UN INUTILE PESO

La mattina del 26 luglio 1933 il Vice Brigadiere dei Carabiniere Salvatore Starrantino viene avvisato che nella casa segnata al n° 19 di via Pietà a San Lucido è morta una donna. Recatosi sul posto trova, supino sul letto, il cadavere della ventottenne Annunziata Abbate. Seduto in silenzio accanto al letto c’è il fresco vedovo Giuseppe Filippo e Starrantino gli fa cenno di spostarsi per permettergli di osservare da vicino il cadavere e gli basta solo un’occhiata per notare la lingua stretta fra le arcate dentarie e le impronte di profonde unghiate a destra e sinistra sulla parte anteriore del collo.

– Cosa è successo? – chiede al vedovo.

Mia moglie, levatasi dal letto durante la notte, nel prendere della camomilla da una cassa, è rimasta accidentalmente uccisa dal coperchio della cassa, che le è caduto sulla nuca – racconta. Ma Starrantino non è affatto convinto della versione e obietta:

– Non mi sembra possibile, non ci sono segni che possono confermare quello che dici.

– Eppure è così! – insiste.

E insiste anche il Vice Brigadiere, ma Filippo mantiene ferma la sua versione; allora Starrantino lo mette sotto torchio e, finalmente, ottiene la confessione:

L’ho strozzata

– Racconta i particolari.

Mia moglie era a letto al mio fianco e tra noi dormiva il nostro bambino nato pochi giorni fa. Scavalcai il corpicino per non fargli male e afferrai improvvisamente Annunziata per la gola… la tenni stretta per una decina di minuti finché non esalò l’ultimo respiro… – orrore.

– Perché?

Ero stanco dei rimproveri che mia moglie e i familiari mi rivolgevano accusandomi di non lavorare e di lasciar languire la mia famiglia nella miseria

Giuseppe Filippo viene arrestato con l’accusa di uxoricidio e l’autopsia conferma che Annunziata è morta per asfissia meccanica determinata da strozzamento e le modalità del fatto dicono che Giuseppe Filippo ha agito con piena consapevolezza, freddezza d’animo e lucidità di mente. E come è accaduto, ed accade, per tanti altri assassini, molti dicono che prima del delitto mai fece parlare di sé e nemmeno è mai stato riferito alcun episodio della sua vita anteatta che possa anche lontanamente far dubitare della sua pienezza della capacità di intendere e di volere.

Però il movente, per la difesa, non giustifica un delitto così efferato e chiede che l’imputato sia sottoposto a perizia psichiatrica, richiesta che non viene accolta ed il rinvio a giudizio è cosa fatta. Ad occuparsi del caso sarà la Corte d’Assise di Cosenza.

Il dibattimento si tiene il 4 luglio 1934 e la difesa ripropone la richiesta di perizia psichiatrica, basandola sulla testimonianza del sacerdote Ernesto Staffa:

Talvolta il Filippo, allorché si trovava a lavorare in campagna, assumeva strani atteggiamenti; la madre morì di tubercolosi e lui in paese è soprannominato “gattarella” per il suo carattere strano e per la scarsa intelligenza. Le sue condizioni anormali si dovrebbero ravvisare nel fatto che, dopo aver io ottenuto di far ricoverare la moglie al brefotrofio di Cosenza per partorire, ingenuamente mi chiese che qualcuno dei sanitari dell’ospizio propinasse qualche sostanza velenosa alla moglie e la facesse morire, non avendo egli i mezzi per poterla sostentare.

Ma il sacerdote Staffa è l’unico a sostenere che l’imputato ha qualche rotella fuori posto e per la Corte da questo episodio non balza fuori la figura di un individuo menomato nelle sue facoltà psichiche, ma invece dimostra come il Filippo sia privo di senso morale e dei più rudimentali sentimenti affettivi e di pietà. Anzi, contrariamente a quanto era emerso durante l’istruttoria sul fatto che l’imputato, prima del delitto, non aveva mai fatto parlare di sé, adesso dall’escussione degli altri testi rimane provato com’egli, da tempo, considerava la moglie un inutile peso, sicché ne desiderava la morte come una liberazione e non nascondeva i suoi sentimenti di ostilità verso l’infelice donna, di ottimi costumi, remissiva e di carattere mitissimo. Onde, non ingenuità, ma astuto calcolo lo dové spingere a tenere quel discorso al prete, nella speranza che questi, allarmato e preoccupato pei sentimenti così disumani a lui espressi dal Filippo nei confronti della moglie, si adoperasse perché costei non più ritornasse presso il marito o almeno fosse dimessa dall’ospizio il più tardi possibile. Probabilmente le misere condizioni economiche in cui versavano i due coniugi poterono anche contribuire ad esasperare ed acuire lo stato d’animo del giudicabile verso la moglie; può anche essere che furono esse a far sì che il suo innato senso di inaffettività degradasse in odio verso la moglie ma, come è ovvio, si tratta di condizioni ambientali, le quali non vengono prese in considerazione nel diritto penale.

È una dichiarazione della piena responsabilità dell’imputato riguardo all’orrendo delitto commesso. Allora la difesa, basandosi sulla confessione di Giuseppe Filippo che dichiarò, riguardo al movente che lo spinse al delitto, che era stanco dei continui richiami, e conseguenti litigi, della moglie e dei familiari perché non aveva voglia di lavorare, si appiglia a questo per chiedere un’attenuazione del reato per cui è a processo. La risposta della Corte è perentoria: non ricorrono i motivi di attenuazione del reato poiché non è in alcun modo risultato che la vittima avesse continuamente litigato col marito, rimproverandolo oltre misura di non lavorare e di lasciare languire la famiglia nella miseria. Di alterchi e litigi fra i coniugi non vi è traccia alcuna nel processo, mentre è evidente che se in qualche modo fosse vero l’assunto dell’imputato, che è arrivato a dire che la moglie gli aveva reso la vita un inferno, mentre da tutti è stata descritta di animo mitissimo, egli non avrebbe mancato di addurre testimonianze circa le pretese discordie familiari, che finiscono sempre per essere di dominio pubblico, specie nei piccoli paesi.

È tutto, non resta che determinare la pena da infliggere a Giuseppe Filippo: tenuto conto che si tratta di omicidio aggravato perché commesso in persona del coniuge e che i precedenti penali del Filippo sono buoni, stimasi giusto condannarlo alla pena della reclusione per la durata di anni 24, oltre alle spese e alle pene accessorie. Non ci sono costituzioni di parte civile, nemmeno quella del Pubblico Ministero nell’interesse del bambino e Giuseppe Filippo non dovrà pagare i danni.[1]

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.