
Giovanni Zafettieri, contadino da Palizzi in provincia di Reggio Calabria, ha sposato Maria Barreca, con la quale vive in perfetta armonia per diversi anni procreando due figli. Quando nella primavera del 1938 uno dei due bambini si ammala, il medico ordina di praticargli una serie di iniezioni ipodermiche e qui nasce un problema: chi è in grado di fargliele? Detto, fatto: il suo amico Carmelo Spinella, le cui visite in casa Zafettieri diventano quotidiane. Durante i primi giorni tutto scorre liscio, ma poi Giovanni si accorge che sguardi significativi vengono scambiati tra l’amico e la moglie. Scatta nella sua mente un campanello d’allarme, che diventa una sirena spiegata quando viene a sapere che Spinella va a fare le iniezioni al suo bambino anche quando lui non è in casa e, per fugare ogni dubbio dalla sua mente, decide di parlarne con sua moglie.
– Mi sono accorto di alcuni sguardi tra te e Carmelo, non è che ha osato farti proposte galanti?
– Ma cosa vi viene in mente? Mai, mai una cosa di queste mi ha detto, ve lo giuro!
Davanti a parole nette, pronunciate con tono deciso e fiero, Giovanni si rasserena e non ci pensa più.
22 maggio 1938. Giovanni sta trasportando alcuni fasci di fieno dal pianterreno della sua abitazione al primo piano, urta inavvertitamente al marmo della cristalliera nella stanza buona, messo leggermente sporgente. Posa il fascio e alza il marmo per raddrizzarlo e qualcosa attira la sua attenzione: una busta da lettere chiusa, con sopra scritto l’indirizzo di sua suocera a Reggio Calabria. Senza dubbio la scrittura è quella di sua moglie. Cosa avrà mai avuto di tanto segreto Maria da nascondere la busta prima di spedirla? Per saperlo basta aprirla e leggere quello che, certamente, c’è scritto nel biglietto che si sente al tatto.
Già dalle prime parole che legge comincia a sudare freddo e poi a sentire un fuoco divampargli dentro:
Cara madre, ho avuto la disgrazia d’essere stata ncanata (ingannata. Nda) da un certo Carmelo Spinella. La mia disgrazia è ignorata da mio marito ma se la saprà mi taglierà la testa. Onde ti prego, madre mia, di interessarti per mettere pace od altrimenti di mandarmi lire 15 perch’io possa trasferirmi in Reggio. Mandi lire 15 più presto possibile, io sono in casa di mio suocero ma non posso stare perché se lo sa mi mmazza (mi ammazza. Nda) e il peggio è mio. Quando mi rispondi non fare capire niente di questo fatto, fa conto non sai nulla.
Tua sventurata figlia Marietta.
La lettura del biglietto è la conferma ai sospetti che Giovanni aveva avuto e aveva dimenticato dopo le parole rassicuranti di Maria. Ma la certezza di essere stato tradito e ingannato gli fa ribollire il sangue. Lascia quello che sta facendo, si mette in tasca il suo pugnale e la sua rivoltella carica, poi si mette a cercare Carmelo Spinella che, verso le quattro di pomeriggio, trova in casa del comune amico Carlo Alberti, intento a giocare a carte con altre persone. Dissimulando la rabbia e l’odio verso Spinella, anche Giovanni si mette a giocare, osservando però con molta attenzione l’atteggiamento del rivale, annotandone mentalmente i più lievi atti compiuti e le più insignificanti parole profferite, per trarne l’assoluta certezza di quanto sua moglie ha scritto nella lettera.
Ad un certo punto Carmelo dice al suo compagno:
– Per vincere due cugini cornuti ci vogliono due compari battezzati!
È una battuta di spirito che suscita l’ilarità dei presenti, ma Giovanni, in piedi di fronte a Carmelo, capisce che l’allusione ai cornuti si riferisce al tradimento di sua moglie, che indubbiamente lo ha reso cornuto. Con moto fulmineo estrae la rivoltella e scarica tutti i colpi contro Carmelo Spinella che, attinto in regioni vitali, stramazza a terra e nel giro di pochi minuti muore.
Giovanni, approfittando del fatto che tutti i presenti al primo colpo sono scappati di qua e di là, esce indisturbato e va a cercare Maria in contrada Amusa, dove l’aveva lasciata a lavorare.
Maria è nella casetta colonica e Giovanni la chiama dicendole di uscire, poi la porta in una baracca adibita a stalla, le mostra il biglietto e le dice:
– E questo?
Maria si fa bianca come un lenzuolo e comincia a tremare mentre, singhiozzando, risponde:
– È vero purtroppo… perdonami… perdonami!
Non c’è perdono, non c’è pietà. Giovanni estrae il pugnale, guarda con gli occhi iniettati di sangue Maria, ormai rassegnata al proprio tragico destino, e le vibra quattro tremendi colpi alla schiena, uccidendola all’istante. Poi sputa a terra e va a costituirsi nelle mani dei Carabinieri di Locri.
– Ho agito in stato d’ira e di accecamento per l’offesa subita nell’onore – si giustifica Giovanni e questa versione la manterrà costante.
Gli inquirenti vogliono essere sicuri che la lettera sia stata veramente scritta da Maria e ordinano una perizia grafologica in merito, così la grafia del biglietto viene confrontata con l’unico altro scritto di Maria: le sue due firme apposte sull’atto di matrimonio. Il parere dei periti è che il biglietto è autentico e questo è un punto a favore dell’imputato, che però, il 5 ottobre 1938, viene rinviato al giudizio della Corte d’Assise di Locri per rispondere di duplice omicidio aggravato dalla premeditazione.
La causa si discute il 28 gennaio 1939 e la Corte, letti gli atti ed ascoltati i testimoni e le parti, osserva: sulla responsabilità del giudicabile non può sollevarsi dubbio. Ma non può dubitarsi che Zafettieri abbia agito in stato d’ira nell’atto in cui scopriva l’illecita relazione esistente tra la moglie e lo Spinella. Come si è rilevato, egli, durante il periodo in cui Spinella frequentava la sua abitazione per praticare le iniezioni al suo figlioletto ammalato, si era accorto che la moglie scambiava sguardi passionali con l’amico ed aveva cominciato a sospettare dell’esistenza della tresca tra essi. Aveva poi voluto sincerarsene interrogando la moglie ed alla risposta negativa di lei si era rasserenato, ma il rinvenimento della lettera sotto il marmo della cristalliera gli aveva apportato la quasi certezza che la relazione illecita esisteva, né poteva costituire per lui ragion di dubbio l’espressione usata dalla moglie giacché “ingannata” in dialetto ha il significato di “sedotta”, condotta a fare le voglie di taluno, indotta a concedergli i favori, cioè persuasa a cedere senza violenza. Evidentemente, se si fosse trattato di violenza, la Barreca non avrebbe mancato di lamentarsene col marito, mentre il timore di essere uccisa ch’ella manifestava alla madre, dimostrava chiaramente che ella aveva acceduto alla tresca con pieno compiacimento. La lettera fu rinvenuta alle ore 12 del 22 maggio 1938 e, se Zafettieri si fosse messo immediatamente alla ricerca dello Spinella, lo avesse rinvenuto in casa Alberti e gli avesse tirato i colpi alle ore 16, l’intervallo di sole 4 ore tra la lettura della lettera e l’esplosione dei colpi non avrebbe tolto al fatto il carattere di immediatezza che la legge richiede per l’omicidio per causa d’onore, essendo risaputo che all’immediatezza assoluta equivale l’immediatezza relativa (omicidio commesso a breve intervallo dalla scoperta, ma quando ancora perdura nell’animo dell’agente il perturbamento prodottovi dalla scoperta, quando ancora il sentimento dell’ira è vivo e pulsante). Nella specie si è in presenza di un’azione delittuosa compiuta proprio nell’atto della scoperta della relazione, infatti Zafettieri non si contentò degli sguardi, né della lettera per avere la certezza assoluta dell’esistenza della tresca, ma andò in cerca di qualche altra prova che fosse come la chiave di volta delle sue ricerche. Giuocò con lo Spinella, attese che costui uscisse in qualche manifestazione che equivalesse a confessione e soltanto quando la manifestazione si verificò (Per vincere due cugini cornuti ci vogliono due compari battezzati!), si decise a tirare contro l’avversario i colpi di rivoltella. Lo Spinella parlava di cornuto perché la presenza di Zafettieri gli presentava alla mente la figura di un marito tradito, dunque il contenuto della lettera era vero. Considerazioni analoghe valgono per l’omicidio della moglie, dalla quale ricevette la confessione con la richiesta di perdono. I due omicidi, commessi per causa d’onore, furono effetto di un’unica determinazione criminosa e perciò non possono essere considerati che come reato unico continuato. Non trova alcun riscontro nelle prove l’aggravante della premeditazione giacché il fatto fu improvviso e non venne preceduto da alcun disegno con preordinazione di tempo, luogo, modo, persona ed altre circostanze in cui avrebbe dovuto svolgersi e, tanto meno, con previsione dei mezzi ed espedienti più acconci per facilitarne l’esecuzione, sfuggire alle ricerche della Polizia Giudiziaria, assicurarsi l’impunità.
È tutto ed alla Corte non resta che determinare la pena da comminare a Giovanni Zafettieri e osserva che deve aversi riguardo ai precedenti morali e penali dell’imputato (che non sono buoni), alla speciale natura del fatto, ai motivi a delinquere, alle armi adoperate, al notevole grado di pericolosità da lui dimostrato. Tenuto conto di ciò, la Corte stima giusto partire dalla misura massima stabilita dalla legge per l’omicidio per causa d’onore, anni 7 di reclusione, raddoppiarla per effetto della continuazione ed aumentarla di un sesto per la recidiva in cui l’imputato versa. In tutto fanno anni 16 e mesi 4 di reclusione, oltre alle spese, ai danni ed alle pene accessorie.[1]
[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Locri.