NON SEI UN UOMO

Papanice, frazione di Crotone, 30 gennaio 1948, 8,30 di mattina. Vito Martino va a cercare due suoi, per così dire, amici, Antonio Padovani ed il cugino di questi Giovanni Campisi e quando li trova, li ferma e dice loro:

Seguitemi fuori l’abitato per una chiarificazione.

I due cugini si guardano, poi guardano Martino, gli fanno cenno di andare e tutti e tre si avviano. Ad un centinaio di metri dal paese Martino si ferma, si mette a gambe larghe di fronte a Campisi e Padovani e dice a quest’ultimo:

Com’è che hai sparlato di me?

– Io? – gli risponde.

– Ho saputo che riguardo alla storia del grano hai detto che ti ho costretto!

– No…

Non sei un uomo! – gli urla in faccia e Padovani, per tutta risposta, gli assesta un pugno. Martino si accarezza la guancia colpita e sputa il sangue che comincia a colare dall’angolo della bocca. Poi, come un fulmine, estrae la pistola e spara un colpo all’avversario, che cade a terra esclamando:

Tu mi hai ucciso!

Campisi, finora rimasto immobile, si lancia sul cugino per soccorrerlo, mentre Martino scappa.

Antonio Padovani è gravemente ferito e il cugino a stento riesce a farlo rimettere in piedi mentre, attirato dalla detonazione, arriva sul posto la Guardia Municipale Borrello e insieme lo trascinano fino alle prime case del paese, poi con un carretto lo porta alla casa di salute del capoluogo e quindi va a chiamare i Carabinieri, che cominciano le indagini ascoltando il ferito, sebbene molto sofferente, e Giovanni Campisi, unico testimone oculare presente al fatto, i quali forniscono la stessa versione, cioè che, invitati da Martino a seguirli fuori dal paese, dopo un diverbio ha sparato un colpo a Padovani ed è scappato. Essendo certo che il responsabile del ferimento è Vito Martino, i Carabinieri si concentrano sul movente ed accertano che nell’ottobre del 1946 tal Fazzolari Nicola aveva subito un furto di grano, pare ad opera di Padovani e Martino. Padovani, in seguito, aveva sparso la voce che egli aveva partecipato al furto perché costretto dall’altro e questi, saputa la cosa, avrebbe, il mattino del 30 gennaio, chiesto spiegazioni a Padovani. Sembra un po’ fragile come movente il fatto che la vendetta sia stata consumata dopo quasi un anno e mezzo, ma è l’unica cosa che i Militari riescono a scoprire, anche perché, si sa, queste sono le regole della malavita, alla quale i due si sospetta che appartengano.

Intanto le condizioni di Antonio Padovani si aggravano di ora in ora e nel pomeriggio del 31 gennaio, purtroppo, muore. Adesso non si tratta più di tentato omicidio, ma di omicidio volontario. Vito Martino però è sparito dalla circolazione e di lui non si hanno notizie fino al 17 marzo successivo, quando bussa alla porta delle carceri di Crotone e si costituisce, preceduto da una memoria difensiva depositata in Procura dal suo difensore.

Interrogato, Martino ripete per filo e per segno il contenuto della memoria difensiva:

– Quella mattina non potevo avere intenzioni aggressive, avendo già manifestato il proposito di recarmi a Crotone.

– E allora perché li hai invitati fuori dal paese per un chiarimento?

Furono Campisi e Padovani ad invitarmi perché andassi con loro fuori l’abitato, può testimoniarlo Pantaleone BorrelloPadovani mi ha provocato e poi sono stato costretto a difendermi

– E quindi come andarono le cose?

Padovani mi tirò un pugno, per cui io caddi a terra ed in tale posizione quello mi mise un piede sul petto, chiedendo a Campisi una pistola. Prima che Padovani avesse potuto avere la pistola, io tolsi la mia dalla bisaccia e lo colpii

– Bene, adesso spiega perché hai detto a Padovani che non era un uomo.

– Ecco, dovete sapere che nei giorni precedenti al fatto, avevo programmato insieme a Padovani e Campisi di rapire la fidanzata di Campisi. Successivamente, però, accortomi che il ratto doveva avvenire in modo violento, mi rifiutai di aiutare i due nella loro impresa. Per questo mi invitarono alla chiarificazione ed io dissi a Padovani che non era un uomo. Ho i testimoni, potete sentire Vincenzo Cerisano e Salvatore Riniti.

Per gli inquirenti il racconto non è credibile, almeno per quanto riguarda la dinamica del fatto, perché i risultati dell’autopsia dicono che il proiettile che colpì Padovani al petto seguì una traiettoria orizzontale, mentre se fosse stato sparato quando Martino era steso a terra, come sostiene, la traiettoria avrebbe dovuto seguire una linea dal basso in alto. Per quanto riguarda le altre affermazioni, bisogna verificarle ascoltando i testimoni citati. Il primo è Pantaleone Borrello:

Escludo in modo assoluto di avere visto, il giorno del delitto, Vito Martino. Ma forse si è trattato di uno scambio di persona in quanto a Papanice c’era un mio omonimo, che è deceduto a marzo

Agli inquirenti il giochino appare evidente: chiamare in causa una persona deceduta così da non poter essere smentito.

Adesso è il momento di chiarire il presunto tentativo di rapimento e Vincenzo Cerisano e Salvatore Riniti forniscono la stessa versione:

Nel mese di settembre 1947 abbiamo ricevuto da Campisi la proposta di rapire una giovanetta, tale Maria, ma noi ci rifiutammo di aiutarlo.

Nessun accenno a Vito Martino.

In tutto ciò, ai Carabinieri di Crotone si presenta tale Giovanni Megna che denuncia con atto scritto, come nel dicembre 1947, di notte, aveva sorpreso Vito Martino insieme a due sconosciuti nell’atto di scassinare la porta della sua stalla, ove era custodito un mulo. Poi aggiunge che due o tre giorni prima del delitto di omicidio in danno del Padovani, era stato minacciato da Martino, che gli voleva imporre l’esborso di 50.000 lire a titolo di risarcimento di danno per una rescissione di contratto di trasporto di una certa quantità di sansa. La conseguenza è che questo procedimento penale viene accorpato a quello principale per omicidio e l’imputato, il 12 novembre 1949, viene rinviato al giudizio della Corte d’Assise di Catanzaro per rispondere dei due reati. La causa si discute dopo un anno, il 14 novembre 1950.

La Corte, letti gli atti ed ascoltati i testimoni, osserva: istruzione e dibattimento hanno accertato in modo inequivocabile la piena responsabilità dell’imputato in ordine all’omicidio, mentre la causale del delitto va ricercata in rapporti loschi intercorrenti tra uccisore e vittima. La linea difensiva risultò completamente contraddetta dalle risultanze processuali, le quali dicono chiaro che Martino non sparò perché provocato da Padovani, né tanto meno perché costretto da un pericolo reale od immaginario di una offesa alla sua persona. L’imputato ha cercato di mettere in evidenza che la mattina del delitto non poteva avere intenzioni aggressive, avendo già manifestato il proposito di recarsi a Crotone, ma la circostanza, anche se vera, non esclude che l’imputato, pur diretto a Crotone per affari, abbia cambiato idea dopo l’incontro con Campisi e Padovani e abbia trovato l’ora come più adatta per quella “chiarificazione” che tanto interessava la sua personalità delinquenziale. Martino affermò, inoltre, che furono Campisi e Padovani ad invitarlo ad andare con loro fuori dall’abitato ed indica a testimone tale Borrello Pantaleone, che non può smentirlo perché morto nel mese di marzo di quell’anno. La verità è, invece, che l’invito partì dall’imputato. Lo dice Padovani sia ai Carabinieri che al Magistrato prima di morire; lo dice Campisi, nel luogo stesso del delitto alla Guardia Municipale Albino Borrello. Ma vi è un dato logico ed inoppugnabile: dei tre individui coinvolti nel fatto, l’unico che era in possesso di un’arma era Martino perché se l’invito alla cosiddetta “chiarificazione” fosse partito dagli altri due, costoro sarebbero andati a trovare Martino con un’arma in tasca, ben prevedendo che la “chiarificazione” sarebbe potuta degenerare in una lite. E per avvalorare la sua tesi difensiva, prosegue la Corte, Martino ha posto in essere una causale sua propria, cioè il rifiuto, dopo averlo organizzato con Campisi, di partecipare al rapimento della giovanetta, rifiuto che fu alla base della richiesta di “chiarificazione” da parte di Padovani e Campisi e quindi il tentativo di vendetta subito. Ma, come abbiamo già visto, questa ricostruzione fu smentita dai testi Cerisano e Riniti. E la Corte sottolinea: che l’episodio si sia verificato tra Campisi e Padovani da una parte e Cerisano e Riniti dall’altra lo possiamo anche ammettere, ma si trattò di quattro mesi prima e ad esso rimase completamente estraneo Martino; ché altrimenti non si spiegherebbe come la frase “non sei un uomo” sia stato Martino a pronunciarla, proprio lui che avrebbe dovuto invece sentirsela ripetere dagli altri due a causa del suo comportamento.

Adesso la Corte si occupa della ricostruzione della scena del crimine fatta dall’imputato e la stronca in pieno, ribadendo che la traiettoria del proiettile che colpì Padovani fu orizzontale, mentre dalla versione dell’imputato sarebbe dovuta essere dal basso in alto. Ma, secondo la Corte, c’è di più: oltre che urtare contro la deposizione del morente Padovani e di Campisi, la sua versione si presenta ancor più illogica quando si pensi che Martino, nella posizione attribuitasi – disteso a terra e con un piede di Padovani sul petto – non avrebbe potuto togliere facilmente dalla bisaccia la pistola, senza che gli altri due avessero potuto impedirglielo. Resosi conto di ciò, nel dibattimento Martino ha precisato, a sostegno della sua tesi di legittima difesa, che egli, nel momento in cui fece partire il colpo, era con le spalle ad un argine in posizione quasi eretta, mentre Padovani era sulla strada.

Ovviamente nemmeno questa precisazione è credibile e la Corte conclude l’esame del fatto osservando che la causale del delitto affiorata attraverso la frase pronunziata da Martino nei riguardi di Padovani, l’invito rivolto dall’imputato agli altri due di recarsi fuori paese, il possesso da parte di Martino di un’arma già pronta per l’uso, le risultanze della generica sono tutte contro la tesi della legittima difesa.

Ma ci sono delle circostanze che inducono la Corte a valutare con estrema cautela la contestazione di omicidio volontario: quanto alla volontà omicida, se è vero che Padovani, colpito che fu, ebbe a dire “Tu mi hai ucciso!”, è anche vero che uno fu il colpo che Martino fece partire dall’arma, sicché, pur certo che abbia voluto colpire Padovani, non è parimenti certo che lo abbia voluto uccidere. L’unicità del colpo, d’altro canto, non fa nemmeno essere sicuri su quale fosse la regione del corpo avuta di mira da Martino, per cui è dubbio se egli, pur volendo colpire altrove, abbia colpito un punto vitale. Trattasi, dunque, di omicidio preterintenzionale aggravato perché commesso con arma.

Modificato il titolo del reato, non resta che determinare la pena da infliggere a Vito Martino e la Corte comincia esaminando le attenuanti richieste dalla difesa: non può concedersi all’imputato l’attenuante dello stato d’ira perché se Padovani gli diede un pugno, ciò fece perché si sentì da lui ingiuriato, sicché provocatore deve considerarsi Martino, che invitò l’altro a seguirlo e con lui attaccò lite ingiuriandolo. Per i precedenti penali buoni, all’imputato possono concedersi le attenuanti generiche, che la Corte, nel suo giudizio equitativo, dichiara equivalenti all’aggravante dell’arma. Pena congrua è quella di anni 10 di reclusione, cioè il minimo edittale fissato per il delitto di omicidio preterintenzionale, oltre alle spese, ai danni e alle pene accessorie. In ultimo, non ostando né il titolo del reato, né i precedenti dell’imputato, a costui, in virtù del decreto 23/12/1949 n. 930, vanno condonati anni 3 di reclusione.

Ma Vito Martino deve rispondere anche di furto e minacce, in base alla denuncia presentata contro di lui da Giovanni Megna e la Corte non spreca parole: per il furto non è stata raggiunta prova sufficiente per condannare, anche perché l’accusa del Megna viene fuori con notevole ritardo. Per le minacce manca la querela, non potendosi considerare tale l’atto scritto di denunzia presentato ai Carabinieri perché in esso è detto il motivo della denuncia: portare, ad ogni buon fine, i fatti a conoscenza dell’Autorità.

Martino ricorre per Cassazione e la Suprema Corte, il 4 marzo 1952, converte in appello il ricorso interposto dall’imputato, designando per il giudizio di secondo grado la Corte d’Assise d’Appello di Reggio Calabria che, con sentenza del 25 luglio 1952, conferma la sentenza della Corte d’Assise di Catanzaro.

Il nuovo ricorso dell’imputato, il 28 ottobre 1952, viene dichiarato inammissibile dalla Corte d’Assise d’Appello di Reggio Calabria.[1]

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Catanzaro.