CATERINA, I FRATELLI E IL PARROCO

Sabato 27 aprile 1878. Alle otto di mattina nella chiesa di Santa Barbara a Piane Crati ci sono già una decina di fedeli che aspettano di seguire la messa, ma il prete, don Francesco Dell’Osso, non è ancora arrivato.

Rosa Elia entra, bagna le dita nell’acqua santa, si fa il segno della croce e va ad occupare il suo posto nella seconda fila di sedie, non prima di essersi inginocchiata davanti all’altare. Dietro di lei è entrato don Francesco che percorre il corridoio centrale, arriva sul primo dei due gradini che immettono all’altare maggiore, accenna ad inginocchiarsi ed a farsi il segno della croce, quando una fortissima detonazione squassa la sacralità del silenzio.

Il prete si accascia al suolo, i piedi sul primo gradino, rivolti verso l’altare, e la testa, dalla quale comincia a fluire il sangue, rivolta verso l’uscita. Tutti urlano terrorizzati e scappano in cerca di riparo tranne Rosa Elia che, con calma, si gira verso il portone della chiesa, alza lo sguardo sul soppalco dove c’è l’organo e vede Serafino Marrazzo con un fucile in mano. Accanto a lui si intravede la testa di suo fratello Carmine, il sacrestano, e una rivoltella che fa capolino accanto a lui. Rosa adesso guarda verso il prete e vede le sorelle del parroco che ne dolorano la perdita, poi alzano un grido di speranza perché, forse vedendone gli ultimi movimenti, credono che sia ancora vivo.

– È vivo! È vivo!

Allora, istintivamente, Rosa rivolge lo sguardo verso il soppalco dell’organo e vede Serafino tutto intento a ricaricare il suo fucile e quindi impugnarlo novellamente alla direzione del parroco, ma subito desiste perché le sorelle ripigliano i loro lamenti, annunziando la triste fine ch’è toccata al proprio germano.

Mentre don Francesco stava entrando in chiesa per dire messa, suo fratello Alfonso stava parlando con alcuni amici nel cimitero accanto alla chiesa, poggiato alla croce che vi è impiantata. Alla detonazione, Alfonso toglie il suo revolver dalla fondina e, tenendolo impugnato, come un baleno si precipita in chiesa, presago del fatto avvenuto. Entra e sente le sorelle annunziare la morte di don Francesco e, mentre tutti corrono fuori dalla chiesa, vorrebbe fare strage di chi gli ha ammazzato il fratello, ma viene trascinato via da alcune persone che hanno visto i fratelli Marrazzo armati e temono che possano sparare ancora. Il portone della chiesa viene chiuso ed all’interno restano i fratelli Marrazzo e don Francesco morto stecchito con accanto il suo cappello da prete con un tesa bucata.

Dopo circa un’ora e mezza arrivano da Aprigliano, trafelati, i Carabinieri che circondano la chiesa e poi vi fanno irruzione. Sul soppalco dell’organo c’è Carmine con il fucile in mano e, mentre i militari si accingono a salire la scala a chiocciola per andarlo a prendere, vengono preceduti da Alfonso Dell’Osso con il revolver in mano.

– Bastardo! Ngulacchitemmuartu! – gli urla, afferrandolo per il petto con la sinistra, mentre con la destra gli spara un colpo in testa a bruciapelo. Fortunatamente il proiettile si conficca superficialmente nel sopracciglio sinistro, uscendo dalla fronte senza toccare l’osso. Proprio in questo momento sbuca dalla scala il Maresciallo Domenico Compirlo con la pistola in mano.

– Fermo! Butta l’arma!

Alfonso Dell’Osso si ferma ma non butta il revolver, forse non ha capito l’ordine, e gli va di lusso perché il Maresciallo gli spara contro un colpo che, anche questa volta fortunatamente, va a vuoto, come a vuoto va anche il colpo che gli spara Carmine Marrazzo. I due vengono ammanettati e portati in caserma. Ma all’appello manca Serafino Marrazzo. Sicuramente non è riuscito ad uscire e deve essere nascosto da qualche parte in chiesa. No, in chiesa sembra non esserci. Poi a qualcuno viene in mente che la chiesa ha anche una soffitta ed è lì che dopo quasi un’ora di ricerche lo trovano, disarmato.

Messa al sicuro la chiesa, adesso è il momento dei rilievi sul cadavere di Don Francesco, affidati al dottor Luigi Talarico di Rogliano.

Sull’osso parietale sinistro c’è il foro di entrata di un proiettile, di figura circolare della circonferenza  di circa sette millimetri, che esce dall’occhio destro, serbando un cammino da sopra in sotto. Il proiettile, detto “coccio di cece”, ha attraversato tutta la massa cerebrale. Altra ferita, anche di figura circolare, ma di dimensione molto più spaziosa della prima perché di millimetri venti, sulla regione sottoascellare sinistra. Lo stesso cammino è stato seguito dalla così detta “palla maestra” la quale, entrando dalla regione sottoascellare sinistra ha attraversato il cuore passando da parte a parte i ventricoli. Don Francesco non aveva scampo: entrambe le ferite erano di per sé istantaneamente mortali.

Ma perché i fratelli Marrazzo odiavano così strenuamente il parroco da ucciderlo sull’altare della chiesa? Intanto bisogna anticipare che a Piane Crati tutti sanno dell’odio dei Marrazzo e tutti, probabilmente, si aspettavano che da un momento all’altro qualcosa di grave sarebbe successa, anche perché è notorio che una settimana prima del fatto, il sabato Santo, i fratelli Marrazzo, mentre don Francesco faceva il giro del paese per benedire le case, si erano appostati per fargli la festa, ma il piano era fallito. L’occasione per chiarire una volta per tutte il movente dell’omicidio del parroco è data dagli interrogatori di Carmine e Salvatore Marrazzo. Racconta il primo, il sacrestano, al Pretore di Rogliano:

Il Parroco Francesco Dell’Osso mostrava in sulle prime dell’amicizia per me ed io, essendo sagrestano della chiesa, lo amavo e rispettavo oltre ogni dire, tanto che con piacere lo accettai per compare, facendomi cresimare da lui. Stante tale intimità, avendo lui bisogno in casa, gli mandammo nostra sorella Caterina come domestica. Così continuarono le cose per circa tre anni, ma alla fine ebbi ad accorgermi che le cose non andavano dritte e che tra mia sorella e lui vi erano delle impudiche relazioni. Allora si fu che io me ne dispiacqui sommamente perché vedevo tradita un’amicizia sincera e ricolmo di disonore tutto il mio esteso parentato. Del mio contegno dispiaciuto si accorse lui ed in un giorno di marzo ultimo, chiamatomi in sua casa, mi manifestò egli stesso il suo mal operato chiedendomi consiglio per potervi rimediare. A tali accenti che mi manifestavano la propria ignominia, potete figurarvi in che modo me ne dovetti addolorare, per lo ché gli dissi delle parole risentite, cui egli rispose dicendo che non mi temeva perché ero un inetto. Io, non avendo armi in quel momento, dovetti tollerare l’insulto ch’egli aggiungeva all’onta arrecatami, quindi mi limitai a dirgli: “Chi forza non ha, opera ingegno…”. Così ci divisimo l’uno dall’altro via più disgustati. Domenica delle Palme poi mi fece le corna in mia presenza poiché, nell’atto io facevo dei servizi in chiesa, egli se ne stiede dentro la sagrestia chiuso con mia sorella per più di tre quarti d’ora ed io che pensavo non dicessero certo dei paternostri, pure dovetti tollerare tali fatti perché non avevo punto armi per ucciderli entrambi, altrimenti l’avrei fatto. Vedendo, intanto, il parroco che era tutto manifesto al pubblico e che i miei parenti si erano informati, pensò maritare mia sorella dandola in isposa a Luigi Mauro. Questi, però, avendo veduto che mia sorella era gravida di quattro mesi, l’ha espulsa da sua casa e l’ha costretta a ritornare in quella di mia madre. Tutte queste cose mi hanno fatto risolvere di uccidere il parroco per vendicare così nel suo sangue il mio onore oltraggiato. All’effetto ne ho parlato a mio fratello Serafino, il quale ha approvato la mia risoluzione e, siccome in casa tenevamo un fucile e con un revolver che ò comprato in Cosenza da una persona che non conosco, mi sono portato questa notte… – il Magistrato lo interrompe e dice:

– Come sono andate le cose lo vedremo tra poco, adesso voglio sentire cosa ha da dire vostro fratello in merito.

Il parroco aveva tolto l’onore a mia sorella ed insultato mio fratello chiamandolo “storpio” e dicendogli che non lo temeva. Per questo abbiamo risoluto di ucciderlo

Storpio. Che brutta parola! Carmine soffre di rachitismo: è molto gracile ed alto poco più di un metro, così è facile offenderlo e prenderlo in giro senza temere conseguenze. Ma l’onore ferito e le offese personali sono una miscela altamente esplosiva e quando se ne accende la miccia sono guai molto seri.

Al Pretore però non basta, vuole essere assolutamente certo del movente e per farlo deve interrogare la trentenne Caterina Marrazzo e farla visitare per stabilire se sia davvero incinta o se lo sia stata ed abbia abortito perché in questo caso ne subirebbe le conseguenze penali.

Io facevo dei servizi in casa del parroco il quale, acquistando dimestichezza con me cercò di sedurmi, però io non volli condiscendere alle sue libidinose voglie. Un giorno che non so precisare, trovandomi sola in chiesa, abusò della mia persona nella sagrestia, ove mi condusse a forza, dietro chiusa la porta. Avendosi egli così raccolto il fiore della mia verginità, mi possedé per altre due volte nella chiesa stessa, tanto che ora sono incinta di circa quattro mesi per causa sua. Per coprire il mio onore perduto, mi sono data in isposa ad un vecchio, ma non avendomi trovata vergine e di più accortosi che sono gravida, mi ha discacciato di sua casa e mi ha abbandonato. Il parroco, informato di questi fatti, credendo di riconciliarmi col marito facendo sparire la gravidanza, mi ha consigliato l’aborto e mi ha somministrato dei medicinali adatti, che io però non ho voluto adoperare. I miei fratelli non potendo tollerare l’onta ricevuta, hanno risoluto vendicarsene e l’hanno ucciso

Poi il dottor Luigi Talarico la visita e conferma che è incinta. Il movente è certo, valido e grave. Quello che resta da stabilire è chi dei due fratelli abbia materialmente imbracciato il fucile ad una canna e premuto il grilletto. Secondo Rosa Elia, come abbiamo visto, è stato Serafino, ma quando sono arrivati i Carabinieri il fucile lo aveva in mano Carmine, che adesso può continuare a raccontare la sua versione dei fatti al Pretore:

– Come vi dicevo, mi sono portato questa mattina nella chiesa in compagnia di mio fratello circa un’ora prima di far giorno e, saliti sull’organo, abbiamo da colà aspettato che entrasse il parroco. Dopo circa tre ore è venuto il parroco per celebrare la messa e, com’è costume dei preti, è salito su del gradino dell’altare per inginocchiarsi e pregare. Io, standogli di rincontro e vedendolo nettamente, ho detto fra me e me: “ora è il momento” e così, inarcato il fucile che avevo caricato con una palla e tredici piccoli pallini, stando in piedi gli ho aggiustato un colpo così fatale per lui, che immediatamente l’ha estinto. Mio fratello, come vi ho detto, era con me pronto a darmi soccorso ove ne avessi avuto bisogno, ma egli non ha fatto nulla perché non aveva armi e perché tutto è stato da me eseguito.

Ma su questa versione dei fatti ci sono molti dubbi: in primo luogo si dubita del fatto che Carmine abbia potuto mettere da parte in un mese la bellezza di ventidue lire, guadagnandone solo una al giorno:

Si che me le ho risparmiate, provando anche la fame perché ero risoluto di ucciderlo!

Il secondo dubbio, ma non in ordine di importanza, è, considerato che l’altezza del parapetto del soppalco è di un metro, che non gli fosse stato materialmente possibile sparare perché gli sarebbe spuntata fuori dal parapetto solo la testa e nemmeno tutta. Carmine questa osservazione non se l’aspettava, si mostra un poco confuso e si contraddice:

Io salii su di una sedia ch’era nell’organo

Il terzo dubbio è sulla capacità di Carmine ad imbracciare correttamente il fucile, visto che in rapporto al suo fisico ed al suo peso rispetto alla lunghezza ed al peso dell’arma riesce difficile da credere. Infatti, fattogli impugnare il fucile repertato, lo imbraccia con molta difficoltà.

Il quarto è sulla posizione che, in base al suo racconto, avrebbe occupato suo fratello Serafino sul soppalco. Se fosse come sostiene Carmine, il fratello sarebbe stato investito in pieno dal ritorno di fiamma dell’arma. Carmine è in grave difficoltà e non sa rispondere.

Poi, alla contestazione che ci sono dei testimoni che, immediatamente dopo lo sparo, hanno visto il fucile in mano a Serafino, si stringe nelle spalle e non risponde.

– Tornando alla domenica delle Palme, chi di voi due si è appostato per sparare al parroco?

Mio fratello Serafino

– Chi vi ha dato il revolver?

È stato comprato

– Non è vero, non avevate i soldi per comprarlo, ve lo ha dato qualcuno che aveva pure interesse che il parroco fosse ucciso! – perché il Pretore fa questa contestazione nuova e grave? Perché, nel frattempo, sia Alfonso Dell’Osso che le sue due sorelle hanno dichiarato che dietro i fratelli Marrazzo ci sarebbe una persona molto in vista a Piane Crati, il possidente don Francesco Abbenante, nemico acerrimo del parroco per una questione riguardante la celebrazione di una messa di suffragio, poi il Pretore continua – Io so chi ti ha dato il revolver!

E dunque che tu sai… – e tronca la risposta.

La Giustizia vuole saperlo da te!

Carmine scuote la testa e non risponde. Bisognerà cercare di far confessare il delitto a Serafino e, per non sbagliare, in carcere finisce anche Abbenante, sospettato di aver fornito ai fratelli Marrazzo le armi usate per uccidere il parroco.

Ma la famiglia del parroco, nonostante Alfonso Dell’Osso nel suo interrogatorio sia costretto ad ammettere (non avrebbe potuto fare altrimenti per non essere smentito dal Maresciallo Compirlo) che si è trovato presente ad un colloquio tra suo fratello ed il Maresciallo, il quale gli diceva di aver saputo che una donna aveva commercio con lui ed avendo saputo che si cercava procurare un aborto, lo avvertiva ad esser cauto e ad evitare tali fatti, se pure fossero stati veri, mentre la giustizia, essendone informata, poteva egli incorrere ad una grave responsabilità, rendendosi conto che la memoria di don Francesco è stata messa sotto i piedi e non basta aver fatto in modo di coinvolgere don Francesco Abbenante, cambia strategia e ora punta a squalificare la moralità di Caterina Marrazzo e per farlo scende in campo il pater familias Michele Dell’Osso, il quale sostiene che Caterina ha avuto commercio carnale con altri uomini e per discolparsi con i fratelli e col pubblico ed anche per estorcere a noi del denaro, disse che mio figlio l’aveva ingravidata. Ma di seguito, vinta dai rimorsi della propria coscienza, si ritrattò con tutti. Poi cala un altro carico da undici: dietro i Marrazzo non ci sarebbe solo don Francesco Abbenente, ma anche don Raffaele Le Piane, altro acerrimo nemico della famiglia Dell’Osso. Ma don Raffaele Le Piane non entra nemmeno di striscio nel processo perché le accuse sono palesemente infondate.

Il parroco aveva tolto l’onore a mia sorella ed insultato mio fratello con chiamarlo “storpio” e dicendogli che non lo temeva ed è per questo che abbiamo risoluto di ucciderlo – ripete Serafino Marrazzo – Mio fratello era armato di fucile che sin da quattro giorni prima aveva caricato con una palla e tredici pallini per tale scopo e ciò in mia presenza e con la mia assistenza. Io ero senz’armi e solo per prestare aiuto, ove bisognasse, a mio fratello. Quando venne in chiesa il parroco per celebrare la messa e nell’atto che egli stava per inginocchiarsi sul gradino dell’altare maggiore, mio fratello gli ha tirato un colpo di fucile, che subito l’uccise. Dopo l’accaduto è venuto Alfonso dell’Osso ed è stato lui che ha tirato un colpo di revolver a mio fratello Carmine, il quale di rimando pure gli ha tirato un colpo col suo revolver, ma nel fine solo di farlo allontanare.

– Chi vi ha dato le armi?

Il fucile da più anni lo avevamo in casa ed il revolver l’ho comprato io in Cosenza per quindici lire da uno sconosciuto.

Ahi! Per la prima volta i fratelli si contraddicono, uno ha detto di aver comprato il revolver per 22 lire e l’altro per 15, ed il Pretore decide  di mettere a confronto Carmine e Serafino per cercare di fargli ammettere che il revolver glielo fornì Abbenante. I due si mostrano confusi e non sanno dare adeguate risposte, ma tuttavia non cedono e non fanno nomi. Poi Carmine viene portato via e il Magistrato continua ad interrogare Serafino:

– Il parroco aveva in paese altri nemici oltre a voi?

Non so se il parroco aveva altri nemici ed anche se ne avesse avuti, è certezza che noi abbiamo agito per conto proprio!

Nessuna ammissione anche se è chiaro che si tratta di una strategia difensiva quella di accollare a Carmine l’omicidio perché ha molto meno da perdere rispetto a suo fratello. Ma queste sono solo congetture, allo stato c’è un reo confesso, suo fratello che ammette di averlo aiutato nella preparazione del delitto ed una terza persona accusata di aver fornito almeno una delle due armi viste in chiesa, ma senza alcun riscontro oggettivo e con la sola colpa di essere in forte attrito con la vittima. Poi c’è il fratello della vittima che ha sparato un colpo in testa al reo confesso con l’evidente intenzione di ucciderlo e che è accusato di lesioni gravi con sfregio permanente al viso.

D’altra parte bisogna però considerare che se Carmine e Serafino Marrazzo non cambiano le loro dichiarazioni, a sostenere la tesi che fu Serafino e non Carmine a premere materialmente il grilletto ci sono una testimone oculare e la costituzione fisica di Carmine, che ha difficoltà ad imbracciare il pesante fucile usato per uccidere il parroco, e quindi figurarsi a prendere la mira in un paio di secondi e centrare il bersaglio a 13 metri di distanza.

Con qualche certezza e qualche dubbio le indagini possono considerarsi concluse e le carte vengono inviate in Procura dove il Pubblico Ministero formula le sue richieste di rinvio a giudizio:

  1. Contro Serafino Marrazzo quale imputato autore principale di assassinio per premeditazione ed agguato in persona del parroco Francesco Dell’Osso.
  2. Contro Carmine Marrazzo più come complice per assistenza ed aiuto con premeditazione ed agguato nei fatti che prepararono, facilitarono e compirono il predetto reato.
  3. Contro Alfonso Dell’Osso come imputato di ferita volontaria con arma da fuoco in persona di Carmine Marrazzo.

Lo sfregio permanente non viene considerato, tanto Carmine è rovinato di suo dalla nascita, e il mancato riconoscimento dell’aggravante certamente farà la differenza nella comminazione della pena.

Nelle richieste di rinvio a giudizio non c’è, come è giusto che sia, Francesco Abbenante per assoluta mancanza di prove di avere egli avuto alcuna parte nella consumazione dell’assassinio.

Il 30 ottobre 1878 le richieste vengono accolte e ad occuparsi del caso sarà la Corte d’Assise di Cosenza.

La discussione della causa viene fissata per la mattina del 3 giugno 1879. Lo stesso pomeriggio, letti gli atti ed ascoltati i testimoni, la Corte stima che non si tratti di omicidio premeditato, ma di omicidio volontario, ritenendone Serafino Marrazzo l’autore materiale e, considerate le attenuanti dello stato d’ira per fatto ingiusto della vittima, della provocazione grave e le attenuanti generiche, lo condanna ad anni 7 di reclusione. Carmine Marrazzo è ritenuto responsabile di complicità necessaria nel delitto e, considerate le stesse attenuanti concesse a suo fratello, viene condannato ad anni 7 di reclusione, oltre pene accessorie, spese e danni per entrambi.

Alfonso Dell’Osso viene prosciolto perché ha agito nello stato di necessità attuale di legittima difesa.[1]

[1] ASCS, Processi Penali.