L’ABUSO DELLA CAMICIA NERA

Salvatore Jannuzzi di Zumpano ha una gamba che non gli si piega, ricordo indelebile della sua partecipazione alla Prima Guerra Mondiale. La condizione di storpio lo ha portato a voler dimenticare la sua sventura nelle soverchie libazioni a cui si abbandona spesso. E quando è ubriaco e cammina per le vie del paese barcollando, i monelli lo seguono in gruppo tirandogli la giacca, sghignazzando e facendogli sberleffi. Quando ciò accade, Salvatore, per allontanarli, suole metter fuori un piccolo coltello con lama senza punta e lunga quattro o cinque centimetri, senza però fare alcun cenno di minaccia o in altro modo di arrecar danno a quei ragazzi. Poi qualcuno sgrida i monelli e Salvatore può tornare a casa in santa pace.

Il primo febbraio 1934 Eduardo Garro ha fatto le frittole e invita a pranzo Salvatore che, naturalmente, trascinato dalla sua passione per il vino ne beve una quantità esagerata e si ubriaca così tanto che Garro si sente in dovere di accompagnarlo a casa tenendolo sottobraccio.

Naturalmente alcuni monelli li vedono e, approfittando del fatto che Garro lo ha lasciato a pochi metri da casa, ricominciano la solita scena disgustosa di sghignazzi e sberleffi e, come al solito, Salvatore tira fuori il suo coltellino per far finta di minacciarli, cosa di cui è assolutamente incapace, come tutti in paese sanno. A poca distanza da questa scena sono fermi a chiacchierare Giovanni Caruso, Annunziato Imbrogno e Alfredo De Santis i quali, istintivamente, nel vedere Salvatore che cammina barcollando, si mettono a ridere. Salvatore, seppure ubriaco fradicio, se ne accorge e si avvicina al gruppo e, rivolto a De Santis che è il più vicino, dice:

– Che cazzo ridete?

De Santis risponde evasivamente e Salvatore gli si avvicina ancora di più. De Santis fa due passi indietro e Salvatore due in avanti e così, l’uno indietreggiando e l’altro avanzando, percorrono diversi metri, mantenendo tra essi una distanza di quattro passi. Ad un certo punto Salvatore cava di tasca il solito coltellino, tenendolo un po’ dietro la schiena, un po’ davanti a sé con la punta arrotondata verso l’alto e un po’ lungo il fianco verso il basso. De Santis, sempre indietreggiando, gli fa:

Fermati, fermati! – ma Salvatore non si ferma; De Santis tira fuori una pistola, che è autorizzato a portare in quanto camicia nera scelta, e, spianandogliela contro, continua a dire – fermati, fermati!

Non sparare, non sparare! – gli urlano, insieme, Caruso e Imbrogno, che continuano – lo sai che Salvatore è innocuo!

Ma proprio in questo momento De Santis spara e colpisce Salvatore che stramazza a terra senza un lamento, colpito al polmone destro, e muore quasi subito per l’imponente emorragia interna. Intanto, appena sentito il rumore secco della detonazione, accorre sul posto anche Eduardo Garro:

– Ma che cazzo hai fatto? Che bisogno c’era di sparare? Non lo sai che Salvatore non farebbe male a una mosca?

De Santis, però, non prende bene il rimprovero di Garro e gli spiana la pistola contro, ma per fortuna sul posto è accorso anche Francesco Scarcelli, che afferra De Santis impedendogli ogni possibilità di usare l’arma.

Quando arrivano i Carabinieri portano De Santis in caserma e lo interrogano:

– Gli ho sparato perché costui una prima volta mi ha dato un colpo di coltello al collo, che sono riuscito ad evitare ed una seconda volta si era accinto a darmene un’altra con lo stesso coltello che aveva una lama lunga dieci centimetri

Ma Caruso e Imbrogno, anche se suoi amici, lo smentiscono e lo smentisce soprattutto il coltellino di Salvatore, lungo quattro centimetri e con la punta arrotondata, rinvenuto accanto al cadavere, repertato e riconosciuto da tutti coloro che lo avevano visto. Poi ci sono le deposizioni di quasi tutti i paesani che descrivono Salvatore come un uomo mite e incapace di fare del male, nonostante l’esposizione del coltellino quando qualcuno si burlava di lui.

Espletate le indagini, il Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Catanzaro, rinvia Alfredo De Santis al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza per rispondere di omicidio volontario in persona di Jannuzzi Salvatore, aggravato per essere stato commesso per futili motivi, nonché di minaccia commessa con arma in persona di Garro Eduardo.

La causa si discute il 14 luglio 1934. Interrogato in udienza, nonostante tutto De Santis ribadisce la sua versione dei fatti e, di più, allunga la lama del coltello di Salvatore fino a venti centimetri. Il Pubblico Ministero, da parte sua, chiede di eliminare l’aggravante dei futili motivi e la Corte osserva: sulla materialità del fatto addebitato a De Santis non può sorgere alcun dubbio in quanto i testimoni presenti hanno concordemente dichiarato di aver visto quando l’imputato esplose il colpo di pistola contro Jannuzzi e lui stesso lo ha ammesso. Nella specie è molto dubbia, invece, la volontà omicida perché innanzi tutto manca una causale adeguata all’evento letale e mancano, altresì, precedenti rancori, anzi è risultato che tra Jannuzzi e De Santis sono corsi sempre rapporti d’amicizia. Questo dubbio è giustificato anche dalla unicità del colpo e soprattutto dalla direzione dello stesso. L’istruzione, infatti, ha stabilito che il percorso del proiettile ha avuto una direzione dall’alto in basso, il che fa legittimamente ritenere che il colpo era diretto alle estremità inferiori, che non sono certo parti vitali. Né si opponga che ciò sia dovuto al fatto che la strada era in pendio e che Jannuzzi si trovava nella parte inferiore, perché la distanza tra i due era di soli quattro passi e quindi il dislivello in così breve distanza era addirittura trascurabile, qualunque fosse stato il pendio della strada. Non potendosi con tutta coscienza affermare che De Santis, nel momento in cui sparò, ebbe la precisa intenzione di uccidere ma piuttosto quella di ferire il suo avversario, deve rispondere di omicidio preterintenzionale. L’aggravante, poi, dei futili motivi, nel caso in esame, è destituita di ogni fondamento perché l’atteggiamento apparentemente aggressivo di Jannuzzi, per quanto non possa dar luogo ad alcuna discriminante o attenuante, costituisce sempre un motivo sufficiente a spiegare il fatto.

La Corte non può condividere nemmeno le altre richieste della difesa perché sono contraddette dagli atti processuali e dagli elementi raccolti nel dibattimento. Non concorrono gli estremi della difesa legittima perché, per quanto l’atteggiamento di Jannuzzi potesse apparentemente giustificare una simile discriminante, nella sostanza questo atteggiamento non poteva e non doveva preoccupare ed impressionare non solo De Santis, ma chiunque altro. Infatti a Zumpano Salvatore Jannuzzi era ritenuto da tutti come persona incapace di far male a chicchessia, nonostante i trascorsi giovanili, di cui la difesa ha fatto tanto scalpore, ma a sproposito perché tali trascorsi si fermano al 1913 e da quest’epoca in poi Jannuzzi ha serbato sempre condotta illibata e dei quali l’imputato doveva essere ignaro, infatti l’ultimo fatto delittuoso (il solo di una certa entità) fu commesso quando De Santis aveva appena qualche anno di età. L’atteggiamento della vittima non doveva indurre De Santis a temere per la propria incolumità, sia per la natura e le dimensioni del coltello, sia perché era da tutti risaputo, e quindi anche da De Santis, che Jannuzzi non si era mai servito di tale arma per arrecare danno. Senza poi dire che non è rimasto accertato neanche in quale posizione avesse l’arma nel momento del fatto. Se a tutte queste considerazioni e circostanze di fatto si aggiunga che Jannuzzi era un minorato fisicamente ed in quel momento anche un minorato delle facoltà mentali per la gran quantità di vino ingerito, anche a voler ammettere che avesse fatto con quel coltello qualche atto, mancherebbe sempre la proporzione tra il pericolo e l’evento, ne consegue ineluttabilmente che non ricorre nessuna delle condizioni per concedere la discriminante della legittima difesa. In quanto poi al preteso colpo di coltello nella regione del collo ed al secondo tentativo di un secondo colpo, di cui l’imputato assume essere stato vittima prima di sparare, non si trova traccia in nessuna delle deposizioni dei testimoni presenti al fatto, eppure tra costoro vi erano due suoi amici, Caruso e Imbrogno, che avevano tutto l’interesse a non omettere una simile circostanza a lui favorevole. Premesso ciò, è ovvio che non possa parlarsi neanche di eccesso colposo di legittima difesa, per la quale occorrono gli stessi requisiti della difesa legittima e da questa si differisce soltanto pel concorso di un altro elemento costituito da un’esagerazione colposa del pericolo, che non ricorre nella specie, perché è certo che De Santis sapeva benissimo di non poter ricevere alcun danno da Jannuzzi.

Chiaro, ma chiara anche la necessità della Corte di barcamenarsi tra l’esigenza di punire il responsabile di un delitto tanto inutile quanto odioso e l’esigenza di non poter calcare la mano su una camicia nera scelta, autorizzata ad andare in giro armata.

Ma adesso bisogna ragionare sul reato di minaccia con arma in danno di Eduardo Garro e la Corte è certa della responsabilità dell’imputato perché, oltre che dalla dichiarazione di costui, risulta in modo chiaro e preciso dalla deposizione di Francesco Scarcelli il quale, temendo che potesse verificarsi un secondo fatto di sangue, afferrò De Santis, mettendolo in condizioni di non poter agire.

Non resta che quantificare la pena da infliggere: pertanto devesi affermare la responsabilità di De Santis Alfredo per omicidio preterintenzionale con la sola aggravante dell’arma e per il reato di minaccia con arma ed avuto riguardo alle modalità del fatto, alla gravità dello stesso ed ai precedenti dell’imputato, stimasi condannarlo, per l’omicidio ad anni 13, più altri anni 2 per l’aggravante dell’arma ed a mesi 6 per la minaccia, sommando nel complesso anni 15 e mesi 6 di reclusione, oltre alle spese, ai danni e alle pene accessorie.

La Suprema Corte di Cassazione, con sentenza del 4 gennaio 1935, rigetta il ricorso proposto dall’imputato.[1]

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.