LA LEGGE E LA MORALE

Benedetto Caruso è un contadino di Cetraro e da sette anni, cioè dal 1924, ha in fitto un fondicciuolo appartenente al signor Emilio De Caro. In questi anni accumula alcuni debiti e, ciò che è peggio, non ha nessuna intenzione di onorarli per non intaccare il piccolo patrimonio che ha accumulato.

Così, nel 1931, escogita un piano semplice semplice: far donazione del suo piccolo patrimonio immobiliare ai suoi tre figli. Emilio De Caro, venuto a conoscenza di questo sotterfugio, un po’ preoccupato di non riuscire a recuperare il suo credito, un po’ anche per il disgusto concepito contro costui perché la voce pubblica lo accusa di avere resa madre la figliuola Concetta, scema ed epilettica, lo chiama in casa e gli propone la risoluzione anticipata del contratto di fitto in scadenza tra due anni, nel 1933.

– Don Emì, e che problema c’è con voi? Il fondo ve lo lascio libero subito per i vostri comodi! – Don Emilio è sorpreso dalla disponibilità di Caruso, avendo immaginato, al contrario, una strenua opposizione e si sbilancia:

– Bene! allora posso spargere la voce che il fondo è disponibile per essere fittato.

– Siete il padrone! – sorride Benedetto facendo l’abbozzo di un inchino.

Non appena in paese si sparge la voce che quell’ottimo pezzo di terra è disponibile, si scatena la ressa per accaparrarselo e don Emilio, ancora scottato per la brutta esperienza con Benedetto Caruso, finisce per preferire Michele Tripicchio perché giovane onesto, laborioso e di carattere mite, il quale ha anche del suo.

Non appena Michele prende possesso del fondo, pensa bene di chiamare Benedetto per raggiungere un accordo sui campi che aveva già preparato per la semina prima della risoluzione del contratto e, sulla base della stima fatta dall’esperto di campi Carlo Cesareo, propone a Caruso un indennizzo di 103 lire.

– Ma tu e don Carluccio siete pazzi? Centotre lire! – e giù una risata.

Michele, allora, sia per la sua indole buona ed arrendevole, sia per conservare i rapporti di buon vicinato che da sempre ha con Caruso, gli propone, dopo aver chiesto consiglio a don Emilio De Caro e contro il parere di costui, di continuare a coltivare direttamente per l’anno in corso i campi già preparati.

– Attento, però, perché la legge e la morale dicono che il terzo del raccolto che io devo dare a don Emilio, visto che i frutti li raccogli tu, tu devi pagare al posto mio! – lo avverte Michele.

– E si, si, lo so, quante storie! – Ribatte, seccato, Caruso.

A raccolto finito, Benedetto, che già tante angherie ha fatto al povero Michele nel breve periodo di possesso promiscuo del fondo, non vuole scucire nemmeno una lira. Michele, contrariamente al suo modo di essere, è costretto a rivolgersi alla Legge per vedere soddisfatte le proprie ragioni. E vince: il Conciliatore condanna Benedetto Caruso a versare a Tripicchio 350 lire come indennizzo e a pagare le spese del giudizio.

Ma è una vittoria di Pirro perché Caruso rifiuta ostinatamente di pagare anche dopo che gli viene notificato il precetto esecutivo della sentenza.

Intanto passano tre anni e siamo all’11 luglio 1934, un giorno speciale perché l’Ufficiale Giudiziario della Pretura di Cetraro, assistito da due testimoni e in compagnia del creditore, va nel fondo Vallonetto, la cui proprietà è stata da poco trasferita da Benedetto Caruso ai figli per effetto della donazione di cui vi abbiamo accennato, per procedere al pignoramento del poco grano allora allora mietuto.

Sembra procedere tutto tranquillamente: Benedetto Caruso e i suoi tre figli maschi assistono alle operazioni senza fiatare, ma quando l’Ufficiale Giudiziario comincia a dettare ad un suo amanuense il verbale di pignoramento, si fanno avanti come due furie, a mano armata di roncola, le figlie di Benedetto, Carmela e Concetta, le quali ingiungono a Michele Tripicchio, all’Ufficiale Giudiziario ed ai suoi assistenti di andare via, agitando contro il loro viso le roncole, con decisa volontà di tagliar loro il collo. Le donne fanno così paura che tutti se la danno a gambe levate e fanno ritorno in paese.

Il giorno dopo, però, l’Ufficiale Giudiziario, dopo aver chiesto e ottenuto l’intervento di un Carabiniere e della Guardia Municipale di Cetraro al fine di dar forza alla legge, accompagnato da Michele, torna nel fondo Vallonetto per riprendere l’esecuzione del pignoramento. E questa volta, davanti alle divise, nessuno osa fiatare. Concetta e Carmela sono costrette a sbuffare da lontano, impossibilitate ad intervenire perché il Carabiniere le ha poste in stato di fermo per l’aggressione compiuta il giorno prima. Ma il grano pignorato è insufficiente a compensare il credito di Michele, così l’Ufficiale Giudiziario decide di andare a casa dei Caruso e di procedere al pignoramento di qualche altro bene.

È metà luglio e fa caldo. La comitiva, arricchitasi di Benedetto Caruso, consigliato dallo scrivano a presenziare alle operazioni onde potesse provvedere meglio ai suoi interessi, deve camminare sotto al sole per quasi un’ora prima di arrivare a Santa Marina, dove si trova l’abitazione da perquisire.

Quando ormai mancano una cinquantina di metri per arrivare a destinazione, mentre tutti procedono in fila indiana Benedetto fa in modo di restare in fondo alla fila, avendo davanti a sé Michele Tripicchio.

Nessuno si è accorto, o forse nessuno ha avuto da ridire, che Benedetto sta portando con sé una scure. Nessuno si accorge che adesso la sta stringendo con tutte e due le mani e la sta sollevando sopra la testa per colpire Michele, anch’egli ignaro di ciò che avviene alle sue spalle.

Il colpo, l’unico, è tremendo. Il povero Michele cade a terra come fulminato.

Al tonfo tutti si voltano e vedono Benedetto Caruso ritto in piedi e con la scure ancora imbandita tra le mani.

Ammazzatemi! Fucilatemi! Questo meritava! – poi lascia cadere l’arma e si lascia legare.

Michele respira ancora e i presenti si affrettano a portarlo a casa, giusto in tempo per esalare l’ultimo respiro tra le braccia della giovinetta sposa.

– Non so che mi ha preso… è stato un attimo, non ci ho visto più… ero come pazzo – cerca di giustificarsi, mantenendo questa versione in tutti gli interrogatori a cui viene sottoposto.

L’istruttoria è rapidissima e meno di 2 mesi dopo Benedetto Caruso viene rinviato al giudizio della Corte di Assise di Cosenza per rispondere di omicidio volontario.

La difesa chiede subito che vengano concesse a Caruso le attenuanti del vizio parziale di mente e della provocazione, ma la Corte obietta in merito al vizio parziale di mente che non ha nessun fondamento perché sostenere che l’imputato non ha agito in normali condizioni d’intendere e volere, sol perché il suo animo sarebbe rimasto fieramente conturbato per l’arresto delle sue figliuole, responsabili delle violenze usate il giorno innanzi contro l’Ufficiale Giudiziario, sia per il cruccio da lui provato nel vedere con l’esecuzione scomparire il frutto delle sue fatiche di un anno, significa spiegare la genesi ed il processo della sua ideazione criminosa, ma non fornire la dimostrazione che la reazione, sia pure esplosiva, di questo stato emotivo dell’animo suo, si sia verificata in condizioni di minorata coscienza e volontà, visto che, pel codice vigente, nessuna influenza sulla imputabilità può essere riconosciuta agli stati emotivi o passionali. Ciò perché il vizio di mente va inteso solo come conseguenza di una infermità. Per quanto riguarda di avere, l’imputato, agito nello stato d’ira determinato da un fatto ingiusto altrui, la Corte stabilisce che nemmeno può essere a costui decentemente concessa, dal momento che tutti i testimoni escussi hanno, ad una voce, conclamato che assai longanime, conciliante e in tutto conforme all’indole sua mansueta e remissiva fu la condotta usata dal povero ucciso verso l’imputato nel corso lungo della vertenza e che, se Tripicchio si decise alfine di portare la vertenza avanti il magistrato ottenendo il pieno riconoscimento della sua pretesa, ciò avvenne unicamente per il rifiuto protervo, ostinato e fraudolento dell’imputato a fare onore ai suoi impegni.

Guai seri per Benedetto Caruso.

Stima la Corte, con riguardo al contegno remissivo tenuto dall’imputato subito dopo il gesto omicida da lui compiuto, di infliggergli il minimo della pena di anni 21 di reclusione, oltre alle pene accessorie e al ristoro dei danni e spese verso la parte civile che, in via di equa approssimazione, si stima giusto liquidare definitivamente ed in complesso in lire trentamila.[1]

21 anni in galera e 300 volte più delle iniziali 103 lire, un bel guadagno per Benedetto Caruso.

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte di Assise di Cosenza.