VENDETTA TRASVERSALE

Il giovane bracciante Alessandro Chiarini, di temperamento impulsivo e propenso ai maltrattamenti in famiglia, quando la moglie per lavoro è assente dalla loro casa di contrada Musocampo nel comune di Cinquefrondi, è solito chiudere in casa la loro bambina di appena nove mesi e allontanarsi senza preoccuparsi dei pericoli ai quali rimane esposta. Di questo irresponsabile comportamento si accorge il vicino di casa Raffaele Franco che, per puro spirito d’umanità, lo richiama ad un comportamento più responsabile. Ma Alessandro la prende male e volano parole grosse. La prende così male che comincia a covare nei confronti del vicino un odio implacabile e a meditare vendetta. All’inizio si limita, per così dire, avendo smarrito due galline, a denunciarlo per furto, ma la cosa non va avanti perché dopo un paio di giorni le galline ritornano da sole al pollaio. Fallito il primo tentativo, Alessandro si presenta al proprietario Giuseppe Mammola, per il quale Raffaele Franco fa il pastore, per informarlo che l’odiato vicino ha fatto sconfinare il gregge nel suo castagneto e vuole essere risarcito, altrimenti lo denuncerà. Mammola, credendo vera la storia, chiama Raffaele e gli propone di patteggiare come risarcimento la somma di mille lire, ma il pastore rifiuta ogni tipo di mediazione, sapendo di essere innocente.

Nel frattempo l’odio di Alessandro nei confronti di Raffaele si estende al genero di quest’ultimo, Michele Panetta, e comincia a considerarlo altrettanto nemico quanto il suocero.

Io debbo vendicarmi di Panetta con le mie mani! – confida a Domenico Galluzzo.

Così, la sera del 3 agosto 1939, trovandosi nel suo fondo alla distanza di circa venti metri da casa sua, Alessandro si imbatte in Michele Panetta che, venendo da Cinquefrondi, sta andando a casa del suocero. In giro non c’è nessuno e Alessandro non perde tempo, mette mano alla rivoltella e gli spara un colpo che ferisce seriamente ad un gluteo Michele, il quale, nonostante tutto, cerca di scappare riuscendo ad arrivare nel pezzo di terra di suo suocero. Ma Alessandro gli è di nuovo addosso e lo finisce con un altro colpo, poi se ne va e lo lascia lì, andando a nascondersi in un bosco vicino con sua moglie e la bambina.

Poi ci pensa bene e capisce che se lasciasse lì il cadavere di Raffaele sarebbero guai grossi, così, dopo tre o quattro ore, torna sul posto, afferra il cadavere per i piedi e lo trascina vicino a casa sua al fine di fare intendere che Panetta era andato ad insultarlo fino a casa. La mattina dopo va dai Carabinieri e si costituisce confessando:

Panetta mi ha aggredito con pugnale e rivoltella, ma io sono riuscito a strappargli dalla mano la rivoltella e gli ho tirato due colpi, senza l’intenzione di ucciderlo. Il secondo colpo dopo averlo inseguito. Poi mi sono allontanato e quando sono tornato ho trovato il cadavere di Panetta e per non farlo rimanere nella pozza d’acqua dove si trovava, l’ho trasportato fin presso la mia abitazione.

Il Maresciallo non crede ad una sola parola e, messolo alle strette in un secondo interrogatorio, ottiene la ritrattazione della minaccia a mano armata di pugnale e rivoltella, peggiorando la situazione. Quando lo interroga il Giudice Istruttore, resosi conto dell’errore, torna alla prima versione, ma ormai la frittata è fatta e il 12 settembre 1939 viene rinviato al giudizio della Corte d’Assise di Palmi per rispondere di omicidio volontario aggravato dai futili motivi.

La causa si discute il 2 febbraio 1940 e la Corte, letti gli atti, ascoltati i testimoni e le parti, osserva: sulla responsabilità di Chiarini non cade dubbio. Egli ha confessato di aver tirato contro Panetta il colpo di rivoltella da cui questo restò ucciso, ma ha eccepito di non avere agito con intenzione omicida, mentre tale intenzione è resa manifesta non solo dalla minaccia da lui espressa al testimone Galluzzo, ma altresì dalla causale del fatto, il forte risentimento concepito per l’addebito, pur tanto giusto, mossogli dal suocero di Panetta, dalla specie dell’arma usata, dalla regione vitale presa di mira e colpita, il cuore, dal fatto di avere inseguito la vittima designata per notevole tratto fin nel fondo di Raffaele Franco e di avergli colà tirato un secondo colpo. Visto cadere Panetta, fu tanto sicuro di averlo ucciso che per tre o quattro ore si nascose e poi, volendo prepararsi una discriminante, ritornò sul luogo e trascinò il cadavere sino alla propria abitazione.

Poi l’affondo: non vi era alcun motivo, per quanto lieve e frivolo, per cui Panetta potesse essere accomunato nell’odio che Chiarini nutriva contro Raffaele Franco a causa di un rimprovero da costui mossogli. È certo che Chiarini aggredì Panetta mentre questi, disarmato, si recava dal proprio suocero e perciò non può concedersi all’imputato la richiesta attenuante dell’eccesso colposo di legittima difesa, giacché egli non solo non si trovò mai nella necessità di difendersi da un qualsiasi pericolo, ma non poté mai credere di trovarsi in tale necessità per erronea valutazione delle circostanze di tempo, luogo o persona in cui l’azione si svolgeva, essendo il fatto avvenuto in breve tempo e non avendo mai l’imputato perduto la chiara e precisa sensazione delle circostanze in cui agiva. Deve anche escludersi che egli abbia agito in seguito a provocazione giacché, se è ammissibile che egli si trovasse in stato d’ira, non si riscontra la più lieve nota d’ingiustizia nella condotta di Panetta, il quale non ebbe altra colpa che quella di essere genero di Raffaele Franco e di trovarsi con lui in buoni rapporti, con lui che, a sua volta, non aveva contratto altra responsabilità se non quella di avere avvertito Chiarini a mostrarsi prudente ed avveduto nell’allevare la figlioletta di nove mesi. Evidentemente il delitto di Chiarini fu prodotto dalla spinta di prepotenza da cui egli era animato, dall’orgoglio e dalla presunzione che lo distinguevano e dalla pretesa di essere rispettato anche quando compiva azioni che potevano assumere carattere di delitto. Nella sua bramosia di imporsi su coloro che venivano con lui in relazione, egli accomunò Panetta al suocero, considerandolo un rappresentante del suo nemico. Non avendo, però, egli dato segno di malignità in grado superiore al dolo comune dei delinquenti, sembra giusto eliminare l’aggravante dei futili motivi.

Non resta che determinare la pena da infliggere ad Alessandro Chiarini e per far questo deve aversi riguardo ai suoi precedenti penali e morali che non sono buoni, alla speciale natura del fatto, ai motivi a delinquere, alla specie dell’arma adoperata, al grado di pericolosità da lui dimostrata. Tenuto conto di ciò, sembra giusto partire, per l’omicidio, da anni 21 di reclusione ed aumentarli di un terzo per la recidiva specifica nel quinquennio in cui il giudicabile versa, sicché la reclusione da applicare si determina in anni 28, ai quali vanno aggiunti mesi 2 e giorni venti di arresto per la detenzione ed il porto abusivo di rivoltella, oltre alle spese, ai danni e alle pene accessorie.[1]

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Palmi.