
Giuseppe Valente, uomo debole di carattere, poco amante del lavoro e malfermo nei suoi propositi, dopo aver lavorato per qualche tempo come guardia comunale di Scandale in provincia di Crotone, entra al servizio del barone Barracco come guardiano di campi, ma anche questa nuova occupazione non lo soddisfa e dopo qualche mese si licenzia nella speranza di trovare altrove una sistemazione migliore. Ma la speranza resta tale e quando lo spettro della fame comincia a bussare alla porta, torna a capo chino dal barone che, nella generosità del suo animo, non esita a riprenderlo al suo servizio e questa potrebbe essere la volta buona per mettere la testa a posto. No, Giuseppe Valente si licenzia altre due volte, ora con la scusa della mancanza dell’acqua ed ora col pretesto che la casa è invasa dai topi.
E la fame adesso non è più solo uno spettro, ma la realtà di ogni giorno.
Nel 1928 il barone Barracco, passando da Crotone, vede in un misero vano terraneo Valente e la sua famiglia, ha pietà dei bambini, povere creature affamate, e riassume Valente affidandogli la guardiania di alcuni terreni seminati. Dopo un paio di mesi il barone, finito il raccolto nei campi, decide di tenere al suo servizio Valente, più per compiere un’opera di carità che per effettivo bisogno di mano d’opera, e gli affida la guardiania del bosco Roseto, destinato a riserva di caccia, con lo stipendio di cento ottanta lire mensili, oltre all’alloggio.
Avrà capito la lezione questa volta? Macché. Nel nuovo impiego Valente dà prova della sua massima negligenza perché, nonostante i richiami dell’amministratore di Barracco, Raffaele De Rose, e di qualche amico, si allontana molto spesso e per periodi non brevi, in modo che i carbonai ed i cacciatori di quelle contrade compiono impunemente razzie di animali e di alberi. Quando il barone, nel mese di novembre del 1931, va a caccia nella sua riserva e si rende conto personalmente dello scempio che è stato perpetrato nel bosco, ormai praticamente distrutto, va su tutte le furie e ordina all’amministratore De Rose di licenziare Valente a decorrere dal primo febbraio 1932. L’ordine viene eseguito, ma De Rose riesce a convincere il barone a concedere due mesi di lavoro in più a Valente, che nel frattempo dovrà cercarsi un altro impiego e lasciare anche la casetta nel bosco Roseto.
Visto il carattere di Giuseppe Valente, non sorprenderà che in questo lasso di tempo concessogli non è riuscito a trovare un’altra occupazione e il 31 marzo, mogio mogio, accompagnato dalla moglie Felicia Guzzo, parte dalla casetta nel bosco per andare alla villa del barone a Santa Margherita di Cutro, dove c’è anche l’ufficio dell’amministratore, per riscuotere l’ultima paga e consegnare le chiavi della casetta. Verso le sette di mattina, arrivati a circa trecento metri dalla villa, Felicia fa un cenno al marito che si ferma e la donna continua ad avanzare da sola. Chissà cosa avranno escogitato per impietosire l’amministratore De Rose e convincerlo ad aiutarli ancora!
Alla stessa ora, come di consueto, Raffaele De Rose arriva da Crotone, col suo biroccino, davanti alla villa e si prepara ad entrare nel vano terraneo adibito a suo ufficio. Felicia lo vede e lo affianca, lagnandosi del licenziamento avvenuto in momenti in cui è difficile trovare altra occupazione.
– Ho dovuto eseguire gli ordini del barone e lo sapete che ho agevolato vostro marito concedendogli una dilazione di due mesi, mentre il barone voleva che fosse stato mandato via fin da gennaio – le risponde mentre entrano insieme nell’ufficio.
Felicia resta in piedi mentre De Rose si siede alla scrivania, apre un cassetto, tira fuori un registro, prende una stilografica, un foglio e si mette a fare il conto dell’esatto dovuto. Poi prende dei soldi, li conta e li consegna a Felicia.
– Don Raffaele, la chiave della casetta di Roseto la volete? – gli chiede, facendo la gnorri.
De Rose alza gli occhi, la guarda e dice:
– Sì, naturalmente…
Felicia, invece di porgergli le chiavi le posa sul caminetto; contemporaneamente estrae dal reggipetto una rivoltella, la punta verso l’amministratore e, quasi a bruciapelo, tira il grilletto.
Clic.
Cilecca, ma la donna non si perde d’animo e non dà all’amministratore nemmeno il tempo di cercare di alzarsi dalla sedia, che gli scarica addosso altri tre colpi, il primo dei quali centra il poveruomo all’occhio destro, uccidendolo all’istante e gli altri due, ormai inutili, al torace, lasciandolo esattamente com’era: il cappello in testa, gli occhiali sul naso, la pipa in bocca e la penna stilografica in mano.
Alle detonazioni accorrono i fratelli Tommaso e Roberto Gemelli, entrambi dipendenti di Barracco, i quali si buttano addosso a Felicia, bloccandola e disarmandola.
– Che hai fatto, disgraziata?
– Ha tolto il pane ai miei figli! – risponde scoppiando in lacrime.
Ai Carabinieri, subito arrivati sul posto, Felicia dà la stessa giustificazione per il suo gesto, poi descrive l’esecuzione del delitto con impressionante chiarezza:
– Ho esploso quattro colpi, di cui il primo non partì, mentre gli altri tre colpirono il segno. Col primo colpo ho toccato l’occhio destro, col secondo il petto e col terzo la spalla.
Ma al Pretore, che la interroga il giorno dopo, racconta che il movente del delitto è un altro e non il licenziamento del marito:
– Da più tempo De Rose mi faceva proposte oscene, da me sempre respinte e da allora cominciò a perseguitare mio marito, finché ne ha provocato il licenziamento. Ieri mattina, quando mi sono lagnata del licenziamento, De Rose mi ha detto “la colpa è vostra, che non avete voluto divenire la mia amante!”. Allora io, accecata dall’ira, l’ho ucciso!
– A proposito, come mai avevate addosso la rivoltella? Avevate già deciso di ucciderlo?
– Nel partire da casa, all’insaputa di mio marito, ho nascosto nel petto l’arma col proposito di avvalermene se De Rose avesse osato ripetermi disoneste proposte.
Ecco, il marito Giuseppe Valente. Adesso l’attenzione degli inquirenti si sposta su di lui. Ha avuto una parte nell’omicidio? È possibile che fosse all’oscuro di tutto? Secondo i Carabinieri, il Pretore e la Procura, Giuseppe Valente ha determinato la moglie al delitto o, quanto meno, ne ha rafforzato la risoluzione di commetterlo e perciò lo arrestano e ne chiedono il rinvio a giudizio insieme a Felicia Guzzo.
Il Giudice Istruttore, il 30 agosto 1932, emette la sua sentenza, prosciogliendo Giuseppe Valente per insufficienza di prove e mandando davanti alla Corte d’Assise di Catanzaro Felicia Guzzo per rispondere di omicidio premeditato.
La causa si discute il 9 novembre 1933 e la Corte, letti gli atti ed ascoltati i testimoni e le parti, osserva: è certo che la morte del De Rose è stata effetto diretto ed immediato dell’azione violenta della Guzzo, che esplose contro di lui tre colpi della propria rivoltella, dopo che il primo colpo non era partito. E non può mettersi in dubbio la responsabilità penale della prevenuta in ordine al delitto, che ha sempre confessato essere il frutto della sua volontà ed il fatto è avvalorato dal deposto dei fratelli Gemelli, che erano nel vano antistante a quello ove erano la Guzzo ed il De Rose. Nulla, poi, autorizza a dubitare che l’imputata non fosse nel normale possesso della capacità di intendere e di volere, come pure è certo che ella ha agito con coscienza e volontà e ha preveduto e voluto l’uccisione del De Rose come conseguenza della propria azione, tanto più che ha descritto l’esecuzione del delitto con una impressionante chiarezza di percezione. La Corte, però, pensa di dovere eliminare l’aggravante della premeditazione perché non risulta quando sorse in lei il proposito omicida. Negli atti, infatti, non si rinviene, anteriormente al 31 marzo 932, alcuna manifestazione contro l’integrità personale del De Rose. Soltanto nel mattino di detto giorno la Guzzo appalesò i suoi sinistri propositi, quando, cioè, nel partire dalla casa nascose nel petto la rivoltella, ma questa sola circostanza appare di equivoca interpretazione, in quanto bene può essere che ella siasi armata soltanto col fine di usare una intimidazione per tentare di ottenere da De Rose la revoca del licenziamento del marito e che, quindi, la determinazione omicida sia sorta al momento della restituzione della chiave della casetta da lei abitata. Difettano, adunque, sicuri indizi sull’elemento cronologico e su quello ideologico, indispensabili per la sussistenza della premeditazione, che pertanto va eliminata.
La difesa insiste nel sostenere la tesi dell’omicidio commesso per difendersi dalle proposte oscene dell’amministratore e chiede la concessione delle attenuanti dello stato d’ira e dei motivi di particolare valore morale, ma la Corte respinge la richiesta motivando che, oltre al fatto che tutti i testi escussi hanno descritto nei termini più lusinghieri la figura morale della vittima e hanno affermato che Raffaele De Rose, ormai nella non più giovane età di anni sessantaquattro, aveva sempre tenuto un contegno sostenuto e corretto con le molte donne, di cui non poche avvenenti, senza mai dare motivo a dubitare della sua condotta di gentiluomo dedito alla famiglia ed ai doveri che il suo ufficio gli imponeva, per la tardività di questa escogitazione difensiva e per la mancanza di ogni anteriore conquesto o rivelazione, ma specialmente perché le condizioni di fatto in cui si trovarono l’imputata e il De Rose dimostrano l’insussistenza di quella asserzione. Infatti, continua la Corte, la Guzzo col marito abitavano nel bosco Roseto, distante più di due ore di cammino dalla villa di Barracco, e De Rose soltanto una o due volte all’anno si recava a cacciare in quella tenuta, sempre in compagnia del barone, come la Guzzo molto raramente si recava di persona da De Rose per riscuotere il mensile del marito. Se, quindi, si trovavano entrambi in condizioni tali da non avere frequenti rapporti tra loro, non si capisce, né l’imputata lo ha spiegato, come, quando ed in che circostanza sarebbe avvenuto il fatto da lei asserito. Inoltre, il teste Tommaso Gemelli, stando seduto sull’ultimo gradino della scala, intese quanto avveniva nello studio di De Rose e così descrive la scena: “De Rose fece il conto e contò il denaro alla Guzzo, la quale disse semplicemente queste parole «don Raffaele, la chiave della casetta la volete?» De Rose rispose qualche cosa che io non arrivai a percepire e subito dopo intesi i tre colpi di rivoltella”. Quindi anche in questa circostanza è da escludere che ci siano state proposte oscene ed è quindi manifesto che la Guzzo ha escogitato tutto a scopo difensivo dopo consumato il delitto, la cui causale è stata il licenziamento, attribuito a De Rose, ma che invece fu ordinato dal Barracco. Ma poiché era notorio che costui nutriva una grande fiducia nel suo amministratore, di cui quasi sempre seguiva i consigli e le proposte, così i coniugi Valente ritennero responsabile De Rose, anche perché non lo aveva impedito. Questa causale, però, non è idonea a costituire provocazione perché manca nel caso concreto il fatto oggettivamente ingiusto, in quanto il licenziamento era stato effettivamente ordinato dal Barracco. Non compete a Felicia Guzzo neanche l’attenuante dei motivi di particolare valore morale e sociale perché ella ha agito solo per vendetta contro colui che riteneva autore del licenziamento del marito. Lo ha detto lei stessa alle persone accorse sul luogo del delitto e lo ha ripetuto ai Carabinieri: “L’ho ucciso perché ha tolto il pane ai miei figli”.
Affermata la responsabilità dell’imputata, eliminata la premeditazione e negate le due attenuanti richieste, alla Corte non rimane che decidere la pena da comminare ed esordisce: soltanto tenendo conto dei buoni precedenti di lei può, alla stessa, infliggersi il minimo della pena edittale per l’omicidio volontario, cioè anni 21 di reclusione, oltre ai danni, alle spese ed alle pene accessorie.
Siccome i precedenti penali di Felicia Guzzo sono buoni, la Corte può applicare il R.D. 5 novembre 1932 N. 1403 e dichiara condonati anni 5 della pena inflitta, che resta così fissata in anni 16 di reclusione.
La Suprema Corte di Cassazione, il 25 aprile 1934 rigetta il ricorso di Felicia Guzzo.[1]
[1] ASCZ, Sezione di Lamezia terme, Sentenze della Corte d’Assise di Catanzaro.