata? E cosa c’entra Francesco Mercuri? È il caso di tornare indietro di qualche anno per scoprirlo e, intanto, è bene sapere che tra la famiglia Catania e la famiglia Baldo ci sono rapporti di parentela abbastanza stretta e di assidua frequentazione, almeno fino ad un certo punto e ciò non a causa del tracollo finanziario dei Baldo.

Nel 1925, dopo conseguita la laurea in Giurisprudenza, Antonio, tornato a Mileto, prese a frequentare con assiduità la casa dei cugini e dopo non molto tempo svelò a Fortunata il suo amore, ricambiato, per lei. Tutto procedeva nel pieno rispetto delle regole e senza che nessuno avesse sospetti sulla sempre più assidua presenza di Nicola in casa dei cugini, ma nei primi del 1926, un giorno che Fortunata era da sola a casa perché malaticcia, Nicola la obbligò a congiungersi carnalmente con lui. Da quel giorno i congressi carnali continuarono con frequenza, senza opposizione da parte di lei, che viveva fiduciosa nelle ripetute promesse di matrimonio. Fortunata restò incinta e Nicola provò in tutti i modi, senza riuscirci, a farla abortire e così, la notte del 21 marzo 1927, assistita dalle sorelle Rosina e Maria, ed alla presenza di Nicola, Fortunata partorì un bel bambino del quale, dopo averlo avvolto in una federa di guanciale, si impossessò il padre che lo portò via. Dopo tante insistenze Nicola disse a Fortunata di aver affidato il bambino alle cure di una contadina e poi, dopo qualche mese, che il piccolo era morto di ernia. Passato qualche tempo dal parto, però, Nicola cominciò a diradare le sue visite, fino a che abbandonò Fortunata (senza dote per il tracollo finanziario del padre, che ne morì, presto seguito dalla madre), al suo destino e si fidanzò con un’altra cugina, la ricca Adelaide. Fortunata non voleva arrendersi e gli scrisse molte lettere per implorarlo di tornare da lei e sposarla, per come si era impegnato, ma Nicola nemmeno le rispose. Poi si rivolse agli amici di Nicola ed anche al Vescovo di Mileto, che le rispose di non ritenere conveniente per lui esplicare quell’incarico, ma anche questo fu vano, Nicola era irremovibile nella decisione di sposare Adelaide e la data delle nozze si avvicinava inesorabile.

In tutto questo, ed in più l’atroce sospetto di Fortunata che Nicola abbia potuto disfarsi della creaturina sopprimendola, consistono le gravi ragioni di rancore dei Baldo di cui parla la voce pubblica, ma è più corretto dire che sono le ragioni di Fortunata.

Ed è da queste gravi ragioni che partiamo, per arrivare alla sera del 9 marzo 1931. Vediamo.

Nel mese di settembre del 1930 Antonino Baldo da Mileto si trasferì con la sorella Rosina a Calimera, ove aveva ottenuto la gerenza di quell’Ufficio Postale, e prese in fitto una stanza in casa del contadino Antonio Mercuri, il quale aveva in casa un figlio ventenne, Francesco, che faceva il cocchiere. Ben presto i loro rapporti divennero cordiali e tali si mantennero anche quando, dopo poco, col Baldo si recò a convivere anche la ventisettenne sorella Fortunata, che era stata nominata supplente nello stesso Ufficio Postale e Francesco Mercuri non esitò a svelarle la simpatia per lei. Un giorno la sorprese piangente, volle saperne il motivo ed ella gli riferì la seduzione e l’abbandono da parte del cugino avvocato, proponendogli di uccidere costui, con la promessa di sposarlo a cose fatte. Mercuri accettò la proposta e da quel momento fu conchiuso il pactum sceleris, la cui esecuzione fu rimandata a quando Mercuri lo avesse ritenuto più opportuno, cioè dopo avere organizzato tutto nei minimi particolari. Intanto entrambi, che conoscevano bene le adiacenze di casa Catania, convennero che il luogo più adatto per l’esecuzione era il vicoletto cieco di fronte alla casa, da dove si sarebbe potuto sparare e quindi dileguarsi per la campagna. E se il vicoletto era il posto migliore, l’arma da usare avrebbe dovuto essere necessariamente un fucile, arma che Mercuri aveva in casa, ma che prudenza sarebbe stato meglio non usare. E allora che fare? Ricordò di avere visto nel mulino di Francesco Restuccia un fucile a retrocarica, calibro 16, ed una notte, in compagnia del suo amico Salvatore Monteleone, se ne impossessò. E le cartucce? Nessun problema, Fortunata gli diede 5 lire per comprarle, poi di notte nascose l’arma dietro una siepe nei pressi di Mileto. Adesso era tutto pronto, bisognava solo aspettare il momento giusto.

È la sera del 9 marzo, Francesco si sporge nelle stanze dei Baldo e dice a Fortunata:

Vado a Mileto

Andate e state attento – gli risponde, avendo capito il motivo del viaggio.

Arrivato nelle vicinanze di Mileto prende il fucile, lo smonta e se lo nasconde sotto la giacca, quindi, favorito dalle tenebre, si inoltra nel vicoletto deserto e buio, apre il cancello che permette l’accesso nella retrostante campagna, monta il fucile e lo carica con due cartucce a pallettoni, poi si mette in attesa e per ingannare il tempo fuma una sigaretta. Poco dopo vede l’avvocato rientrare a casa in compagnia del fratello e decide che non è il caso di sparare adesso per non colpire entrambi. Dal suo nascondiglio sente venire dalla casa voci allegre e rumore di piatti. Stanno cenando. Dopo una mezzoretta vede aprire la porta interna che immette nella cucina, proprio davanti al suo nascondiglio, e la luce elettrica che si accende mentre entrano l’avvocato ed una persona di servizio che parlano tra loro. Appena la persona di servizio si allontana, l’avvocato si mette al centro della porta finestra. È il momento giusto, francesco punta il fucile verso il torace e la testa e spara. Il rinculo dell’arma gli fa perdere il momento esatto in cui Nicola Catania cade a terra colpito a morte, poi lo vede immobile a terra e sente le urla dei familiari che accorrono in cucina. Deve scappare. Attraversa il cancello aperto in precedenza e si avvia per la campagna verso Calimera, abbandonando il fucile in un campo di fave.

Ora possiamo tornare nella caserma dei Carabinieri di Mileto per capire, se dopo i primi dinieghi Fortunata e Francesco ammetteranno le proprie responsabilità. Sì, confessano esattamente come sono avvenuti i fatti e ciò che li ha spinti a sopprimere l’avvocato Nicola Catania. Nei guai finisce, però, anche Salvatore Monteleone per complicità nell’omicidio e correità nel furto del fucile. Monteleone ammette il furto, ma nega di sapere che il fucile sarebbe poi servito per l’omicidio.

Ma quando l’istruttoria sta per essere chiusa, Fortunata ritratta e dice di non avere istigato Francesco Mercuri a commettere il delitto. Messa a confronto con l’esecutore materiale, costui le contesta:

Io non avevo alcun motivo personale per uccidere l’avvocato.

E Fortunata non può che ammettere:

– Sì, è vero, sono stata io l’ispiratrice del delitto

Il 17 gennaio 1932 il Giudice Istruttore rinvia al giudizio della Corte d’Assise di Catanzaro Francesco Mercuri per rispondere di omicidio premeditato, porto abusivo di fucile, omessa dichiarazione dell’arma e correità in furto qualificato; Fortunata Baldo di correità in omicidio premeditato per avere istigato Mercuri a commetterlo; Salvatore Monteleone di correità in furto qualificato, prosciogliendolo dall’accusa di correità in omicidio premeditato.

La causa si discute il 27 ottobre 1933 e Fortunata, interrogata, ritorna a sostenere che Francesco Mercuri ha agito per sua spontanea determinazione, mosso unicamente da un sentimento di pietà per le sventure di lei. La Corte obietta che questa ritrattazione è tardiva, ispirata dal fine di attenuare la responsabilità di Mercuri e quindi non può essere presa sul serio. Poi, letti gli atti ed ascoltati i testimoni e le parti, osserva: la Baldo, nel pieno possesso della capacità di intendere e di volere e con volontaria e cosciente determinazione, decise l’uccisione del suo seduttore e non potendo o non credendo opportuno eseguirla di persona, comunicò il suo proposito criminoso al Mercuri, che lo fece proprio e lo eseguì nell’esclusivo interesse della Baldo. Costei è stata, quindi, la causa efficiente del delitto in quanto senza le sue istigazioni ed i suoi eccitamenti non sarebbe sorto nell’esecutore materiale la risoluzione e la volontà di commetterlo. Però, continua la Corte, si deve riconoscere che la responsabilità della Baldo dev’essere molto attenuata perché non può seriamente negarsi che per lei l’unico movente del delitto sia stata la seduzione, seguita dal parto, dall’occultamento del neonato ed indi dall’abbandono. Allora ella, vedendo svanita ogni speranza, nell’intensità del suo dolore, concepì il disegno criminoso ed indusse Mercuri ad attuarlo, promettendogli di sposarlo.

Da questo momento il processo contro Fortunata Baldo si trasforma nel processo contro Nicola Catania ed a questo proposito la Corte sostiene: in periodo istruttorio i congiunti dell’ucciso hanno vivamente negato che costui avesse avuto intime relazioni con la Baldo, asserendo invece che fin dal 1923 amava la cugina Adelaide, verso la quale mantenne sempre inalterato il suo affetto, che sperava di coronare col matrimonio. Ma se ciò è vero, una luce più fosca si proietta sulla figura morale del Catania perché dall’istruttoria e dal dibattimento emergono prove inconfutabili sulla verità di quanto la Baldo ha affermato contro costui, cioè lettere e fotografie con frasi e dediche affettuose scritte da Nicola Catania, sequestrate all’imputata e riconosciute autentiche dal fratello della vittima, che riconosce per autentica anche la dedica scritta su una memoria difensiva a stampa donata da Nicola a Fortunata, redatta per una causa da lui discussa: “A te, perché tu possa accompagnarmi col pensiero nell’ascensione per il raggiungimento del mio ideale. Nicola”. Ma se questi documenti possono far pensare soltanto ad un amore puro, la prova sicura dell’intimità dei rapporti si rinviene nella dichiarazione precisa e particolareggiata del dottor Nicola Cortese, intimo amico del Catania: nell’ottobre o novembre del 1926, Catania lo pregò di visitare una parente che desiderava sapere, in tutta sicurezza, se fosse o meno incinta. Cortese la visitò e la trovò incinta al terzo o quarto mese. Poi, nel marzo 1927, una mattina presto Catania lo andò a trovare a casa e, in preda a grande agitazione, lo pregò di accorrere perché quella sua cugina visitata in precedenza si stava dissanguando. Cortese accorse in casa Baldo e trovò Fortunata, distesa sopra un divano, mentre dai suoi genitali usciva del sangue e dalla vagina pendeva un pezzo di cordone ombelicale. Il medico allora estrasse una placenta perfettamente sviluppata, applicò dei punti di sutura ad una lacerazione al perineo ed in tal modo accertò che Fortunata aveva poco prima partorito a termine. Ritornò il giorno seguente con Catania e dopo una settimana fece la terza ed ultima visita alla puerpera. In seguito Fortunata gli scrisse ripetute lettere lamentando che Nicola aveva mutato contegno verso di lei e pregandolo d’interporre l’opera sua ed egli non mancò di esortare l’amico a riparare il male fatto alla cugina, ma Catania gli rispose: “Non le dare retta, lasciala perdere!”. Un giorno la Baldo andò di persona a casa del Cortese, dicendogli che se Nicola Catania non avesse sposato lei, non avrebbe dovuto sposare altra donna e quando vide che il dottor Cortese non era riuscito ad indurre il cugino a ritornare da lei, chiese l’ausilio del Vescovo di Mileto, S. E. Paolo Albera, al quale rivelò la seduzione e lo sgravo, pregandolo di adoperarsi presso la famiglia di Adelaide affinché il matrimonio non si celebrasse e poiché il Vescovo le disse di non ritenere conveniente per lui quell’incarico, Fortunata lo pregò di farla ricoverare in qualche istituto di religiose. Il Vescovo scrisse a qualche istituto, ma poiché non poté nasconderne i precedenti morali, il desiderio della Baldo rimase inesaudito. Allora Fortunata scrisse tre lettere al cugino e gliele mandò tramite Francesco Mercuri e non ottenendo risposta concepì il proposito del delitto nel quale persistette fino all’esecuzione compiuta da Mercuri. Quindi non può dubitarsi della riprovevole condotta tenuta dal Catania verso la Baldo.

Durante il dibattimento viene fuori un brutto fatto: il 26 luglio 1930, mentre alcuni operai stavano demolendo una vecchia chiesa di Mileto, sotto il tetto venne rinvenuto lo scheletro di un neonato, del quale però non fu possibile accertare neanche il sesso. Il sospetto fu che potesse trattarsi della creatura partorita da Fortunata, ma ovviamente non fu possibile accertarlo.

Accertata, invece, la responsabilità di Fortunata, per la Corte è arrivato il momento di tirare le somme: se questi, come non è lecito dubitare, sono i fatti costituenti l’unica causale che ha indotto la Baldo al delitto, non può esitarsi a riconoscere che ella agì nello stato di provocazione grave. La sedotta abbandonata ha sempre una speranza finché esiste la possibilità della riparazione, ma questa speranza si dilegua per sempre con la certezza del matrimonio del seduttore con altra donna. Questo evento, che rappresenta l’irreparabile definitivo, rende sempre più intensa quella depressione psichica che è effetto del prolungato dolore e l’ira repressa divampa ed esplode nel delitto. Da queste premesse discende che deve escludersi, nei riguardi della Baldo, l’aggravante della premeditazione. Riguardo alla pena, gli ottimi precedenti penali dell’imputata e tutte le circostanze rilevate, consigliano di infliggere il minimo della pena, cioè anni 18 di reclusione, diminuiti ad anni 6 per la concessa attenuante, oltra alle spese, ai danni ed alle pene accessorie.

Adesso è il turno di Francesco Mercuri, senza alcun dubbio autore materiale dell’omicidio. Dalla sua confessione emerge chiaro che agì in condizioni di normale capacità di intendere e di volere per attuare una determinazione che, quantunque fatta sorgere in lui dalla Baldo con la promessa di matrimonio, era sempre libera e cosciente. Ed uccise, in piena libertà di volere e con la coscienza dei mezzi e del fine da raggiungere, per ottenere il premio del matrimonio con la Baldo. La cura con cui ha studiato il delitto, con cui si è fornito dei mezzi necessari per consumarlo, la calma e la continua riflessione per circa un mese in attesa dell’occasione propizia per attuarlo, quel cinismo, quella spietata risoluzione, quell’animo sordo ai più elementari sensi di socievolezza non possono far dubitare della sussistenza dell’aggravante della premeditazione.

Ma come, se la Corte ha escluso la premeditazione per Fortunata, la mente dell’omicidio, perché adesso la contesta a Francesco Mercuri? Perché questa aggravante viene posta a carico del Mercuri come circostanza sua personale. E spiega: anche la Baldo ha partecipato alla preparazione del delitto, ma per le speciali condizioni psichiche di lei questo fatto non costituisce aggravante nei suoi riguardi, mentre ciò non si verifica per Mercuri che rimane, quale egli stesso si è sempre proclamato nel processo, un sicario che ha compiuto il delitto nell’esclusivo interesse altrui, nella lusinga di effettuare, come prezzo del suo misfatto, il matrimonio con colei nell’interesse della quale agiva. Egli ha operato non nel bollore di una passione amorosa per la Baldo o per generoso senso di pietà per le sventure di lei, ma per calcolo utilitario. Lo affermò egli stesso in un interrogatorio: “Io sono un cocchiere, appartengo ad una famiglia di contadini e, lusingato dall’idea di essere sposato da una signorina civile, che era anche supplente postale, mi lasciai illudere e promisi che l’avrei fatta felice…”. In più fu egli stesso che qualche sera prima del delitto, avendo incontrato un suo amico, gli confidò di essere fidanzato, aggiungendo che dopo il matrimonio avrebbe acquistato un cavallo e un carrozzino e se l’amico avesse voluto fare il cocchiere presso di lui, egli ben volentieri l’avrebbe assunto al suo servizio. Solo il calcolo utilitario, dunque, indusse Mercuri ad accettare ed eseguire il mandato criminoso, non la passione amorosa e molto meno la pietà. Questi rilievi chiariscono come non possa competere a Mercuri alcuna attenuante. Ma la Corte, tenendo conto dei suoi buoni precedenti penali, ritiene equo infliggergli il minimo della pena stabilita, cioè anni 25 di reclusione, oltre alle spese, ai danni ed alle pene accessorie.

Per finire, la Corte, visti i buoni precedenti penali di Fortunata Baldo e Francesco Mercuri, applica il R.D. 5 novembre 1932, N. 1403 e dichiara condonati anni 5 della pena inflitta a Mercuri e anni 3 a Fortunata Baldo.

Ah! Stavamo per dimenticare che c’è un altro imputato, Salvatore Monteleone, accusato in correità con Mercuri del furto aggravato del fucile usato per l’omicidio. Per la Corte ci sono seri dubbi che il furto possa considerarsi aggravato e perciò, siccome il furto semplice è punito con pena non superiore ad anni 3 di reclusione, rientra nel R.D. 5 novembre 1932, N. 1403 e viene dichiarato estinto per amnistia.

La Suprema Corte di Cassazione, l’11 aprile 1934 rigetta il ricorso proposto da Francesco Mercuri.[1]

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Catanzaro.