
Giovanni Ferrari, carbonaio da Terravecchia, rimane vedovo e non può badare ai figli ancora tutti bambini, tra i quali la più piccola, Agnese, ha appena tre anni ed è affetta da gravi malformazioni che le impediscono di stare in piedi. Vivono nella miseria e non avendo altre alternative Giovanni contrae un secondo matrimonio con Lucrezia Sposato. Ovviamente la situazione economica non cambia, anzi peggiora perché se le bocche da sfamare sono sempre le stesse, l’appetito dei bambini cresce col crescere dell’età e Lucrezia, che prima restava a casa per badare soprattutto ad Agnese, deve andare a lavorare nei campi lasciando i bambini abbandonati a loro stessi. E poi c’è Agnese che avrebbe bisogno di cure mediche e di attenzioni particolari, che nessuno può darle. Ad occuparsi di lei rimane la sorellina di cinque anni, dopo che Lucrezia, prima di andare a zappare, la toglie dal letto col materasso di foglie di granturco e la mette per terra su una coperta piena di pulci ed escrementi. Una situazione catastrofica destinata certamente a peggiorare e, infatti, il 22 luglio 1937 Agnese, quello scricciolo sporco e denutrito, muore.
Immediatamente dopo i nonni materni vanno dai Carabinieri e denunziano che la morte della misera creatura è dovuta ai maltrattamenti del padre e della matrigna che volevano disfarsene a causa della deformità che la rendeva inidonea a tutto e costituiva un peso per la famiglia.
I Carabinieri svolgono le loro indagini e concludono che i nonni hanno ragione, così arrestano Giovanni Ferrari e Lucrezia Sposato per avere, in correità fra loro, maltrattato la figlia Agnese, di anni 3, cagionandone la morte. Viene disposta l’autopsia e il risultato dice che la morte di Agnese è stata determinata da tossiemia renale conseguente ad infezione morbillosa. Le indagini dei Carabinieri e la diagnosi fanno ritenere agli inquirenti che sono stati gli imputati, lasciando la piccina abbandonata, senza cibo sufficiente e senza cure mediche, ad averne causato la morte e i due vengono rinviati al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza, che discute il caso nell’udienza del 23 aprile 1938. Nel frattempo gli altri bambini sono rimasti abbandonati a loro stessi
La Corte, letti gli atti ed ascoltati i testimoni e le parti, osserva: il decesso della bambina risulta avvenuto per tossiemia renale conseguente ad infezione morbillosa. Questo elemento di prova decisivo e perentorio, che non consente possibilità di altre ipotesi e di altre congetture, ha indotto lo stesso Pubblico Ministero in udienza ad escludere ogni rapporto di causa ed effetto tra il decesso ed i maltrattamenti. Non si comprende, di fatti, nel sistema della nostra legislazione positiva una responsabilità come quella attribuita al Ferrari e alla Sposato, cioè il concorso della circostanza aggravante consistente nell’evento della morte, senza l’accertamento causale coi maltrattamenti (ché in questo caso ben altra sarebbe l’ipotesi di reato), intende peraltro che l’evento sia ricollegato ai “maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli” e, nella specie, stabilita come sopra la causa della morte della bambina, è appunto tale nesso che manca e che fa quindi cadere di peso la circostanza aggravante. In punto di prova risulta che la povera creatura, nonostante i suoi maggiori bisogni di assistenza derivanti dalle minorate condizioni fisiche, veniva durante il giorno affidata alle cure insufficienti di una sorella di qualche anno maggiore e veniva scarsamente nutrita e tenuta per terra su di una lurida coperta.
Da questi elementi il Pubblico Ministero ha tratto argomento per chiedere l’affermazione di colpevolezza della sola Sposato in ordine alla minore ipotesi di reato di maltrattamenti in famiglia verso fanciulli, mentre ha ritenuto che le omissioni di assistenza alla piccola non potessero ascriversi al Ferrari, costretto dal suo duro lavoro quotidiano di carbonaio a vivere sempre lontano da casa. Se non che, pur ridotta la causa a proporzioni così modeste, la Corte è di avviso che anche per la donna sussistano gravi ragioni di dubbio circa la reità, se non per l’elemento materiale, per l’elemento intenzionale del delitto di cui viene chiamata a rispondere.
E spiega il perché della sua affermazione basandola sulla penosa situazione in cui versava la famigliola: già sui fatti che dovrebbero costituire materia di maltrattamenti potrebbe apparire lecita qualche riserva di fronte alla fonte dell’accusa proveniente dai parenti della prima moglie di Ferrari, dominati più da una forma di strano risentimento verso gl’imputati che da un sano desiderio di protezione verso la misera creatura. Difatti, sotto il controllo dell’orale dibattimento, è caduta di peso la circostanza più grave posta a carico dei due coniugi, e più particolarmente della Sposato in ordine ad un rifiuto da costei opposto di recarsi a raccogliere l’estremo anelito della creatura morente, nonostante l’invito avuto. Questo episodio che, se vero, avrebbe portato dei brutti riflessi sulla condotta della donna, parve a bella posta creato dal proposito di nuocere, così come costruzione artificiosa si appalesò l’altro elemento di accusa che, mentre la piccola moriva, i due coniugi stessero a pranzare nella casa di Vecchio Bettina, madre della Sposato. Lo ha smentito in udienza la teste Sicilia, contrariamente a quanto aveva deposto in periodo istruttorio. Comunque, attraverso l’autorevole deposizione del podestà del luogo, si è stabilito che i due coniugi vivevano in penosa povertà, dividendo con la piccola Agnese i disagi e le privazioni dipendenti da questo stato. Ciò giustifica anche l’omissione della chiamata del medico in occasione della infezione morbillosa, giacché dolorosamente emerge che, nonostante l’estrema miseria, essi non avevano diritto a visita gratuita per non essere stati iscritti nell’elenco dei poveri. In sostanza, i due imputati non potevano dare alla piccola sventurata che il pezzo di pane e qualche volta la minestra serale di cui si nutrivano, mentre il sistema di tenerla per terra su di una coperta veniva consigliato dalla necessità di evitare mali peggiori per eventuali e molto probabili cadute dal letto, data la deformità dei piedi, che non consentiva possibilità di libero movimento. Ora, se è così, la volontà cosciente di maltrattare il soggetto passivo non si coglie, senza giungere alla completa deformazione della realtà obbiettiva e quindi non si può usare alla Sposato, come il Pubblico Ministero ha chiesto, un trattamento diverso da quello invocato per il Ferrari, apparendo la posizione dei due imputati, in relazione al fatto delittuoso in esame, del tutto identica per quanto attiene all’elemento psichico: dubbio, cioè, per l’uno e per l’altra che siano stati animati dal riprovevole sentimento di provocare sofferenza alla vittima e non invece costretti ad agire in quel modo dalle accertate ristrettezze e dalle quotidiane privazioni in cui essi medesimi vivevano. La Corte, in altri termini, è rimasta perplessa sul punto se qui vi sia un delitto da punire e non piuttosto una miseria da compiangere. Vanno, perciò, entrambi gl’imputati assolti per insufficienza di prove e ordina la loro scarcerazione se non detenuti per altra causa.[1]
Purtroppo la storia di Agnese è solo una delle tante storie di bambini morti per la miseria in cui versavano le famiglie in quel periodo storico durante il quale “ha fatto anche cose buone”.
[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.