PIETRO MANCINI, LETTERA AL DUCE di Matteo Dalena

 Solo, malato e guardato a vista nella desolata Nuoro, Pietro Mancini – primo deputato socialista delle Calabrie – scrive «A S. E. il Primo Ministro Benito Mussolini» parole di grande umanità. E’ il 20 aprile del 1927 e l’avvocato di Malito, duramente provato da cinque mesi di confino, si rivolge direttamente a Benito Mussolini chiedendo la revoca del provvedimento. L’antifascista  Pietro Mancini non rinnega le proprie idee, chiede soltanto di poter tornare a casa dai propri cinque figlioli. Cos’era successo?
 
QUANNU VENA MANCINI |
Cosenza, 18 Novembre 1926. Il leader socialista è dietro le sbarre delle carceri giudiziarie in attesa di ricevere dal prefetto, Agostino Guerresi, il foglio di via con la propria destinazione di confino. Il manganello fascista ha suonato nuovamente. Non più irruzioni episodiche come nel 1924, affidate a quei perdigiorno della squadraccia “La Disperata” – bastardi senza gloria al servizio della federazione – ma vere e proprie operazioni di polizia autorizzate dal Ministero dell’Interno. Per i fascisti Pietro Mancini è un porco e va semplicemente messo a tacere. Arrestarlo e confinarlo non basta, va suonato come una zampogna. Sono mesi che un motivetto risuona per le strade di Calabria, fischiettato da individui in camicia nera, convinti che l’eliminazione dell’avversario passi innanzitutto dalla demolizione della pubblica figura. Dall’annichilimento della persona. Un motivetto semplice e arrogante che pesca nella libellistica mafiosa:
«Quannu vena Mancini
le tagliamu lu villicu
lu mintimu intra n’a vara
dicimu ch’è muartu nu maiale».

 

 

A pubblicarlo è Il Nuovo Mondo, giornale fondato a New York nel 1925 da Frank Bellanca, punto d’incontro tra antifascisti italiani e italo-americani, la cui mission è di «unificare la vasta galassia dell’opposizione al regime che aveva mostrato la difficoltà di riunire le varie anime del movimento antifascista»[1].
Ancora ho nelle narici il fetore della canea fascista gridante per tutti i paesi della Calabria. Mi ha sorpreso come egli [Pietro Mancini, nda] sia sopravvissuto tanto era l’odio profondo tra lui e Michele Bianchi il quale pubblicamente ne chiedeva la testa sulla piazza di Malito».
L’arresto dell’avvocato Mancini è rapido e violento. Sorpreso di notte nel suo domicilio a due passi dal Regio Liceo, «dopo essere bastonato a sangue dalla teppa tricolorata fu tradotto al Comando della Milizia Nazionale». Il passo successivo è la confisca dei beni, seguita dalla «dismissione per indegnità» dall’insegnamento di filosofia e dal fermo di alcuni suoi familiari residenti a Malito. La notizia arriva a New York, messa in risalto nel giornale di Bellanca con un emblematico: «Arresti e bastonate in Calabria». L’estensore del pezzo che pone il calce solo una lettera “A”, spera vivamente nell’azione di chi, clandestinamente, è riuscito a varcare le frontiere: «L’aria è satura di elettricità, necessita la scintilla che infiammi la polveriera e che i più aspettano dall’azione dei fuorusciti in Francia, Svizzera ed America».

 

Il Prefetto di Cosenza Agostino Guerresi
L’AVVOCATO DI MALITO |
Pietro Mancini ha cinquant’anni quando riceve dalla Prefettura di Cosenza il foglio d’assegnazione al confino di Nuoro. Per il prefetto Guerresi, Mancini è un «individuo che tende a sovvertire violentemente gli ordinamenti nazionali, sociali ed economici dello Stato, a menomare la sicurezza ed ostacolare l’azione dei poteri costituiti». Mancini non ci sta, contesta il “violentemente” e ribatte, punto per punto, cercando di ottenere la revoca del provvedimento:
Il ricorrente è assolutamente incensurato per qualsiasi fatto o manifestazione politica avente comunque carattere di reato o di violenza […] La legge attuale non può consentire interpretazioni od applicazioni esclusive.
Il ricorso viene respinto. Questore e procuratore del Re sottoscrivono la condanna a 5 anni di confino. Pietro Mancini è il massimo esponente del partito socialista massimalista in provincia e soprattutto in città, fondatore della prima sezione nel 1904. Nelle carte di polizia Mancini è descritto come il punto di contatto tra tutti i sovversivi della provincia «che eseguivano poi ordini ricevuti». L’avvocato di Malito colpisce soprattutto con la penna. «La parola socialista», periodico da lui fondato nel 1905, è la spina nel fianco dei fascisti. Sono duelli senza esclusione di colpi con Calabria fascista, organo della federazione, fino alla sospensione delle pubblicazioni fra il 1925 e il 1926 per effetto della legge sulla stampa. Nel 1924 il vile incendio alla camera confederale del lavoro e l’omicidio del muratore antifascista della Massa, Paolino Cappello, sono per Mancini atti efferati di violenza e negazione della libertà. Prova ad inchiodarli in tribunale, portando gli assassini di Cappello alla sbarra, ma dopo una prima sentenza di condanna a Catanzaro, in una Castrovillari cinta d’assedio dalle camice nere vengono tutti assolti[2]. Poi la politica. Quello stesso anno, nel mese di giugno, era stato il deputato calabrese più votato, infliggendo una sonora sconfitta al quadrumviro Michele Bianchi. Un uomo scomodo, insomma, da relegare nella più remota Sardegna. Mancini non se la passa troppo bene: «Conduce vita appartata – scrive nel marzo del 1927 il prefetto Disole – scevra da relazioni con persone diverse da quelle di qualche compagno di confino». 

 

LETTERA AL DUCE |
L’avvocato Mancini è malato. Affetto da oppressione al petto e cardiopalma «la continuazione del regime di confino gli potrebbe essere di grave pregiudizio per la sua salute», attestano i medici. Pur rispettoso nei confronti delle autorità delegate alla sua personale sorveglianza, «non risulta però che abbia modificato le sue tendenze politiche», scrive il prefetto di Nuoro. Così, fiaccato nel fisico e nell’animo, Pietro Mancini decide di rivolgere direttamente al Duce, poche righe di grande intensità:
A
S. E. il Primo Ministro
Benito Mussolini
Roma
Con la coscienza di non aver mai compiuto – qualunque possa essere il mio pensiero politico – atti contrastanti i superiori interessi della Nazione ed in condizioni di salute tali che la vita di confino potrebbe – come fa fede l’unito certificato – essermi di irrimediabile danno, sento il dovere per tutte le responsabilità che mi derivano dall’aver moglie e cinque figlioli in tenera età, di rivolgermi con fiducia alla S. V. Ill. perché possa ritornare alla mia famiglia e dedicarmi al mio lavoro professionale.
Con osservanza.
Nuoro, 20 Aprile 1927
Pietro Mancini
Le parole sortiscono l’effetto sperato. Cinque giorni dopo il Capo di Gabinetto del Primo ministro scrive che «S. E. il Capo del Governo ha espresso a riguardo parere favorevole».
Pietro Mancini vede se pur «condizionalmente» la libertà.
Di nuovo al confino a Gaeta nel il 1929, nel 1943 Pietro Mancini viene nominato dagli Alleati Prefetto della città di Cosenza. Nel 1944 assume la carica di Ministro senza portafoglio del secondo governo Badoglio. Nel 1946 fa parte della Commissione dei settantacinque che formulano lo schema della Costituzione, lavorando nella prima sottocommissione.
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Per approfondire:
Archivio del Senato della Repubblica, Fondazione Giacomo Mancini, Subfondo Pietro Mancini Archivio Centrale dello Stato, Casellario Politico Centrale

 

 

[1] Cfr. J. P. Diggins, L’America Mussolini e il fascismo, Laterza, Bari 1972, p.72
[2] Nel 1945 la Suprema corte di cassazione di Roma annullerà la sentenza del Tribunale di Castrovillari e nel 1946 gli imputati avranno accesso all’amnistia Togliatti.

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