Durante la campagna granaria del 1930 il meccanico Donato Paradiso, proprietario di una trebbiatrice, si reca con questa in agro di Venosa, provincia di Potenza. Per far funzionare al meglio la macchina servono parecchi operai e operaie, così Paradiso, tra gli altri, assume anche Teodosio Montesano, Francesco Pierulli, Francesco Di Gerardo e le sorelle Teresa ed Antonia Serra, tutti da Palazzo San Gervasio, a qualche chilometro da Venosa. Il 7 luglio, alla fine di una dura giornata di lavoro, Paradiso licenzia Teresa Serra perché poco attiva sul lavoro ed essa, verso le 19,00, se ne torna a casa con i suoi compaesani. Ad un certo momento, quando Montesano e Pierulli sono alquanto avanti agli altri, Di Gerardo si avvicina a Teresa e le fa delle proposte oscene. La giovane, sdegnata, le respinge e chiama a sé Montesano, che si avvicina con Pierulli. Quest’ultimo, senza che nessuno gli abbia detto di avvicinarsi, dice a Teresa:
– A tutti l’hai data ed a noi no?
– Ma stai zitto, scimunito! Finitela tutti e due e lasciate in pace Teresa! – sbotta Montesano, mettendo in riga i due, che così devono desistere dai loro propositi libidinosi e tutti proseguono in silenzio il cammino fino a casa.
Il mattino dopo Teresa va dai Carabinieri e, pur senza sporgere querela, denuncia l’accaduto per le opportune diffide. I militari vanno a fare una visitina a Di Gerardo e Pierulli e li strigliano per bene. Tutto risolto.
È la sera del 9 luglio e l’anziana madre delle sorelle Serra invita Teodosio Montesano ad una frugale cena, come segno di gratitudine per aver difeso Teresa, ed il suo amico Vincenzo Palermo. Verso le 22,30, andati via costoro, il silenzio viene rotto dalle urla di Teresa, uscita in strada svestita:
– Correte a casa mia! Aiutate mia madre perché sono stata io ad ucciderlo! – a uccidere chi?
Per caso sulla strada c’è un Carabiniere che sente le urla e vede Teresa mezza nuda che esce di casa e si precipita a vedere cosa sta succedendo: giacente a terra supino e con i piedi verso la soglia c’è Francesco Di Gerardo, moribondo. Alla vista del Carabiniere, Angela Lorusso, la madre di Teresa, si mette ad urlare a sua volta:
– L’ho ammazzato io perché aveva attentato all’onore di mia figlia Teresa!
– Si, l’ha ammazzato mamma! – le fa eco la figlia minore Antonia.
In questo frattempo Di Gerardo emette un rantolo e muore per la pugnalata alla regione sterno-clavicolare destra che gli ha reciso vena e arteria succlavia.
Tutte e tre le donne vengono portate in caserma e interrogate. Teresa racconta:
– L’ho pugnalato io, loro non c’entrano. Due giorni fa Di Gerardo attentò al mio onore lungo il tratturo da Venosa a qui e stasera, quando i nostri ospiti se ne erano andati, approfittando del fatto che la porta era rimasta socchiusa, è entrato e mi ha trovata svestita… ha tentato di possedermi rinnovando la proposta oscena che mi aveva già fatto, io gli ho detto di pensare a sua moglie appena sposata, ai doveri verso di lei, ma è stato inutile. Allora lui ha tentato di afferrarmi, ma io sono stata svelta ad andare vicino alla porta, a prendere il pugnale che tenevo nascosto in un buco del muro ed a colpirlo con tutta la forza che avevo, poi sono uscita come mi trovavo e ho chiesto aiuto…
La madre e la sorella invece ritrattano e confermano che ha fatto tutto Teresa da sola. Ma poi il padre della vittima si presenta in Procura e fa una dichiarazione agghiacciante:
– L’otto luglio, il giorno successivo all’episodio svoltosi sul tratturo, andai a casa delle donne e Teresa, presenti la madre e la sorella, mi disse testualmente: “questi non sono fatti tuoi, me la debbo vedere io, tuo figlio ha tempo di vedere la moglie fino a questa sera, ma poi non la vedrà più!”.
Se l’uomo riuscisse a provare la minaccia, si tratterebbe di omicidio premeditato, ma non ha altri testimoni che la madre e la sorella di Teresa, che lo smentiscono categoricamente e restano solo parole, così la soluzione del caso sembra semplice: Francesco Di Gerardo è entrato di notte in casa di Teresa per violentarla, lei ha reagito e lo ha ucciso.
Chiuse le indagini, la Procura chiede il rinvio a giudizio di Teresa Serra per rispondere di omicidio volontario ed il proscioglimento della madre e della sorella per non aver commesso il fatto. Il 7 marzo 1931, però, la Sezione d’Accusa, in parziale difformità con la richiesta della Procura, ritiene che l’omicidio sia stato commesso in concorso dalle tre donne e ne dispone il rinvio davanti alla Corte d’Assise di Potenza, mettendo in rilievo alcune circostanze che ritiene decisive: 1) Il Di Gerardo fu attirato nella casa ove trovò la morte e non vi si sarebbe recato a scopo spontaneo libidinoso, dovendo sapere che la casa era abitata da tre donne. 2) La Teresa aveva fama di donna leggera, che ben poteva concedere favori illeciti. 3) È assurdo che la Teresa possedesse un pugnale e che ciò non fosse a conoscenza della madre e della sorella. 4) È assurdo che la porta di casa fosse soltanto socchiusa e non assicurata bene dalla parte interna nella notte. 5) La minaccia di morte fatta al padre della vittima.
Il 28 giugno 1932 si apre il dibattimento e la Corte, letti gli atti e ascoltati i testimoni, osserva subito che è facile dimostrare che nessuno degli argomenti evidenziati dalla Sezione d’Accusa abbia solida base, infatti, è assolutamente arbitrario il presupposto di essere Teresa Serra giovane di liberi costumi: tutti i testi concordemente han detto essere essa onesta e la Serra ha chiesto ripetutamente esser sottoposta a visita medica per tanto assodare. E se non fosse stata onesta, lungi dal respingere sdegnosamente le prime proposte oscene del Di Gerardo lungo il tratturo, le avrebbe accolte e non si sarebbe recata presso i Carabinieri a muovere doglianze. L’avere ciò fatto indica anche che essa abbia voluto adoperare mezzi legali per sottrarre sé stessa alle impure voglie del Di Gerardo. Le parole di minaccia riferite in un primo tempo dal padre della vittima sono state ritrattate in pubblica udienza e smentite; la porta di casa poté bene essere lasciata socchiusa e non solidamente assicurata in una località ed in un’epoca in cui i frequenti movimenti tellurici costringevano spesso le persone a fuggire rapidamente all’aperto; il possesso del pugnale è spiegabile se si consideri che le tre donne dimoravano sole in una stanza ove facilmente si poteva accedere dalla via. Di Gerardo, dimentico dei doveri, che pure avrebbe dovuto ricordare, verso la propria giovane sposa impalmata da quattro mesi soltanto, dimentico del doveroso rispetto verso una onesta compagna di lavoro, eccitato dal sole ardente di luglio e dal trovarsi in località poco frequentata con una giovane, tentò possederla. Le ripulse di costei ed i richiami di Teodosio Montesano sedarono per poco le insane voglie, che risorsero più violente nella sera del 9 successivo, in cui Di Gerardo, dopo aver mandato la moglie dal suocero e averle detto di volersi recare a far visita a un amico, andò invece in casa di Teresa Serra, ignorando che anche la sorella Antonia vi si trovasse, credendola ancora a Venosa, e senza temer nulla per la presenza della vecchia Di Lorenzo, penetrò in casa e tentò possedere la giovane Teresa la quale, indignata e sorpresa, gli ricordò dapprima i doveri coniugali che avrebbero dovuto farlo desistere da ogni atto simile e poscia lo colpì col pugnale che teneva celato in un buco presso la porta d’ingresso.
Una dura reprimenda sull’operato della Sezione d’Accusa e le cose sembrano mettersi bene per Teresa. Poi la Corte continua: da quanto si è detto, risulta che Teresa Serra abbia agito al fine di difendere il proprio onore dal pericolo attuale che su di lei incombeva a causa dell’audacia di Di Gerardo che l’aveva sorpresa in casa quasi svestita ed in procinto di andare a letto. La giovane, spaventata e sorpresa, non avendo presso di sé un uomo che, come già fece Montesano, potesse darle aiuto, ma una vecchia ed una giovanetta, prese il pugnale e vibrò i colpi. La difesa, però, non fu proporzionata e vi fu eccesso da parte della rea, nei confronti della quale va affermata la colpabilità e vanno applicate le sanzioni più favorevoli previste dal vigente Codice Penale. Tenuto conto delle circostanze del fatto, la pena circa l’omicidio può determinarsi in anni 2 e mesi 6 di reclusione; quella circa l’omessa denunzia di pugnale in mesi 1 di arresti, più pene accessorie, spese e danni.
Angela Di Lorenzo e la figlia Antonia Serra non soltanto non preordinarono con Teresa il delitto, ma restarono estranee ad esso e vanno assolte per non aver commesso il fatto loro ascritto.
Siamo a Potenza ed è il 2 luglio 1932.[1]
[1] ASPZ, Sentenze della Corte d’Assise di Potenza.