DUE COLPI DI ARMA LUNGA

– Dunque… una ferita da arma da fuoco lunga sulla metà destra dell’addome del maggior diametro di centimetri sette con fuoriuscita di una massa di anse intestinali e con molti forami della grandezza di un cece – detta il medico legale al cancelliere mentre esamina il cadavere di Francesco Chilelli, trovato ucciso la sera del primo aprile 1933 in contrada Castagna di Fiumefreddo Bruzio, a poca distanza dalla sua casa. Poi il medico continua –. La regione scapolo omerale destra presenta altri numerosi forami simili ai primi, disposti a rosa, del maggior diametro di circa sette centimetri. La morte è dovuta alla rapida ed imponente emorragia addominale, determinata dalla lesione dei grossi vasi del fegato, con vasto spappolamento dello stesso. Entrambe le lesioni sono state prodotte da colpi di arma lunga da fuoco caricati con grossi pallini da caccia, esplosi a una distanza non superiore a dieci metri.

Chi può avere avuto interesse ad uccidere Francesco Chilelli, da tutti ritenuto un giovane buono che non aveva nemici? I Carabinieri interrogano Palma Miceli, la giovane vedova, che racconta:

Prima del nostro matrimonio, avvenuto un mese e mezzo fa, il 25 febbraio 1933, ero stata corteggiata da Ernesto Jorio il quale, un mese prima delle nozze mi incontrò e mi disse “Tu sposi Chilelli, ma io non te lo faccio godere!”. Posteriormente Jorio mi ha ripetuto le minacce a mezzo di Vincenzo Addentato con questa frase: “Sposi pure Chilelli, ma io non glielo faccio godere più di un mese!”.

Parole, queste, confermate anche dal padre della giovane, che costituiscono un indizio gravissimo in base al quale i Carabinieri procedono al fermo di Ernesto Jorio, ma devono rimetterlo subito in libertà perché il sospettato dimostra senza ombra di dubbio che egli, nell’ora e nel giorno in cui il delitto si ritiene commesso, ore 20 del primo aprile 1933, si trovava nell’abitato di Fiumefreddo. Continuando ad indagare, i Carabinieri vengono a conoscenza che Giuseppe Miceli, cognato della vittima, aveva motivi di odio perché, sposando la sorella, aveva agevolato il proposito fatto dal padre di diseredarlo. Come? Bisogna indagare sui rapporti familiari. Saverio Miceli, padre di Giuseppe e di Palma, era proprietario di un unico appezzamento di terra in contrada Castagna, ma poiché aveva tredicimila lire di debiti voleva pagarli, salvando nel contempo la terra. All’uopo profittò del proposito di suo figlio Giuseppe di sposare Raffaela Lenti, la figlia adulterina di suo fratello Alessandro. Sebbene non fosse entusiasta di questo matrimonio, ciò nondimeno prestò il consenso perché il fratello aveva promesso di dare diecimila lire in dote alla figlia. Poco tempo dopo, però, Alessandro, assumendo di non avere denaro disponibile, non volle più sapere di dare alla figlia adulterina la dote promessa. Nonostante questo intoppo, Saverio acconsentì al matrimonio a condizione che gli sposi andassero a convivere con lui, ma né il fratello Alessandro, né il figlio Saverio accettarono la condizione e i due giovani si sposarono lo stesso, andando ad abitare in casa di Alessandro. Da qui la rottura completa dei rapporti tra le due famiglie. Intanto Saverio, assillato dal desiderio di pagare i debiti, vendette per settemila lire la parte boscosa del suo terreno, estesa circa quattro tomolate, e la rimanente parte per cinquemila lire a Francesco Chilelli, nonno dell’ucciso, il quale volle che dall’atto di compravendita fosse risultato come acquirente il nipote, nel frattempo fidanzatosi con Palma.

In paese qualcuno sussurra di una minaccia fatta da Giuseppe alla sorella Palma, del tutto simile a quella che alla giovane avrebbe fatto l’ex pretendente: “Se mio padre dà tutto a mia sorella, non le farò godere il marito più di un mese!”.

In base a questi elementi si procede all’arresto di Giuseppe Miceli e di suo zio (nonché suocero) Alessandro Miceli i quali si dichiarano estranei ai fatti e non arretrano di un millimetro dalla loro posizione. Alla fine dell’istruttoria, l’8 maggio 1934, i due vengono rinviati al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza per rispondere di concorso in omicidio premeditato.

La causa si discute il 23 ottobre 1934 e la Corte, letti gli atti ed ascoltati i testimoni e le parti, osserva: innanzi tutto la causale del delitto (l’odio verso la vittima che avrebbe, col matrimonio, agevolato il proposito fatto dal padre di diseredarlo), sostenuta strenuamente dalla Procura e dalla Parte Civile, è destituita da ogni fondamento, se per poco si consideri che i debiti di Salvatore Miceli assorbivano completamente il valore del fondo e, conseguentemente, il figlio non poteva assolutamente pensare che il padre avesse effettuato le due vendite per diseredarlo, anche perché la vendita dell’intero fondo fu proposta prima allo zio Alessandro ed indirettamente a lui in vista del matrimonio con la figlia di costui e se ciò non si verificò fu unicamente per colpa dello zio, che si rifiutò di sborsare il prezzo pattuito. Ad ogni modo, la pacificazione tra padre e figlio era avvenuta, tanto che quest’ultimo passò nella casa paterna la vigilia del Natale 1932. Venuta meno la causale, tutti gli altri elementi raccolti sono equivoci e contraddittori e non possono, perciò, costituire quella prova concreta, seria e precisa, necessaria per giustificare una sentenza di condanna. Non è poi il caso di prendere in considerazione il mancato intervento di Giuseppe Miceli alle nozze della sorella, il pallore del viso in presenza del cadavere cui non rivolse, secondo alcuni testimoni, neanche lo sguardo o che guardò solo di sfuggita secondo altri ed il mancato saluto ai genitori del morto, perché sono elementi molto equivoci, trattandosi di manifestazioni dell’animo, determinate da cause molteplici e che sfuggono ad una valutazione obbiettiva e serena.

Poi un’affermazione che avrebbe dovuto far venire in mente altre domande: la Parte Civile infine, a completamento della prova raccolta a carico degl’imputati, ha sostenuto il fallimento completo dell’alibi da essi offerto, ma neanche ciò è esatto perché non è stato possibile accertare né l’ora precisa in cui il delitto venne commesso, né la distanza che intercede tra il punto in cui il cadavere è stato rinvenuto e la casa degl’imputati. Da alcuni l’esplosione fu udita verso le ore venti, da altri verso le ore venti e mezza e da altri, infine, verso le ore ventuno e anche più tardi. Come pure la distanza da un minimo di venti minuti di cammino si porta ad un massimo di un’ora e mezza ed anche di due ore. È ovvio che con dati così imprecisi si peccherebbe per lo meno di leggerezza se si affermasse senz’altro che l’alibi è venuto meno.

Le altre domande che gli inquirenti in periodo istruttorio si sarebbero potuti e dovuti porre? Una su tutte: in presenza di orari e distanze così approssimativi, come mai non è stata approfondita la posizione di Ernesto Jorio, il primo sospettato, che dimostrò di essere a Fiumefreddo alle 20,00 del primo aprile 1933?

La Corte ora si occupa della posizione di Alessandro Miceli e osserva che sul suo conto non esiste proprio nulla; non esiste una causale, e se egli non andò a vedere il morto il 2 aprile fu perché era ignaro del fatto, che apprese quel giorno a Falconara Albanese ove si era recato per vendere una partita di vino e se seguì il corteo funebre solo fino ad un certo punto fu perché era stanco ed aveva interesse a tornare subito a casa, per raggiungere la quale doveva percorrere un buon tratto di strada.

Le osservazioni della Corte non possono avere che un risultato: per Miceli Giuseppe gli elementi raccolti sono insufficienti per addivenire ad un’affermazione della sua responsabilità e per Miceli Alessandro non è giustificato nemmeno il dubbio, non essendo risultato a suo carico non una prova, ma addirittura nessun indizio e ordina la scarcerazione di entrambi se non detenuti per altra causa.[1]

[1] Ascz, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.