L’IMPULSO DELL’AMORE FRATERNO

Alla fine del 1935 il commerciante Fortunato Cristiano e Carmela Violi, entrambi da Palizzi Superiore in provincia di Reggio Calabria, sono sposati da ormai più di sedici anni e non sono riusciti ad avere figli. Siccome per la mentalità dell’epoca è impensabile che un uomo possa essere sterile, la responsabilità della mancanza di eredi ricade su Carmela, così cessa l’armonia che fino ad ora si è costantemente mantenuta tra i due e Fortunato, nei primi mesi del 1936, stringe una relazione intima con la contadina Francesca Aloi, donna di facili costumi.

Carmela soffre per la situazione che si è venuta a creare e spesso si rivolge a parenti ed a persone eminenti del luogo perché esortino il marito a ravvedersi e troncare la tresca, ormai di dominio pubblico. Ma Fortunato, sordo ad ogni esortazione, continua a frequentare la casa della concubina sia di giorno che di notte, sprecando i risparmi che con il suo lavoro ha accumulato. Carmela potrebbe denunciare i due per adulterio ma, per evitare le gravi conseguenze che certamente si avrebbero se i suoi familiari venissero a conoscenza dei continui litigi e dei maltrattamenti che subisce ad opera del marito, desiste nonostante le esortazioni che le fanno addirittura i familiari del marito e le persone autorevoli alle quali suole rivolgersi, continuando così a tollerare la tresca, dalla quale, intanto, sono nati nel 1937 due gemelli, prematuramente morti, ed una bambina nel maggio 1938, che Fortunato vorrebbe fare crescere alla moglie.

Pochi giorni dopo la nascita della bambina, siamo ai primi di giugno, Fortunato, rientrato a casa, espone a Carmela un suo progetto:

Voglio permutare il fondo di contrada Zingari con uno di proprietà della signora Mostrotisi in contrada Arcioli. Però c’è una differenza di cinquemila lire da versare alla signora.

– Ah! Quello vicino all’appezzamento della vostra amante, così poi ci mettete i suoi genitori come coloni e per farlo, caro marito, pagate pure cinquemila lire! Il fondo è della mia dote e non se ne parla nemmeno! – Carmela non ci sta a subire anche questo e reagisce con orgoglio, ma il suo rifiuto è causa di una nuova e più grave ragione di dissidio tra loro due e giù botte, poi Fortunato l’avverte con tono di minaccia:

– E brava, ti ribelli? Attenta che o acconsenti o ti caccio di casa! – quindi esce sbattendo la porta.

Carmela capisce che le cose si stanno facendo molto, molto serie e ne parla al suocero, il quale le dice che è arrivato il momento di parlarne seriamente col resto della famiglia Cristiano e decidere in quale modo fare per interrompere la relazione scandalosa. Carmela, accompagnata dall’anziano e da un’amica fidata, parte da Palizzi la sera del 16 giugno e arriva a Bova Marina la mattina del 17, informando i cognati della piega che ha preso la situazione e chiede il loro consiglio e la loro protezione.

– Te lo stiamo dicendo da anni, devi denunciarli per adulterio, anche noi ci siamo stancati del suo comportamento! – la spronano ancora una volta i cognati Giuseppe, Antonia e Anna.

– Lo so, ma non voglio che resti coinvolto in un processo penale, è mio marito… magari vado dal podestà e gli chiedo di allontanare l’amante dal paese e il problema si risolve lo stesso…

Vista la testardaggine di Carmela, i cognati accettano la proposta e Giuseppe si incammina immediatamente con lei per tornare a Palizzi Marina e parlare col podestà.

– Mi dispiace, non posso emettere nessun provvedimento se prima non sporgete la querela per concubinato. Non abbiate timore e rivolgetevi all’Autorità Giudiziaria –. Un fiasco. Senza querela non c’è niente da fare.

Delusi, Carmela e Giuseppe riprendono la via del ritorno, ma a circa tre chilometri dal paese, lungo la strada nazionale incontrano Fortunato alla guida di un calesse. Appena li vede si ferma e colpisce Carmela con la frusta, poi smonta e fa per colpirla di nuovo, ma Giuseppe interviene in difesa della cognata e tra i due fratelli nasce una violenta colluttazione che lascia sul viso di Giuseppe evidenti segni. Quando le cose potrebbero precipitare, sopraggiunge un’autovettura con a bordo due agenti della milizia stradale che intervengono, dividono i contendenti e accompagnano Giuseppe e Carmela dai Carabinieri di Palizzi Marina, mentre Fortunato, temendo di essere arrestato, riesce a dileguarsi approfittando della confusione del momento. Raccontati i fatti al Maresciallo, i due cognati tornano a Bova Marina per raccontare al resto della famiglia Cristiano ciò che è accaduto loro.

La sera stessa a casa Cristiano da Palizzi arrivano Leone e Antonio, i fratelli di Carmela, che hanno saputo di quanto è accaduto sulla strada nazionale e vogliono avere notizie più precise, così vengono resi edotti non solo del motivo per cui la sorella è stata frustata dal marito, ma anche di tutta la serie dei precedenti maltrattamenti e dei continui litigi che Carmela aveva sempre nascosto loro per evitare di farli litigare col marito.

Carmela resta a casa dei cognati per la notte e la mattina del 19 giugno, cedendo alle loro insistenze, si decide a querelare il marito e Francesca Aloi per adulterio e così, accompagnata dal cognato Giuseppe va alla Pretura di Brancaleone e formalizza l’atto. Fortunato ne viene a conoscenza immediatamente, corre a Bova, ingiunge a Carmela di tornare nella casa coniugale e lei obbedisce, convinta, contrariamente al parere dei suoi cognati, che Fortunato manterrà la promessa di non volere più permutare il fondo agricolo.

Tornati a casa, Fortunato parte col calesse per trasportare alcune persone, come fa di mestiere. Sceso il buio, però, ancora non è tornato a casa, così Carmela, accompagnata da una vicina, esce con una lanterna per andargli incontro e si imbatte in suo fratello Leone che le ingiunge di tornare a casa.

– No, aspetto mio marito! – gli risponde.

– Ah! Che cada sopra di lui la roccia del castello! – impreca Leone e Carmela, impallidendo, rientra.

Quando Fortunato torna a casa trova pronto da mangiare e, una volta finito, chiede a Carmela:

Ma davvero mi hai denunziato?

– Non vi ho denunziato – mente –, ho solo chiesto al podestà di allontanare quella cattiva femmina!

Guarda che se anche Francesca fosse mandata al confino, io con i miei soldi la salverò a qualunque costo! – le risponde urlando e subito ricominciano a litigare.

Le urla vengono udite da Domenico Trapani che sta passando davanti la loro casa e che subito va ad avvisare Leone.

In un attimo è davanti a casa della sorella, vede la porta aperta ed entra.

La vuoi finire con la tua condotta immorale che è causa di continue mortificazioni per me e per la mia famiglia? – gli urla in faccia e subito dalle parole passano ai fatti azzuffandosi.

Carmela urla terrorizzata da ciò che potrebbe accadere e si lancia nella lotta per cercare di dividerli ma, all’improvviso, nelle mani di Leone appare un trincetto, che suole portarsi dietro dato che fa il calzolaio, e vibra un colpo al cognato ferendolo di striscio al petto. Poi gliene vibra un altro, ma per un movimento improvviso di Carmela la lama le entra nella coscia destra e, urlando per il dolore, esce dalla mischia, proprio mentre Leone vibra un terzo colpo e conficca la lama nel fianco sinistro di Fortunato, che si affloscia come un pallone sgonfio e cade sulle gambe di Fortunata.

Leone si rialza, ansima, guarda il cognato, poi guarda la lama del trincetto e il sangue che ne gocciola, bacia la sorella e sparisce nel buio con l’arma in mano, mentre cominciano ad entrare in casa i vicini, impressionati dalle urla di Carmela che adesso sta singhiozzando disperatamente per l’immane, doppia tragedia che le è caduta addosso come la roccia del castello: il marito che le è morto tra le braccia e il fratello omicida.

I Carabinieri di Palizzi Superiore, avvisati, accorrono immediatamente e interrogano Carmela e i vicini di casa, accertando subito il movente del delitto e tutti i fatti che lo hanno preceduto. A carico di Leone Violi scatta la denuncia per omicidio volontario e porto abusivo di trincetto. Ma siccome i Carabinieri non sono convinti della versione fornita da Carmela, denunciano anche lei per concorso in omicidio.

Leone si costituisce il 22 giugno nelle mani del Procuratore del re di Locri e ammette:

Confesso di aver ferito mio cognato con colpi di trincetto, ma senza l’intenzione di causarne la morte.

–  E fin qui ci siamo, ma ora devi dire come si sono svolti i fatti.

La sera del 19 giugno, mentre mi trovavo in piazza, appresi da Domenico Trapani che mia sorella questionava col marito. Accorsi e, vedendo che mio cognato percuoteva Carmela con pugni e schiaffi, mi interposi per fare da paciere, ma mio cognato si scagliò contro di me come un energumeno dandomi pugni e calci e mi ingiunse di andare via. Io allora reagii e, afferrato un trincetto di proprietà di mio cognato che si trovava sul tavolo, gli vibrai diversi colpi e quindi mi allontanai portando meco l’arma, che gettai sulla strada.

– Con uno dei colpi hai ferito anche tua sorella…

Non mi sono accorto di averla ferita, ma non posso escludere di averla attinta per errore nella vibrazione di colpi di trincetto.

– Sapevi delle questioni esistenti tra tua sorella e il marito?

Appresi dei continui maltrattamenti usatile dal marito la sera del 18 giugno a Bova. Prima di allora nulla mia sorella mi aveva detto.

A Leone di certo non giovano i risultati dell’autopsia, relativamente alla ferita riportata dalla vittima al fianco sinistro, che denotano la violenza del colpo: lesione alla regione ipocondriaca sinistra che, penetrata nella cavità addominale ha leso i vasi del rene e i tessuti mesenterici, cagionando profusa emorragia interna ed esterna, causa unica ed esclusiva della morte quasi istantanea.

Ma non gli giova, soprattutto, la dichiarazione di sua sorella Carmela, che prima respinge l’accusa di concorso in omicidio e riferisce tutto quello che il marito le ha fatto passare, poi racconta:

Tornato a casa la sera del 19 giugno, durante la cena mio marito mi domandò se avessi querelato la sua amante ed avuta risposta negativa si infuriò e sollevò una sedia contro di me, onde io mi misi a gridare per fare accorrere gente temendo di essere colpita. Accorse allora mio fratello Leone, il quale afferrò mio marito, ma questi rivolse contro di lui la sedia che teneva alzata e i due si afferrarono. Io mi interposi per dividerli, ma ad un tratto mi accorsi di essere ferita e vidi mio fratello fuggire, mentre mio marito si piegava privo di forze tra le mie braccia e poco dopo spirava.

– Quella sera sopra il vostro tavolo c’era un trincetto da calzolaio di proprietà di vostro marito?

Escludo che quella sera si trovasse un trincetto sul tavolo di casa mia.

Il fatto che Carmela abbia escluso che il fratello arrivò mentre Fortunato la colpiva con schiaffi e pugni e abbia escluso che il fratello abbia preso il trincetto da sopra il tavolo sono una mazzata tremenda per Leone, che a questo punto rischia che l’imputazione a suo carico sia aggravata dalla premeditazione.

Carmela a suo marito mentì quando gli giurò che non aveva querelato Francesca Aloi per adulterio e lo fece per non essere gonfiata di botte o, forse, anche peggio, ma la Procura ha in mano la denuncia e deve proseguire contro la donna, che viene interrogata in merito e le bastano solo poche parole:

– Confesso di essere stata la concubina di Fortunato Cristiano.

A questo punto, raccolti tutti gli elementi necessari per mettere a fuoco lo scenario in cui è maturato il delitto, l’istruttoria può essere chiusa col proscioglimento di Carmela Violi dall’accusa di concorso in omicidio ed il rinvio a giudizio di suo fratello Leone per rispondere di omicidio volontario in danno di Fortunato Cristiano e di lesioni per errore in danno di sua sorella Carmela, nonché il rinvio a giudizio di Francesca Aloi per rispondere di essersi fatta notoriamente mantenere da Cristiano Fortunato, marito di Violi Carmela. Ad occuparsi del caso sarà la Corte d’Assise di Locri nella seduta del primo febbraio 1939.

La Corte interroga l’imputato, che cambia versione e dice:

Fui costretto ad agire dalla necessità di difendermi da mio cognato che aveva alzato contro di me una sedia – uniformandosi, così, alla dichiarazione di Carmela che aveva parlato della sedia, con l’evidente fine di chiedere lo stato di legittima difesa o quello dell’eccesso colposo di legittima difesa. Poi la Corte, letti gli atti ed ascoltati i testimoni e le parti, osserva: in base agli elementi di prova non può dubitarsi dell’elemento materiale del reato di omicidio, né dell’autore di esso e di tutte le circostanze che lo precedettero, essendo, tra l’altro, luminosamente dimostrato quanto Violi Carmela ha asserito in ordine alla notorietà della tresca esistente tra il marito e Aloi Francesca e circa i maltrattamenti subiti ad opera di lui, fino al suo ritorno nella casa coniugale il 19 giugno 1938 ed il litigio avvenuto fra lei ed il marito quella stessa sera. All’episodio finale in cui il Cristiano fu ucciso non fu presente alcuna persona tranne la moglie e la tragica scena può quindi ricostruirsi soltanto mediante le dichiarazioni rese dall’imputato e dalla Carmela Violi, dichiarazioni che sono attendibili soltanto in quei punti che trovano riscontro negli altri elementi del processo. Quindi è certo che il giudicabile ed il Cristiano si afferrarono e ne seguì una colluttazione nella quale la vittima ebbe a riportare escoriazioni alla fronte e graffiature alla guancia destra, prodotte da unghiate. Non è altrettanto sicura la circostanza che il Cristiano abbia maneggiato una sedia per tentare di colpire prima la moglie e poi il cognato, giacché in questo punto le dichiarazioni della Violi e dell’imputato non sono concordi ed inoltre quella resa dalla Violi ai Carabinieri è difforme da quella resa all’autorità giudiziaria, onde l’anzidetta circostanza, di cui l’imputato ha tardivamente fatto cenno nell’interrogatorio reso in udienza mentre l’aveva taciuta negli interrogatori precedenti e quindi tale circostanza non può ritenersi rispondente a verità.

E se il fatto della sedia non è vero, Leone non può invocare lo stato di legittima difesa, tra l’altro esclusa dal fatto che la vittima era inerme, mentre è risultato che il giudicabile era armato di trincetto, che soleva portare, mentre la sorella ha escluso che il trincetto fosse di suo marito e si trovasse sul tavolo nel momento in cui avveniva la lite. Poi la Corte continua: e se si considera che Leone Violi penetrò nella casa del Cristiano già armato di trincetto con evidenti propositi di vendetta (in quanto poco prima aveva appreso dal teste Trapani Domenico che sua sorella Carmela, nel litigare col marito, si era messa a gridare), si deve argomentare che l’imputato fu il primo a slanciarsi contro il cognato ed a passare dalle parole ai fatti, venendo con lui a colluttazione e vibrandogli poscia i tremendi colpi di trincetto con i quali lo uccise, non senza ferire per errore la sorella. Questo atteggiamento eminentemente offensivo esclude che a favore del giudicabile possa ammettersi la discriminante della legittima difesa, né reale e né putativa, essendo risultato che egli non solo non si trovò mai nella necessità di difendersi da un qualsiasi pericolo, ma non poté mai credere di trovarsi in tale necessità per erronea valutazione delle circostanze di tempo, luogo, modo, persona, eccetera, in cui il fatto si svolse.

E se le cose stanno così non si può dubitare nemmeno della volontà omicida di Leone Violi, nonostante abbia asserito di avere colpito il cognato senza l’intenzione di ucciderlo. A dimostrarlo stanno l’arma usata, la violenza del colpo fatale, la reiterazione dei colpi, la morte quasi immediata della vittima e la grave causale del delitto. Le cose si mettono molto male per Leone Violi, ma la Corte riconosce che a suo favore concorrono le attenuanti dello stato d’ira determinato dall’ingiusto comportamento del cognato e di avere agito per motivi di particolare valore morale, cioè sotto l’impulso dell’amore fraterno, che lo traeva a preoccuparsi della vita che conduceva la sorella, non solo gravemente offesa nella sua dignità di moglie ad opera del marito, ma anche maltrattata, ingiuriata e percossa.

Si può passare a determinare la pena da infliggere all’imputato e la Corte afferma che, considerando da un lato la gravità del fatto, nonché l’elevato grado di pericolosità del colpevole, già altra volta condannato, e dall’altro lato la nobiltà dei motivi a delinquere, è giusto partire da anni 22 di reclusione, diminuendoli di anni 7 per l’attenuante dei motivi di particolare valore morale, portandoli così ad anni 15 e quindi di anni 5 per lo stato d’ira, facendo così scendere la pena ad anni 10 di reclusione. Ma Leone Violi è responsabile anche delle lesioni causate per errore alla sorella e cioè in offesa di persona diversa da quella cui l’azione era diretta. In questo caso, data la unicità dell’azione, il colpevole soggiace alla pena stabilita per il reato più grave con l’aumento della pena che, nella specie, si stima giusto fissare in anni 1 di reclusione. E non è finita qui perché Leone Violi versa in stato di recidiva nell’ultimo quinquennio, contestatagli nel dibattimento, ed è uopo aumentare ancora la misura della pena almeno di anni 1, onde la sanzione che in concreto si infligge all’imputato risulta di anni 12 di reclusione, oltre alle spese, ai danni ed alle pene accessorie.

La Corte non ha ancora terminato il suo lavoro perché deve affrontare il caso di Francesca Aloi, imputata di concubinato e osserva: si è verificata per Carmela Violi la decadenza dal diritto di proporre querela giacché ella, come ha confermato in udienza, da più di due anni era venuta a conoscenza della relazione tra il marito e la Aloi e per ben tre volte ne aveva parlato nel 1937 ai Carabinieri chiedendo loro consiglio e soltanto il 18 giugno 1938 si era decisa a querelare il marito e la druda, cioè oltre il termine di mesi 3 stabilito dalla legge. Nei confronti di Francesca Aloi, quindi, deve dichiararsi non luogo a procedere perché l’azione penale non poteva essere promossa.[1]

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Locri.