UNO DI FAMIGLIA

Piove e fa freddo il 17 febbraio 1933 nelle campagne vicino a Farneta, frazione del Comune di Castroregio sui primi contrafforti del Pollino che si affacciano sul mare Ionio. Due carbonai sono intenti al proprio lavoro, quando vengono raggiunti dal ventisettenne Salvatore Trupo, che abita non lontano dalla carbonaia. Sembra preoccupato.

– Non è che mio padre è passato di qua?

– No – risponde uno dei due, accompagnando il no con un movimento della testa.

– Ha detto che doveva andare a Castroregio per pagare le imposte, ma è da stamattina che non lo vedo! Adesso vado ad avvisare mia sorella e mio cognato.

I due carbonai sono un po’ perplessi, fanno spallucce e tornano al loro da fare.

La mattina dopo Salvatore si reca a denunciare la scomparsa del padre dal Vice Podestà di Farneta e poi, per consiglio di costui va ad Oriolo a fare la stessa denunzia al Pretore. Intanto cominciano le ricerche dell’uomo, ma per tutto il giorno non si riesce a trovarlo e solo il giorno successivo, il 19 febbraio sul tardi, Francesco Chidichimo, il genero dello scomparso, essendosi diretto ad Oriolo seguendo il letto del torrente Ferro, trova il cadavere del suocero, immerso nell’acqua in un ramo del torrente medesimo.

Avvisato, accorre sul posto il Maresciallo Michele Pastore, accompagnato dal medico Antonio Sisci, per fare i primi rilievi di quella che sembra una disgrazia.

– Che sciagura ci doveva capitare! Povero padre nostro! Sicuramente si è sentito male ed è caduto nell’acqua… e poi le pietre del fiume… venite a vedere come lo hanno combinato – comincia ad urlare Salvatore, andando incontro ai due.

Tutto sommato sì, a prima vista sembrano proprio esserci tutte le caratteristiche di una disgrazia: il cadavere è adagiato nel ramo sinistro del torrente, coperto dall’acqua in guisa che ne appare solo il naso, con la testa a monte e i piedi verso valle, con l’occipite incavato nella ghiaia a causa del fatto che la ghiaia trasportata dalla corrente, trovando quell’ostacolo, man mano ne viene arrestata e vi si ammassa. Il cadavere ha la camicia fuori dei pantaloni e del cinturino che li trattiene e con i pantaloni sbottonati, così da fare vedere il pene. Tirato fuori dall’acqua e perquisito, non gli si rinviene la chiave della casa, chiusa dal di fuori. Frettolosamente, il cadavere viene rimosso e trasportato nel vicino molino di Fedele Vivacqua poiché vi è pericolo che, sopravvenendo qualche piena, il cadavere ne possa essere asportato. Solo la mattina del 20 febbraio, cessata la pioggia, il corpo viene portato a Farneta, dove i dottori Coletta e Basile eseguono l’autopsia ordinata dal Pretore. Nella regione frontale il cadavere presenta quattro soluzioni di continuo a margini irregolari, interessanti la cute in tutta la sua spessezza, escoriazioni sulla regione zigomatica destra, piccole abrasioni sul dorso del naso e sulla porzione alta dei due parietali una lunga ferita curvilinea convessa in avanti, lunga circa 20 centimetri, a margini irregolari ed interessante tutta la spessezza del cuoio capelluto, non escluso il periostio che lascia constatare l’integrità dell’osso sottostante. Questa ferita mostra, inoltre, uno scollamento notevole nella porzione convessa dovuto ad infiltrazione di acqua, apparendo la superficie aderente al tavolato osseo perfettamente liscia. Poi i periti notano un paio di particolarità che escluderebbero un malore come causa della caduta in acqua: i margini delle ferite, e massimamente quelle sul cuoio capelluto, oltre a presentare ispessimento, sono divaricati ed estroflessi, dovuto tale carattere alla retrattività della cute, che si verifica in soggetto vivo e non in un cadavere; in corrispondenza della regione laterale destra del collo, all’altezza della laringe, una piccola macchia di colorito bluastro a forma piuttosto circolare; nella scatola cranica, in corrispondenza delle ferite riportate sul cuoio capelluto, c’è un’abbondante raccolta di sangue in parte liquido e in parte sotto forma di grumi. Niente acqua nei polmoni e nello stomaco, né tracce di terriccio dentro la bocca dovuta ad ingestione dell’acqua torbida del torrente. Molto strano, il vecchio deve essere morto prima di cadere nel torrente. I periti certificano che le ferite sono state prodotte da arma contundente, escludendo che possano essere state prodotte da pietre trascinate dalla corrente, non potendo esse produrre una lesione così grave, da ledere l’arteria meningea e quindi questa è la conferma che nel fiume il vecchio ci è arrivato già morto, ma bisogna scoprire le circostanze in cui ciò sia potuto avvenire.

Sì, bisogna indagare a fondo perché se l’uomo è morto prima di cadere nel torrente, come è possibile che il cadavere si trovi nel centro del corso d’acqua e presenti alcune lesioni quasi certamente prodotte mentre era ancora vivo?

Ma i periti non hanno notato un altro piccolo particolare, notato invece dal dottor Sisci, che può essere decisivo per stabilire le modalità della morte di Francesco Trupo: altre due lievi contusioni con escoriazioni, a brevissima distanza l’una dall’altra, nella linea mediana del collo e, poco discoste, altre due macchioline dello stesso tipo.

Ma cosa sono queste piccole contusioni? Intanto bisogna dire che quelle riscontrate da Sisci devono essere messe in relazione con quella piccola macchia di colorito bluastro a forma piuttosto circolare riscontrata dai periti. Solo così si capisce che sono le impressioni delle dita di una mano destra, lasciate sul collo da qualche persona con la quale il povero vecchio si era colluttato. Così si fa strada sempre più prepotentemente la possibilità che si tratti di un delitto e non di una disgrazia, ma i familiari del vecchio sostengono l’impossibilità che qualcuno abbia potuto ucciderlo, che era amico di tutti, che si tratta di una disgrazia e adesso fanno notare agli inquirenti che potrebbe essere caduto nel torrente a testa in giù dalla sponda vicina al luogo dove fu trovato, sponda alta dagli otto ai dieci metri, restandoci secco. Poi la corrente lo ha trascinato, già morto, per qualche metro e questo spiegherebbe l’assenza dei segni di annegamento. Potrebbe essere, se non fosse che cadendo dalla rupe, Trupo sarebbe rimasto fuori dal corso d’acqua, distante circa 8 metri, e quindi è impossibile che sia stato trascinato dalla corrente. Inoltre i periti fanno notare che se il vecchio fosse caduto a testa in giù da otto o dieci metri di altezza, sarebbe certamente morto sul colpo riportando fratture in varie parti del corpo – certamente della scatola cranica – e non solo la profonda lesione del cuoio capelluto sulla parte alta del capo. Di più, rimarcano che la morte non fu istantanea perché la circolazione cardiaca continuò per tanto tempo, da essersi prodotte sia quella abbondante emorragia nel cervello e sia quell’imbibimento di sangue dei lembi della ferita.

Ormai imboccata la pista dell’omicidio, oltre a queste rilevanze tecniche gli inquirenti si pongono e pongono una domanda: che cosa ci faceva Francesco Trupo in una sera di pioggia, una sera cattiva, in quel posto isolato fuori da ogni sentiero tracciato, visto che l’unico sentiero, quello che porta ad Oriolo, è ad almeno 180 metri da dove è stato trovato morto? E sì, questa è una bella domanda a cui sarà difficile dare una risposta certa. Intanto gli inquirenti si dicono sicuri che il vecchio non avesse nessuna ragione per trovarsi, vivo, in quel posto e, soprattutto, non avesse nessuna ragione per dirigersi verso Oriolo. I familiari, al contrario, sostengono che, uscito da casa ubriaco, avrebbe potuto smarrire la strada ed essergli capitata quella disgrazia. No, per gli inquirenti questa ricostruzione non quadra: il vecchio non poteva essere ubriaco, lo certificano i periti che hanno effettuato l’autopsia: lo stomaco era vuoto e quindi non è possibile che avesse potuto smarrire la strada perché, mentre il viottolo per Oriolo si svolge sempre in una zona boscosa, invece per arrivare a quella sponda del fiume dove il cadavere fu trovato, si sarebbe dovuto percorrere una zona di circa 100 metri più ripida e cespugliosa, che avrebbe avvertito il vecchio di aver perduto la via e lo avrebbe senz’altro indotto a retrocedere per evitare il pericolo di cadere nel torrente, pericolo a lui perfettamente noto, essendo tutte quelle terre di sua proprietà.

Qualcuno lo ha ucciso in un altro luogo e poi lo ha deposto nel torrente per simulare una disgrazia. Che sia stato vittima di un’aggressione a scopo di rapina? Praticamente impossibile che qualche malintenzionato potesse essersi appostato lungo il sentiero che va ad Oriolo in quella sera cattiva, aspettando qualche improbabile vittima. O forse è stato ucciso in casa da un ladro sorpreso a rubare e poi trasportato nel torrente? Impossibile anche questa ipotesi sia perché in casa del vecchio non manca niente, nemmeno il fucile, preda molto ambita dai ladri, sia perché la casa di Francesco Trupo è divisa da quella di suo figlio Salvatore da un tramezzo di tavole, quindi è impossibile che nessuno abbia sentito il trambusto della colluttazione, che certamente c’è stata. E poi se a commettere l’omicidio al quale nessuno era presente fosse stato un estraneo a quelle contrade, non si sarebbe fermato sul luogo per rimuovere il cadavere e non avrebbe avuto alcuna ragione di trasportarlo al  fiume. E allora chi può avere avuto interesse ad uccidere Francesco Trupo e simulare una disgrazia? Uno di famiglia, probabilmente. Il vecchio fu visto rincasare dai due carbonai e quindi, secondo gli inquirenti, non si poté incontrare con altri che i suoi e il trasporto al fiume dimostra che l’uccisione avvenne in località dove, se il cadavere fosse stato lasciato ivi, avrebbe certamente indicato chi fosse stato l’assassino.

È in questo contesto che al Vice Podestà di Farneta ritorna in mente ciò che consigliò a Francesco Chidichimo, il genero del morto, cioè di andare a fare la denuncia di scomparsa al Pretore di Oriolo, ma poi lo avvisarono che il Magistrato era già a conoscenza della scomparsa e quindi, supportato in ciò da alcuni amici, consigliò a Chidichimo di andare a cercare il suocero verso Castroregio. Come mai Chidichimo, invece di andare verso Castroregio andò verso Oriolo, che è dalla parte opposta, perfino seguendo il letto del fiume invece di procedere lungo il sentiero normale e miracolosamente rinvenne il cadavere del suocero? Forse lo ha ucciso lui? Forse era d’accordo con sua moglie e suo cognato Salvatore e lo hanno ammazzato insieme? O lo ha ammazzato Salvatore con l’aiuto della moglie, della sorella e del cognato? Un rompicapo.

Per non sbagliare, i Carabinieri mettono in stato di fermo tutti. Forse, consigliati dalla durezza della camera di sicurezza, parleranno.

Francesco Chidichimo non sa addurre nessuna ragione plausibile per giustificare questo suo cambiamento di itinerario e comincia ad essere seriamente nei guai.

– Vi sbagliate, è stata una disgrazia – continua a ripetere Salvatore, confortato dalle identiche parole di sua moglie e sua sorella. Poi aggiunge – non avrei avuto motivo per farlo, i nostri rapporti erano ottimi e poco tempo fa mio padre mi fece anche donazione di un bel pezzo di terra.

– Come ti sei fatto quel graffio sul viso? – gli chiede il Maresciallo.

– Non… non mi ricordo… – farfuglia Salvatore.

Ma al contrario di quanto sostiene Salvatore, le indagini dei Carabinieri parlano di una situazione familiare alquanto diversa, per alcuni aspetti anche incredibile ai nostri occhi: Che i rapporti tra il padre e il figlio Salvatore, malgrado la donazione fatta dal primo al secondo, non erano improntati a quella cordialità che vi sarebbe dovuta essere, e quelli con la nuora, erano alquanto tesi, come dimostrano le continue lagnanze del defunto, riferite da una quantità di testimoni spassionati; il suo proposito di riammogliarsi e il fatto stesso che il padre viveva separato dal figlio, pur essendo in un unico casamento, e, povero vecchio, era costretto perfino a farsi da sé il pane ed il bucato mentre avrebbe dovuto a ciò provvedere la nuora, anche per gratitudine della donazione ricevuta. La nuora. I Carabinieri raccolgono altro materiale e si convincono che il vero attrito non era tra il padre e il figlio, ma tra il suocero e la nuora, contro la quale impugnò perfino il fucile nel 1930 per minacciarla, riportandone condanna di cui alquanto si lagnava. Certo è che, per questi rapporti ostili esistenti tra il suocero e la nuora, quando nel dicembre il vecchio Trupo uccise il maiale, come è qui consuetudine, invitò congiunti ed amici per assisterlo e partecipare alla festicciola; il figlio andò, ma la nuora non volle parteciparvi. Si è, è vero, cercato di rappezzare quest’atto di ostilità, per cui il vecchio rimase male, col dire che essa dovette badare al lavoro coi buoi, ma questo fu un evidente pretesto; e certo come tale lo ritenne il vecchio, che se la legò al dito e rese la pariglia quando il figlio, il 16 febbraio, a sua volta ammazzò il suo maiale col rifiutare, malgrado invitato, ad andarvi, tant’è che due giorni dopo Salvatore portò in regalo al padre il fegato del maiale macellato. L’astensione volontaria del vecchio di partecipare alla festa del figlio per l’uccisione del maiale dovette, evidentemente, irritare Salvatore, che invece aveva accettato il simile invito del genitore, ed irritare ancora la nuora, che certamente, fu rimproverata a suo tempo dal marito per non aver voluto partecipare alla festa del padre. La donna, naturalmente, non mancò di far rilevare al marito lo sgarbo che gli aveva fatto il padre, mostrando d’aver rancore verso di lei.

Con la ricostruzione dei rapporti familiari, il cerchio comincia a stringersi principalmente attorno alla nuora e poi al figlio Salvatore, ma gli inquirenti sono sempre convinti che anche la figlia ed il genero siano in qualche modo coinvolti nell’omicidio. Il Maresciallo Pastore fa rilevare anche la strana sollecitudine di Salvatore nel mettersi alla ricerca del padre, dopo aver detto ai carbonai di sapere che sarebbe dovuto andare a Castroregio per pagare le imposte. Se così fosse stato, nessuna ragione vi sarebbe stata di allarmarsi nel pomeriggio del 17 per la sua assenza, ragiona Pastore e, infatti, dagli accertamenti eseguiti gli risulta che questa circostanza è falsa. Aggiungendo questo tassello all’ostinazione nel sostenere la tesi della disgrazia nonostante le evidenze, al fatto che conosce i luoghi meglio delle sue tasche, al fatto di aver mentito sui reali rapporti tra lui e suo padre, adesso è lui ad essere il principale indiziato.

A questo punto la Procura ritiene di avere in mano elementi sufficienti per chiedere il rinvio a giudizio di tutti e quattro gli indagati, ma il Giudice Istruttore interpreta diversamente gli elementi probatori che gli vengono sottoposti e ritiene che esistano elementi sufficienti per rinviare a giudizio solo Salvatore Trupo con l’accusa di omicidio volontario, aggravato dalla relazione di parentela, prosciogliendo gli altri tre per insufficienza di prove.

Durante il dibattimento, attraverso numerose testimonianze (alcune delle quali ritenute palesemente false dalla Corte) e nuove perizie, la Corte arriva a ricostruire le circostanze che avrebbero portato Salvatore Trupo ad uccidere suo padre, facendo risalire il tutto al rifiuto del vecchio di partecipare alla festa del maiale organizzata dal figlio: allora è chiaro che per questo fatto, unito alle libagioni di quel giorno, al ritorno del padre dal lavoro, e probabilmente ancora prima che egli avesse potuto aprire la porta di sua casa per cui la chiave gli poté restare in tasca, il figlio ebbe a lamentarsi col genitore di ciò e di qui un alterco che ben presto degenerò in colluttazione, della quale si riscontrarono le tracce evidenti sia nello stesso Salvatore Trupo, che aveva un’unghiata dall’alto in basso sulla guancia, e sia sul collo del padre. In questa colluttazione Salvatore, adirato, prese o uno dei pali bitorzoluti di cui parla il Maresciallo nel suo verbale o una pietra e con uno di questi mezzi contundenti diede un colpo alla testa del padre, dall’avanti all’indietro, quasi a strisciare, producendo quella contusione con scollamento del cuoio capelluto e, per contraccolpo, la rottura dell’arteria meningea, che dopo poco causò la morte del povero vecchio. Ed a questo punto, con l’aiuto della moglie, che intervenne per cercare di salvare il marito dalla responsabilità incorsa, caricarono il cadavere sull’asino (è in questo momento che al vecchio sarebbe caduta dalla tasca la chiave di casa, gli si sarebbero sbottonati i pantaloni e uscita la camicia) e lo andarono a deporre sul fiume. L’indomani, poi, per cercare di avvalorare la loro innocenza, si diedero a comunicare ai vicini che erano impensieriti perché non vedevano il vecchio ed iniziarono con quelle ricerche. È notevole, però, che non si recarono ad avvisare i Carabinieri, come sarebbe stato più naturale e che, mentre sarebbe stato più logico ricercare lo scomparso sulla via di Castroregio e in quel paese, dove poteva essersi recato per pagare le imposte, nessuno andò a cercarlo ivi, ma tutti si limitarono a cercare nello stesso fondo e adiacenze. È a questo punto che entrerebbe in scena il genero del vecchio, Francesco Chidicimo, il quale, a conoscenza di tutto perché avvisato da Salvatore, inscenò il fulmineo ritrovamento del cadavere, per togliersi questo fastidio.

La Corte si è convinta completamente dell’esistenza del delitto e della responsabilità di Salvatore Trupo soltanto, ma ritiene, conformemente all’assunto del Pubblico Ministero, che non si possa dire dimostrato, per l’inesistenza di adeguata causale, che egli avesse la volontà di uccidere il genitore; è, invece, certo che nella rissa abbia voluto soltanto ferirlo e che, senza il concorso della sua intenzione, la lesione produsse la morte.

Quindi bisogna modificare il titolo del reato da omicidio aggravato a omicidio preterintenzionale aggravato perché in persona del genitore. Salvatore può tirare un sospiro di sollievo: l’ergastolo è scongiurato.

La difesa azzarda e chiede che venga concessa l’attenuante della provocazione determinata da fatto ingiusto altrui (il plateale rifiuto di partecipare alla frittolata del figlio), ma la Corte la respinge perché Francesco Trupo era in diritto di non andare ad una festa del figlio, tanto più quando la nuora lo stesso sgarbo aveva fatto a lui.

Tutto è pronto per la sentenza. La Corte ritiene giusto, visti i buonissimi precedenti del figlio e le modalità tutte del fatto che ne attenuano grandemente la gravità, applicare il minimo di anni 10 di reclusione, elevando ad anni 12 per l’aggravante, oltre le pene accessorie.

È il 13 aprile 1934.

La Suprema Corte di Cassazione, con sentenza del 14 novembre 1934, rigetta il ricorso dell’imputato.

Il 9 marzo 1938, la Corte d’Assise di Castrovillari dichiara condonati condizionalmente 4 anni della pena, per effetto dell’indulto di cui al R.D. 15 febbraio 1937 N. 77.[1]

La pena resta, così, fissata in 8 anni di reclusione, di cui 5 già scontati. Salvatore uscirà in tempo per la guerra.

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Castrovillari.