LA PRIMA NOTTE DI NOZZE

È domenica 24 ottobre 1920. A Casal di Basso, frazione del comune di Paterno Calabro, il tempo è bruttissimo, scroscia rabbiosa la pioggia ed una fitta nebbia avviluppa ogni cosa. Una di quelle domeniche, insomma, durante le quali è meglio stare in casa davanti al focolare. Ma non questa domenica. Oggi, a Casal di Basso, il giovane ed agiato contadino Francesco Naccarato realizza il suo lungo sogno d’amore con lo sposare Catina Naccarato, virtuosa e avvenente popolana, da gran tempo amata e tenacemente desiderata.

Catina è bellissima nel suo costume pazientemente ricamato per mesi prima di andare a dormire, quasi accecandosi alla luce della luna, quando c’era, o di un moccolo di candela.  E poi  quella rosa di lino bianca, simbolo della sua purezza, intrecciata tra i capelli neri come le penne di corvo. Francesco, impettito e rigido come un palo di legno nel suo vestito nero, quando la vede per poco non sviene dall’emozione. Poi le formule di rito lette dal sindaco, le firme, cioè le croci, sul registro, l’uscita dal portone del Municipio sulla strada e la pioggia che li bagna.

– Sposa bagnata, sposa fortunata! – urlano allegramente tutti gli invitati in coro, predicendo un fortunato futuro ai novelli sposi i quali, seguiti da un numeroso corteo di parenti ed amici, fra gli spari di giubilo rituali, ritornano a casa per sedere al desco, ove appetitose vivande sono state preparate per l’occasione. Si mangia, si beve e si balla allegramente, poi a tarda notte gli invitati si congedano dagli sposi rinnovando gli auguri.

Francesco e Catina restano da soli e la tanto sospirata prima notte di nozze spalanca le sue braccia ai due innamorati che si guardano con occhi dolci, poi si avvicinano mano nella mano al letto nuovo, preparato con le lenzuola del corredo, bianche e profumate, come gli asciugamani messi ai piedi del letto.

Ma all’improvviso lo sposo diventa taciturno e mesto, così a Catina, dopo aver amorevolmente cercato di riportare il sorriso sulle labbra di suo marito e abbandonarsi finalmente l’una tra le braccia dell’altro, non resta altro da fare se non mettersi a letto e cercare di addormentarsi, ma è inutile perché non riesce a soffocare le lacrime. Il dubbio le si insinua prepotente in testa: ha detto o fatto qualcosa che può aver turbato Francesco? Ripercorre ogni secondo della giornata e non riesce a trovare niente che abbia potuto ferirlo. E poi, ammesso che avesse fatto qualcosa di sbagliato, perché non rinfacciarglielo? Tra mille dubbi, ansie e paure, la sposina cerca per ore di scrutare nel buio il marito, tentando di carpire ogni movimento, ogni respiro che possa essere utile a svelare il mistero del cambiamento di umore.

Nemmeno Francesco può prender sonno. Ha come la sensazione che il talamo nuziale sia irto di di pungentissime spine e continua a girarsi e rigirarsi da un lato all’altro. Poi, in preda a strani fenomeni psichici, si alza e accende il lume.

– Dove vai? Vieni qui… – lo supplica Catina spalancando le braccia per accoglierlo.

– Non riesco a stare coricato, il letto mi sembra fatto di spine… lasciami in pace e dormi.

– Ma perché? Che hai? Ti ho fatto qualcosa? Parla, ti prego! – lo supplica piangendo, ma Francesco non risponde e si mette a camminare avanti e indietro nella stanza, finché non comincia ad albeggiare, quindi si mette la giacca ed esce.

Devo sbrigare alcune faccende… – dice a Catina mentre richiude la porta alle proprie spalle.

Qualche vicino, già in strada per andare a zappare la terra, lo incontra e nota il pallore del suo volto e ci scherza su, immaginando la stanchezza dello sposino dopo la prima notte di nozze.

– Buongiorno Francì! Tutt’a posto? Si stancatu? Eh! Pure io la prima notte…

Lassami futtere!

– E mammamia, manco ti avessi tirato una bastonata! – il vicino trova estremamente strano il suo umore cupo, ma è tardi e bisogna affrettare il passo.

Dopo un po’ Francesco rientra a casa, nella stanza nuziale, stacca dal muro il fucile con cui aveva sparato a salve il giorno prima per festeggiare le nozze e dice a Catina:

– Vado a pulirlo sotto nella stalla …

E scende dalla ripida scala a pioli. Catina continua a rimuginare su ciò che ha potuto turbare fino a quel punto suo marito, ma continua a non trovare risposte.

Francesco è nella stalla, soppesa il fucile mentre un turbine di pensieri gli attraversa la mente, poi una scossa lo attraversa e goccioline di sudore gelato gli imperlano la fronte. Sblocca il fucile che si apre in due, mette una mano in tasca e la toglie stringendola a pugno. Quando la apre fissa per qualche secondo il cilindro di cartone sormontato da un lato da una corona metallica. Sospira mentre gli occhi gli si inumidiscono, quindi introduce nell’arma una cartuccia carica a pallini, poggia la bocca del fucile alla tempia destra e tira il grilletto.

L’arma esplode con gran fragore ed il povero giovane cade riverso su di un mucchio di letame. Alla cupa detonazione Catina rimane come pietrificata, incapace di capire, forse perché si rifiuta di capire. Poi, in un baleno accorrono alcuni vicini e, tra il fumo e l’acre odore di polvere da sparo, trovano Francesco, con a lato il fucile, immerso nel proprio sangue, negli ultimi contorcimenti d’una brevissima agonia.

L’infelice ha la parete craniale fracassata dai proiettili, con fuoriuscita di sostanza cerebrale. Inorriditi e terrificati, i vicini corrono ad avvertire i famigliari che, esterrefatti, s’abbandonano a strazianti scene di dolore.

La notizia della disgrazia si sparge in un batter d’occhio per tutto il paese e frotte di curiosi arrivano sul posto per cogliere qualche particolare sfuggito agli altri e commentare per rintracciare una possibile causa: ragioni d’indole intima? Improvvisa follia? Nessuno può sapere ciò che arrovellava Francesco.

Arrivano i Carabinieri e, in attesa dell’arrivo del Magistrato, piantonano il cadavere. E lo piantonano fino alla sera del martedì seguente. Ma come si può lasciare il cadavere di un uomo per due giorni disteso sul letame e con il cervello che fuoriesce dal cranio mischiandosi con escrementi animali? Finalmente il Magistrato competente fa sapere di non poter essere presente sul luogo, è impegnato in altre faccende, e il cadavere può essere portato al cimitero, pietosamente accompagnato da una folla commossa e piangente.

La povera Catina, inebetita dal dolore, torna al paterno tetto, nel suo lettuccio verginale, con dinanzi la terribile visione del suo infausto giorno di nozze, che aveva sognato gravido di belle speranze e che, invece, è crollato miseramente per l’ineluttabilità dell’amaro fato, allo spuntare dell’alba di una fosca tragedia.[1]

 

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[1] Biblioteca Civica di Cosenza, Cronaca di Calabria.