LA RESTITUZIONE DEL PRESTITO

È il 25 giugno 1943 e i due amici Giuseppe Greco e Antonio Placonà entrano nella cantina di Cosimo Tocci a Cantinella di Corigliano Calabro, si siedono e cominciano a bere del vino, un bel po’ di vino. Dopo un’oretta entrano nella cantina due militari, Eugenio Caruso e Settimio Lombardi, amici dei primi due. Dopo calorosi saluti e pacche sulle spalle, i due militari sono invitati a sedersi con gli amici e Placonà dice a Greco:

– Paga tu il vino ai nostri amici!

– Non ho soldi, o paghi tu o mi presti dieci lire.

Placonà mette la mano in tasca e tira fuori le dieci lire, che Greco prende e consegna a Brigida Bruno, la moglie del cantiniere, e arriva subito un fiasco di vino. I quattro, tra grasse risate e battute varie, consumano il fiasco e, pur sapendo che Greco non ha soldi, Placonà, insiste, anzi quasi impone, che l’amico paghi un altro fiasco e alla fine Greco cede:

– Prestami altre dieci lire…

E arriva un altro fiasco. Ormai Giuseppe Greco e Antonio Placonà sono ubriachi quando quest’ultimo comincia insistentemente a chiedere indietro le venti lire prestate all’amico, che nega di dovergli dei soldi, ma forse nemmeno ricorda il debito per la mente offuscata dal vino. Da una parola all’altra Placonà molla all’amico un sonoro ceffone sul viso. Tutti si aspettano che Greco gli si avventi addosso, ma invece rimane calmo, si risiede e beve l’ultimo bicchiere di vino, poi si alza per andarsene e Placonà si alza a sua volta per facilitargli il passaggio. Quando Greco è faccia a faccia con l’amico, fulmineamente gli pianta un coltello nel petto e fa per continuare a camminare in silenzio come se non fosse successo niente, ma Placonà, anche lui senza dire una parola, gli tira un poderoso pugno in un occhio.

– Che fai? – lo rimprovera urlando Brigida Bruno che, come del resto nessuno degli altri avventori, si è accorta della coltellata.

Come, non vedete che mi ha ucciso? – le risponde Placonà mentre apre la giacca e mostra la camicia grondante sangue.

Allora il militare Settimio Lombardi si butta addosso a Giuseppe Greco, lo disarma e lo tiene fermo finché non arriva da Corigliano il Brigadiere Vincenzo Garaldi, che lo dichiara in arresto e lo porta in caserma.

Placonà, che è gravemente ferito, viene portato al Presidio Militare Corigliano per essere sottoposto alle prime cure dal Sottotenente Antonio Prestan e poi all’Ospedale, dove poche ore dopo purtroppo muore.

– Sì, è vero, l’ho colpito col coltello ma non volevo ucciderlo, eravamo amici…

– E allora perché lo hai accoltellato?

Fui spinto ad agire contro Placonà perché, pretendendo ingiustamente la somma di venti lire, quando rifiutai di dargliele mi assestò uno schiaffo ed indi, mentre mi stavo per allontanare onde evitare che le cose volgessero al peggio, mi diede un forte pugno all’occhio sinistro.

Ma tutti gli avventori e Brigida Bruno lo smentiscono e giurano che il pugno nell’occhio Placonà glielo diede solo dopo essere stato mortalmente ferito.

Chiusa l’istruttoria, il 31 marzo 1944, il Giudice Istruttore lo rinvia al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza per rispondere di omicidio volontario aggravato dai futili motivi, roba da ergastolo.

La causa si discute il 22 settembre 1944 e la Corte, letti gli atti ed ascoltati i testimoni e le parti, osserva: dalle prove acquisite durante il periodo istruttorio e nell’odierno dibattimento è accertato che il Greco inferse al Placonà quel colpo di coltello che, penetrato nel ventricolo destro, fu causa unica e certa della sua morte. L’elemento intenzionale omicida è indubbio, contrariamente a quanto vuol far credere l’imputato, perché risulta evidente dall’arma usata (acuminato coltello dalla lama lunga centimetri nove), dalla sede vitalissima colpita, dalla violenza, decisione e direzione con cui il colpo fu inferto. Se avesse avuto semplicemente l’intenzione di ferire, Greco avrebbe scelto una parte non vitale del corpo del suo avversario, una di quelle, cioè, dove non sono riposti gli organi da cui la più lieve lesione produce la morte o mette in pericolo la vita. Non può, dunque, parlarsi di preterintenzionalità dell’azione delittuosa perpetrata da Greco. A lui solo un’attenuante può accordarsi: quella dello stato d’ira determinato da fatto ingiusto altrui. Questo, in effetti, è da ravvisarsi nel contegno provocatorio dell’ucciso che, in un primo momento, quasi lo costrinse, coi suoi inviti, a pagare il vino a terzi sopraggiunti nell’esercizio ed a contrarre perciò il prestito delle lire venti e poi principalmente nell’offesa e nella mortificazione inflittagli in presenza di tutti gli avventori del locale con l’assestargli un sonoro schiaffo sul viso. Per questo e per ovvie considerazioni emergenti dal vaglio delle circostanze di fatto nelle quali si svolse il litigio tra l’imputato e la vittima, la Corte ritiene non ricorrere, nella specie, per quanto a tutta prima sembrerebbe, l’aggravante del motivo futile, la quale pertanto va esclusa.

È tutto, non resta che determinare la pena da infliggere a Giuseppe Greco: la Corte reputa congrua quella della reclusione per anni 18 (anni 21 diminuiti di anni 3 per l’attenuante dello stato d’ira), oltre alle spese, ai danni ed alle pene accessorie.

Il 19 maggio 1950 la Corte d’Appello di Catanzaro, applicando il D.P.R 23 dicembre 1949 N. 930, dichiara condonati anni 3 della pena.[1]

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.