TRA PADRE E FIGLIO

So che da lunga data Angelo Caputo non andava d’accordo col figlio Giovanni, oggi defunto, a ragione di interessi. Non solo: Angelo Caputo avversava fieramente e forse anche odiava il figlio. Infatti, è a dire che le loro questioni risalgono a molti e molti anni fa – a raccontare questa storia al Pretore di Verbicaro è Antonio Franco, cinquantenne contadino di Grisolia –. Angelo possedeva uno spezzone di terreno in contrada “Bocca di carpino” dell’estensione di circa una moggiata, terra da seminario. Tale fondo era in origine di proprietà comunale e si prendeva in fitto pagando il tributo relativo. Ciò ebbe a fare Angelo Caputo sino all’epoca, però, in cui il figlio Giovanni si accasò; in tale epoca il figlio subentrò nella coltura e nello sfruttamento di quel fondo. Il vecchio Caputo si lamentava di tale fatto e io ho sentito da lui stesso le lagnanze

– Si lagnò in paese, magari in qualche bettola, o in campagna? – gli chiede il Pretore

– No, all’estero, precisamente in Argentina, dove ci siamo trovati insieme per ragioni di lavoro… mi raccontò di essere stato costretto ad espatriare a cagione che il figlio si era voluto fare padrone di quella terra che, a suo dire, egli avrebbe potuto ancora sfruttare o vendere, senza spingersi all’emigrazione

– Pensate che sia vero?

Non so quanto di vero potessero contenere le asserzioni del vecchio Caputo; credo però ch’egli spontaneamente abbia ceduto la terra al figlio, del resto era tenuto al pagamento dell’estaglio all’atto della conchiusione delle di lui nozze

– Non vi disse altro?

No, ma quando tornai in paese, qualche mese dopo di Angelo, dalla voce pubblica ho saputo che vi erano sempre dei dissidi nella famiglia Caputo, specialmente tra il padre e il figlio Giovanni a ragione di interesse. Recentemente tali dissidi si sono acuiti in quanto il vecchio Caputo aveva fatta la divisione dei suoi beni ai figli, riservandosene l’usufrutto… pare che Giovanni, il figlio, non corrispondesse regolarmente al vecchio quanto fra loro era stato convenuto. Nei contrasti, poi, con lo scorrere del tempo, ebbe a partecipare anche la sorella e il di lei marito Giuseppe Salemme. Pare anche che il vecchio volesse, a qualunque costo, che Giovanni gli rilasciasse dei terreni e dei beni già assegnatigli e che, di conseguenza, aizzasse o causasse le ragioni di contrasto fra i due cognati, schierandosi apertamente in favore del genero e contro il figlio

– Troppi “pare”… non sapete nulla di più preciso?

– No, questo è tutto…

Ma perché, vi chiederete, il dottor Bernardo Comella, Pretore di Verbicaro, è così interessato alle faccende della famiglia Caputo da farsele raccontare da Antonio Franco il 7 marzo 1930? Bene, torniamo indietro di qualche mese, precisamente alla mattina del 12 novembre 1929, quando Giovanni Caputo esce di casa per andare a fare riparare una zappa nella bottega del fabbro Bonifacio De Marco in via del Progresso a Grisolia e quando suo cognato Peppino Salemme esce di casa per andare nella sua stalla, quasi accanto alla bottega del fabbro, per riempire di letame alcuni sacchi, accompagnato dal suocero Angelo Caputo.

– Ho finito il carbone – dice il fabbro a Giovanni Caputo

– Vado a prenderne un po’ nella stalla – gli risponde ed esce

Il fabbro, rimasto da solo, sente le voci concitate di Giovanni e di suo cognato Peppino che sembrano litigare, poi più niente.

Aperta la stalla, Giovanni viene raggiunto da suo padre che, a muso duro, gli dice

È vero che hai detto che devi darmi uno schiaffo?

E perché vi dovrei prendere a schiaffi? È impossibile che io abbia pronunziato una cosa simile al vostro indirizzo… – gli risponde

No, voglio che mi meni, stamattina mi devi menare, mi devi menare a qualunque costo… hai detto che mi devi dare uno schiaffone, ebbene ora me lo devi dare! – continua il vecchio Caputo

Ma è possibile che il figlio deve dare schiaffi al padre? Andate, andate tranquillo che io non ho assolutamente intenzione di fare ciò che voi dite – protesta Giovanni, che esce dalla stalla per sottrarsi a quella che ritiene una vera e propria provocazione, giusto il tempo di permettere al vecchio Caputo di sfilare la chiave dalla serratura della stalla e di mettersela in tasca.

Ora vado dai Carabinieri e ti faccio arrestare perché sei nella mia roba, mi devi dare la roba mia! – insiste il vecchio

I Carabinieri non possono arrestare a chi non fa nulla! Siete ubriaco di prima mattina?

Peppino Salemme, la cui stalla è a pochi metri di distanza, ha sentito tutto e si avvicina per prendere le parti del suocero, ma Giovanni lo ferma dicendogli

Questi non sono interessi tuoi! – poi rientra nella stalla mentre suo padre comincia ad andare nella direzione della Caserma e suo cognato torna a riempire di letame i sacchi

Un vicino ha assistito a tutta la scena e va a parlare con Giovanni, visibilmente scosso

– Scusami se mi intrometto, ma che succede?

Mio padre questa mattina è venuto ad insultarmi senza ragione

Ebbene, se tuo padre vuole la roba ch’egli dice, perché non gliela dai?

Ma che! Quale roba gli debbo dare? Non gli devo niente!

Il vecchio Caputo, che è ancora nei paraggi, sente e interviene ad alta voce

Mi devi dare una quantità di granone, ma se non mi devi dare niente, cammina con me dai Carabinieri e andiamo a riferire loro ogni cosa!

Andateci voi dai Carabinieri e poi quello che dicono di fare i Carabinieri, io lo farò!

Cammina! – insiste parecchie volte ancora il vecchio, senza ottenere risposta. Allora il vicino cerca di persuaderlo a troncare ogni litigio, dicendogli

Su, Angelo, andateci voi dai Carabinieri, parlate col Brigadiere e fatevi dire se Giovanni vi deve dare la roba. Se poi vostro figlio non vi darà ciò che diranno i Carabinieri, allora glieli portate di fronte e così tutto sarà finito!

Voglio ascoltare te, benché sei guaglione, voglio fare come dici tu

Quando Giovanni esce per tornare dal fabbro col carbone e fa per richiudere la porta a chiave, trova la brutta sorpresa. Bestemmia, ora ha la certezza che suo padre vuole provocarlo, ma non vuole cadere in trappola. Porterà il carbone al fabbro e andrà a comprare una serratura nuova da Antonio Guaglianone, quasi accanto alla forgia. E così fa.

Mio padre mi ha tolto la chiave della stalla e mi ha lasciato la porta aperta… sono costretto a comprare una serratura per mettercela – dice, alterato e pallido, a voce alta, quasi a volersi far sentire da suo cognato ancora impegnato a riempire sacchi di letame. Peppino Salemme infatti sente e, facendosi vedere fuori dalla porta del negozio, replica

Perché vai contando queste cose agli estranei? Tamarro, contale a me, è la stessa cosa, hai perso la vergogna come le donne di malaffare! Bestione e animale che non sei altro!

Cornuto! Ancora mi vai insultando? – gli urla di rimando Giovanni mentre esce dal negozio, agitando la serratura che ha in mano, forse per intimorirlo. I due sono uno di fronte all’altro a meno di tre metri di distanza, ma nessuna delle persone che in quel momento sono in strada pensa che possano venire alle mani, sono cognati, che diamine! Poi il gesto di Giovanni di alzare il braccio che tiene la serratura provoca la reazione di Peppino, il quale, come un fulmine, raccatta da terra un sasso grosso come un pugno e glielo tira contro.

Un urlo. Giovanni si porta le mani alla testa da dove il sangue comincia a zampillare, proprio mentre arriva di corsa il fabbro che si mette in mezzo e strattona Peppino. Poi un tonfo sordo. Giovanni stramazza a terra svenuto e batte la fronte che si apre in due. Si fa gente e il ferito viene portato dal dottor Calfa, che abita proprio di fronte, mentre Peppino Salemme, raccolta da terra la giacca che gli era caduta, si allontana di corsa e sparisce.

Proprio in questi istanti compare sulla strada, proveniente da una stradicciola in direzione della caserma, Angelo Caputo, subito fermato da una donna, che aveva assistito alla discussione con suo figlio, per fargli vedere le pozze di sangue

Vedete che cosa avete fatto? Avete rovinato a vostro figlio e a vostro genero stamattina! – gli urla in faccia

E perché?

Perché vostro genero ha menato a vostro figlio e ora è dal medico

Quello è stato sempre capo tosto. Se io sapessi che morrebbe domani, andrei a menargli un altro colpo! Io tengo una malattia e se fossi sicuro di morire domani, gli darei un altro colpo io per farlo morire! – poi si allontana, lasciando di stucco la donna.

Lo studio del dottor Rosario Calfa è pieno di curiosi che assistono alla sutura delle ferite di Giovanni Caputo, ancora svenuto, quando arrivano i Carabinieri che, nella paziente attesa di vederlo risvegliare, cercano sulla strada la pietra con la quale è stato ferito, ma non è possibile addivenire al rintraccio essendo che nella località esistono molte pietre. Esaminate una certa quantità, non si è potuto riscontrare macchie di sangue. Strano.

Poi Giovanni riprende i sensi e il Brigadiere Bruno Sperlì può ascoltare il breve racconto del ferito

Stamane verso le nove, in pubblica via, ho incontrato mio cognato Peppino Salemme, col quale non siamo in buoni rapporti per ragioni di interesse e dopo di averci scambiate alcune parole più o meno offensive, mi chiamò stupido e ignorante. A tali epiteti gli risposi chiamandolo cornuto. A questo punto mio cognato si infuriò, prese un sasso tirandomelo e colpendomi

Le ferite, secondo il medico, guariranno in 15 giorni, salvo complicanze, e Giovanni può essere riaccompagnato a casa, dove va anche il Brigadiere per ascoltare Annunziata Salemme, la moglie e, magari, farsi dire altro dal ferito

Circa sette anni fa mio suocero fece la divisione dei suoi beni ai figli, tra cui Brigida, moglie di Peppino Salemme, Rosario, Giuseppe, emigrato in America, e mio marito Giovanni. All’atto della divisione, assegnò anche, a parte, a Brigida un fabbricato in Grisolia composto di due piani e ciò all’atto delle nozze. In questo fabbricato però mio suocero si riservò per l’abitazione sua e della moglie un piano e per renderlo abitabile vi spese anche la somma di quattromila lire. I due vecchi abitavano il primo piano composto di una stanza, alla quale era attaccata anche una piccola cucina. Peppino e Brigida abitavano il piano superiore. I due vecchi avrebbero voluto dimorare al piano superiore perché la cucinetta era in comune venendo disturbati sempre e si lamentavano di questo. Non so se i giovani coniugi disturbavano di proposito i vecchi con lo scopo di costringerli ad abbandonare la casa e lasciarla interamente a loro, fatto sta che delle questioni insorsero fra i quattro e, passata l’invernata il vecchio e la moglie andarono ad abitare in una rozza casa colonica campagna, vicino al figlio Rosario. Mio marito, com’è naturale, pregava il padre di tornarsene in paese e di togliersi dalla solitudine della campagna. A tale proposito, il vecchio incitò mio marito ad acquistare un piccolo appartamento in paese per cederlo a lui come abitazione, ma mio marito non accondiscese obiettando che, per abitare in paese aveva bene la casa in quella della figlia. Credo che il vecchio ebbe a male tale diniego… ma i motivi di contrasto sono altri… quando fu fatta la divisione dei beni, il vecchio si era riservata la corresponsione di generi in natura da parte dei figli: ognuno era tenuto a somministrargli un tomolo di grano, dieci pignate di olio e mezzo tomolo di crivellatura di cereali per l’allevamento di alcuni polli che egli aveva. Peppino Salemme, invece, oltre agli altri generi, doveva versargli annualmente una piccola somma in quanto gli era stato assegnato un appezzamento di terreno coltivato a cedriera. Dopo un certo tempo il vecchio pretese, solo da mio marito, anche un quarto di tomolo di granone, che il vecchio a volte non consumava per sé, ma distribuiva agli altri figli, ma forse solo a Peppino Salemme, visto che tutti i generi da corrispondere al vecchio si portavano sempre in casa di Brigida e una volta mi suocera ebbe a dirmi che Peppino lo aveva dato da mangiare al suo cavallo. Ciò irritò mio marito, che si irritò maggiormente quando seppe che era Peppino ad incitare i vecchi a richiedere a mio marito il granone… poi c’era la pensione di guerra che il vecchio percepiva per la morte in guerra di un altro figlio, a cui Peppino mirava… per tali questioni, a poco a poco, si guastarono le relazioni tra mio marito ed il cognato, tanto che negli ultimi mesi non si scambiavano nemmeno il saluto e non facevano più venire i figli a casa nostra, e ne nacque un turbamento nei rapporti tra padre e figlio

Sperlì vorrebbe parlare ancora con Giovanni Caputo, ma quando si risveglia non sembra essere cosciente perché gira continuamente lo sguardo spento a destra e sinistra, comincia a non trattenere più le funzioni corporali, ha la parte destra del corpo semi paralizzata e non riesce ad articolare alcuna parola. Ora il dottor Calfa può osservare meglio la ferita prodotta dalla sassata ed è evidente che il cranio è fratturato e presenta un leggero avvallamento, quindi lo giudica in pericolo di vita. Vengono chiamati altri medici i quali gli diagnosticano una meningite traumatica e una infiammazione al polmone destro, che lo porteranno alla morte il 19 novembre successivo. Dopo la tragica notizia si procede subito per omicidio volontario e Peppino Salemme si costituisce nel carcere di Verbicaro.

Imploro la pietà dei giudici e sono innocente del delitto di omicidio in persona di mio cognato poiché mai mi sono spinto a togliergli la vita, se non avesse causato tale evento la sventura… quando Giovanni passò davanti alla mia stalla, mio suocero gli disse: “Perché non me la vuoi dare la mia parte di granone?”. Giovanni gli rispose: “Si, vi darò la vostra parte” e proseguì il suo cammino. Mio suocero, dopo qualche istante, se ne uscì dalla stalla dicendomi che doveva dire qualche parola al figlio. Dopo alquanto tempo mi accorsi che mio cognato pronunziava ad alta voce le parole: “Svergognato, scostumato, mi ha cacciato il padre di casa portandolo in campagna!”. Capii che le parole erano rivolte al mio indirizzo, ma non risposi alcunché, dato che non era stato fatto il mio nome…  ma poiché lui continuava dicendo ad alta voce: “Peppino Salemme ha cacciato mio padre di casa per starci lui”, allora mi feci sulla porta dicendogli semplicemente: “Giovanni, finiscila, è vergogna far sentire queste cose alla gente. Io non ho cacciato tuo padre da casa”. Egli mi rispose: “Io ce l’ho con te, o la mia o la tua, noi due ci dobbiamo rompere le corna, cornuto frecato!”. A ciò replicai: “Le mie sorelle non me l’hanno fatte le corna, se me le ha messe tua sorella ce le abbiamo tutti e due!”. Intanto lui entrò nella fucina di De Marco e io rientrai nella stalla. Uscì poco dopo ripetendo le stesse parole, al che cercai di acquetarlo e lui rientrò nella sua stalla. Poi andò nel negozio di Guaglianone e io, intanto, avevo finito di riempire i sacchi di letame e stavo per andare a casa per lavarmi. In tale istante sentii mio cognato raccontare i fatti a Guaglianone e dissi al suo indirizzo: “Falla finita, bocca aperta, è una vergogna, non lo cacciai io a tuo padre!”. Mio cognato uscì dalla bottega e mi disse: “Per la madonna, sono tre volte che mi dici bocca aperta, cornuto fricato!” e con tali parole mi venne incontro con una serratura nella mano. Suo scopo era quello di battermi, tanto è vero che il fabbro lo afferrò e lo trattenne per impedirgli di colpire, ma mio cognato si liberò dalla presa e allora il fabbro venne a trattenere me. Fui preso per la cintola ed il braccio sinistro… Giovanni venne addosso a me tentando di dare qualche colpo di serratura, allora, allentandomi alquanto dalla stretta del fabbro, col braccio destro libero raccattai da terra una pietra della grossezza quasi del mio pugno e la lanciai in direzione di mio cognato, senza però una mira determinata. La pietra, malauguratamente, lo colpì alla testa ed egli cadde per terra… vidi uscire del sangue ed allora mi sono subito allontanato

– A quale distanza eravate?

Poteva essere poco più di un braccio

– Pare che i vostri rapporti non fossero cordiali…

È falso poiché io con mio cognato conservavo dei buoni rapporti, nonostante lui avesse detto che i generi che egli dava ai genitori me li mangiassi io con la mia famiglia

– E se i vostri rapporti erano cordiali, come mai non facevate andare i vostri figli a casa di vostro cognato?

Proibii a mia moglie di fare andare i miei due bambini in casa del fratello perché, come si sa, i bambini chiedono sempre del pane od altro ed in tal modo mio cognato avrebbe potuto dire che la mia famiglia mangiava sulle sue spalle

È vera la sua ricostruzione dei fatti e tutti i testimoni hanno detto il falso o è Peppino Salemme a mentire, cosa che è nel suo pieno diritto fare?

Viene invitato a deporre anche il vecchio Angelo Caputo, che accetta sebbene abbia la facoltà di astenersi per i rapporti di parentela

Mio figlio Giovanni un po’ alla volta è venuto meno al suo obbligo, contrariamente agli altri miei figli che sempre mi hanno consegnato il dovuto. Egli allegava in pretesto che i generi dovutimi sarebbero venuti in potere di mio genero Peppino. In verità, però, l’anno passato mi ha dato tanto il frumento che l’olio e si è rifiutato solo nello scorso inverno a darmi il tomolo di granone

– Vi siete mai lamentato che vostro genero e vostra figlia vi maltrattassero quando vivevate insieme e che vi fecero andare via da casa?

Non ho mai litigato con mio genero o con mia figlia, né costoro ebbero ad usarmi cattivi tratti tanto da indurmi ad allontanarmi dalla casa in paese. Anzi, siccome Giovanni e famiglia dicevano che Peppino mi voleva con lui a qualunque costo per usufruire di ciò che che io potevo portare in casa, per evitare questa diceria mi decisi spontaneamente ad andare ad abitare in campagna

– È vero che avete tolto un pezzo di terra a Giovanni per darlo a vostra figlia Brigida?

Poiché a Brigida non era toccata alcuna porzione di terreno con alberi, tolsi un lembo dalla quota di mio figlio Giovanni e lo assegnai a Brigida

– E dell’acquisto della casa in paese che avrebbe dovuto fare Giovanni, cosa dite?

Proposi a mio figlio di comprarsela, ma non per me, bensì per esclusivo conto di lui e della sua famiglia, ma la mia proposta non fu accolta per colpa di mia nuora

– È vero che vostro figlio e vostro genero non andavano d’accordo?

Non è vero che mio figlio e mio genero erano nemici, almeno io non lo sapevo… – il vecchio pensa un po’ e poi aggiunge – Io, piuttosto, portavo un po’ di rancore a mio figlio Giovanni, ma specie a sua moglie. A lui perché non mi dava il granone che mi doveva dare e qualche altra cosa, a mia nuora perché ha fatto sfuggire l’occasione dell’acquisto della casa e, inoltre, per la sua grande invidia

– E della pensione che dite?

Trentuno lire mensili… non è sufficiente nemmeno al sostentamento di due persone

– Perché avete preso la chiave della stalla?

– Quando entrai nella stalla di mio figlio insistetti nella mia domanda di avere il granone, ma mio figlio si seccò, tanto che ebbe a dirmi: “Che siete ubriaco questa mattina?”. Alle mie insistenze si allontanò ed io, rimasto solo nel locale di mio figlio, uscii e mi portai la chiave dello stesso e ciò feci allo scopo che mio figlio sarebbe venuto a cercarmi per riavere la chiave

– Potete spiegare il fatto degli schiaffi che avrebbe dovuto darvi vostro figlio?

Nella stalla mi trattò male ed ebbe anche a dirmi: “Tu non sei più mio padre ormai!”. In quel diverbio gli dissi che volevo portarlo dalla Giustizia e, anzi, lo invitai a recarsi insieme a me dai Carabinieri e ciò per costringerlo a darmi il granone. Ma poiché egli si schermì dicendomi di andarci da solo, io gli risposi: “Piuttosto dammi schiaffi che costringermi a fare quistioni con la Giustizia”

– Pare proprio che questo benedetto granone per voi era una questione di vita o di morte, non fate altro che mettere sempre avanti il rifiuto a darvi il granone!

Ritengo che a questo persistente diniego mio figlio era spinto dalla moglie perché questa comandava in casa in ogni questione. Essa faceva sottostare a sé il marito e gli proibiva di fornirmi ciò mi doveva. Ritengo, in conseguenza, che tutta la colpa dell’accaduto e l’origine dei fatti deve attribuirsi a questa mia nuora!

C’è una circostanza, che ha raccontato una testimone, molto grave e vorrei che la chiariste. Mi riferisco alle frasi: “Quello è stato sempre capo tosto. Se io sapessi che morrebbe domani, andrei a menargli un altro colpo! Io tengo una malattia e se fossi sicuro di morire domani, gli darei un altro colpo io per farlo morire!”

Non ricordo ciò che abbia potuto dire, avevo l’animo esasperato, ma è impossibile che io l’abbia detto… peraltro io non potevo nemmeno lontanamente sapere l’entità delle lesioni subite da mio figlio, prova ne sia che nemmeno sono andato a vedere e continuai nella mia strada per portarmi a casa

– Davvero? La testimone dice che vi ha anche fatto vedere le pozze di sangue e altri lo hanno confermato… allora?

Il vecchio scuote nervosamente le spalle senza rispondere.

Eccitato a dire la verità, risponde

Quello che ho narrato corrisponde alla verità!

Bene, anzi male, malissimo!

Il 7 agosto 1930 la Sezione d’Accusa ritiene che non si sia trattato di omicidio volontario, ma di omicidio preterintenzionale ed è per questo reato che lo rinvia al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza.

Il 3 marzo 1931 si apre e si chiude il dibattimento: la Corte, esaminati gli atti ed escussi i testimoni, ritiene che Peppino Salemme si sia difeso dall’aggressione di suo cognato Giovanni Caputo ma poiché il fabbro si era interposto tra di loro, non esisteva più un pericolo grave ed immediato, quindi la difesa oltrepassò i limiti stabiliti dalla legge. Così, modificando ancora una volta il capo d’imputazione, la Corte ritiene l’imputato responsabile di eccesso colposo di legittima difesa e, concesse le attenuanti generiche, lo condanna a mesi dieci di detenzione.[1]

 

 

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[1] ASCS, Processi Penali.