FUOCO DI PAGLIA

L’Avemaria del 31 ottobre 1892 è suonata da poco quando il ventisettenne Antonio Re, nato a San Martino di Finita ma residente a Torano Castello dove ha sposato Carmela Fabiani, rientra a casa, un basso, dal lavoro nei campi. Con lui c’è il diciottenne Francesco Salerno che gli fa da vero e proprio schiavo. Antonio si lascia cadere su una sedia mezzo sfondata e si rivolge alla moglie:

– L’hai fatto mangiare l’asino?

– No… mi… mi sono scordata…

Antonio si alza di scatto, afferra la scure poggiata al muro e urlando come un pazzo si lancia sulla moglie per colpirla, ma il suo schiavo è lesto ad afferrarlo e a levargli l’arma di mano. Antonio non si dà per vinto e comincia a tempestare la moglie con schiaffi e pugni e le urla si sentono in tutto il vicinato.

Al piano superiore abitano  Giuseppe Basile e Maria Fabiani, la sorella di Carmela, i cognati di Antonio. Giuseppe vorrebbe farsi i fatti suoi – i rapporti con Antonio sono tesissimi dopo che il Pretore di Montalto Uffugo gli ha dato ragione sulla reale proprietà del fabbricato, stabilendo che è totalmente di Maria e decretando lo sfratto per la famiglia di Antonio – ma sua moglie teme per la vita della sorella e non c’è verso di tenerla a bada, così Maria scende e, aperta la porta del basso, riesce a far scappare Carmela, sottraendola alla furia del marito.

– Vai a chiamare nostro fratello, corri, io torno a casa e mi chiudo dentro – le dice risalendo la rampa di scale a quattro a quattro.

– Bastardi! Vi ammazzo tutti! – urla Antonio sempre più furioso. Poi prende dal muro la sua doppietta carica, esce sulla strada e spara tutti e due i colpi verso la stanza dei cognati. In questo frattempo, avvertiti dalle urla e dai richiami dei vicini, arrivano sul posto i due fratelli di Antonio i quali, insieme allo schiavo, riescono a calmarlo, a prendergli il fucile e a farlo rientrare in casa. Tutto sembra essersi risolto senza che nessuno si sia fatto male, così i fratelli di Antonio e lo schiavo rientrano nelle proprie abitazioni. Ma Antonio non si è affatto calmato. Dopo un po’ esce e si avvicina di nascosto a casa del suo fratello maggiore che aveva preso in custodia la sua doppietta. Entra senza che nessuno se ne accorga e si riprende il fucile, poi torna a casa.

Tra le assi di legno che dividono il basso dal primo piano c’è una botola, un trabocchetto, e quando Maria sente che Antonio è rientrato, sollevando delicatamente la chiusura della botola si mette a guardare cosa sta facendo suo cognato.

La prima cosa che Antonio fa appena rientrato nel basso è ricaricare la doppietta. Poi comincia a fare una cosa molto strana: toglie da un materasso della paglia, ammucchiandola nel centro della stanza dopo aver spostato il tavolino sgangherato. Maria all’inizio non capisce che intenzioni abbia suo cognato, ma subito rimane terrorizzata quando vede lo sfrigolio scintillante del fiammifero, la fiammella che si avvicina al mucchio di paglia e il ghigno satanico di suo cognato quando le fiamme cominciano ad alzarsi.

– O gesummaria! Ci vuole bruciare vivi! – dice sottovoce al marito, temendo che Antonio, sentendola, possa sparare attraverso il tavolato – che dobbiamo fare?

– Mettiamoci in un angolo… avverti Rosaria dal buco che andasse a chiamare il Sindaco – le consiglia, più impaurito della moglie. Così Maria si avvicina a un muro di casa dove c’è un foro che comunica con l’abitazione di Rosaria Carnovale e, richiamatane l’attenzione, la avvisa di quello che sta accadendo, pregandola di andare a chiamare aiuto.

Rosaria si precipita fuori per fa accorrere gente, ma la strada le è sbarrata da Antonio che è sulla soglia di casa col fucile spianato. La detonazione fa tremare il pavimento e Rosaria fa subito marcia indietro rientrando in casa, seppure terrorizzata dalla possibilità di poterci morire bruciata.

Antonio, soddisfatto del buon andamento del suo scellerato piano, esce di casa e si apposta a una decina di passi, attendendo l’inevitabile uscita dei cognati per farli secchi entrambi, ma le urla e le voci che corrono di casa in casa anche questa volta fanno accorrere i fratelli di Antonio e lo schiavo, che vogliono definitivamente mettere fine a questa brutta situazione. Lui però è ormai partito per la tangente e niente può fermarlo. Così, quando sente la voce del fratello maggiore che lo chiama, con freddezza si gira e dice:

Voltatevi… – poi fa partire un colpo che per fortuna va a vuoto e i tre pacieri non se lo fanno ripetere due volte, dandosela a gambe levate.

Ma il fumo che esce dal fabbricato sta appestando l’aria. I vicini accorrono incuranti del pericolo immediato di una fucilata, perché se va a fuoco quella casa andrà a fuoco tutto il vicinato e sarebbe una tragedia per tutti. Qualcuno ha un’ascia e comincia a picchiare sulla debole porta che cede dopo tre o quattro colpi bene assestati. Qualcun altro ha portato dell’acqua, ma quando gli intrepidi soccorritori entrano, capiscono che era tutta una montatura per costringere i cognati di Antonio ad uscire di casa: quella paglia, che si sta già spegnendo, da sola è troppo poca per potere arrivare al legno del soffitto e bruciarlo. Adesso Antonio, visto sfumare miseramente il suo piano, ce l’ha con tutti e apre il fuoco contro chi veniva veniva.

Ah! Mi ha chiavato una palla Antonio! – si sente urlare, poi tutti vedono accasciarsi al suolo il quattordicenne Biasino Carolei e tutti si girano verso il posto dove era Antonio, ma non c’è più nessuno, lui è scappato nel buio della notte.

Biasino è stato colpito da una scarica di projettili di diversa grossezza sotto l’ascella destra che gli hanno frantumato la settima, l’ottava e la nona costola, lacerato l’ultimo lembo del lobo inferiore destro del pulmone, perforato il diaframma, spappolato il lobo destro del fegato e perforato la porzione superiore del colon ascendente, il colon traverso e l’intestino tenue. Le sue condizioni sono disperate e viene pietosamente preso in braccio e portato a casa, dove muore qualche ora dopo.

Di Antonio Re non c’è nessuna traccia fino al 2 novembre, quando dalla stazione dei Carabinieri di Cosenza arriva un telegramma che annuncia la sua costituzione:

La sera del trentuno ottobre io mi trovava pienamente ubbriaco e ricordo soltanto che, ritiratomi a casa poco prima del tramonto, vi trovai mia moglie e le diedi schiaffi perché durante il giorno non avea provveduto al foraggio necessario per un asino che posseggo…

– Hai litigato con i tuoi cognati e hai appiccato il fuoco alla casa…

Non ricordo di avere appiccato fuoco alla mia casa, né ricordo di avere con costoro litigato

– E allora perché ti sei costituito qui a Cosenza?

Mi sono spontaneamente costituito poiché il mattino del 1° novembre, mio fratello Luciano mi raggiunse presso la stazione ferroviaria di Torano-Lattarico e mi disse che io era autore di omicidio in persona del mio parente Carolei Biagio

– Bene. E ti ricordi qualcosa di questo fatto?

– Mi ricordo che quando io fuggii dal paese mi trovava armato di doppietta e ricordo che quest’arma, attraversando il bosco dei signori Maierà in contrada Villanello, mentre saltavo un fosso sotto strada, mi cadde e dovette in quel sito rimanere

– Ti ricordi quanto vino avevi bevuto e dove e con chi avevi bevuto?

Il vino lo avea bevuto a casa dove tengo tre recipienti ancora pieni e poteva essere circa due litri che si trovavano in un garrafone ed era nuovo, cioè del mosto di quest’anno

Se così fosse, la sua responsabilità potrebbe essere grandemente scemata e quindi devono essere fatte indagini scrupolose. I Carabinieri interrogano le due persone che possono senza ombra di dubbio chiarire questa circostanza: Francesco Salerno, lo schiavo, e Gaetano Martirano, il suo datore di lavoro per quel maledetto giorno:

Posso accertare che Antonio non era ubbriaco ma serio – attacca Francesco Salerno –. Qui in casa egli non bevette, perché del vino più non ve ne era, essendo che la giara era finita da due giorni circa e delle altre sostanze spiritose pure non ve ne erano affatto. La giara del padrone poteva contenere dai quindici ai venti litri di mosto, la cominciammo una settimana circa dopo la Misericordia (29 settembre) e la finimmo, come dissi, due o tre giorni prima dell’omicidio.

Forse era già ubriaco quando tornò dal lavoro.

Il giorno 31 ottobre avevo al mio servizio quattordici persone, tredici uomini ed una donna, per le sementi e fra questi eravi pure Antonio Re – ricorda con precisione Gaetano Martirano –. Dal mattino fino alle 4 pomeridiane in cui lavorarono, io fornii loro tredici litri di vino e quindi è impossibile che abbiano lasciato il lavoro in istato di ubbriachezza, essendo che puossi ritenere per certo che ognuno ha bevuto la sua porzione e nulla più e questa è impossibile che abbia potuto ubbriacare!

– Ma voi lo avete visto quando è andato via? Magari ha bevuto più degli altri o ha portato via la sua parte di vino e l’ha bevuta strada facendo…

Io non vidi veramente quando il Re si allontanò, ma son certo che dal fondo mio se ne uscì tutt’altro che ubriaco, né del vino a casa ne potè portare, essendo che i tredici litri che loro diedi erano contenuti in un bottiglione che rimase nel mio fondo, né ce ne sono in questi luoghi od almeno da me portarsi recipienti per mettersi il vino che loro si da e conservarlo per la casa, sibbene sul posto si consuma.

E su questo non dovrebbero esserci dubbi dal momento che, se da una parte l’interesse del padrone a non fare ubriacare i dipendenti sul posto di lavoro coincide con quello dei sottoposti a non ubriacarsi per non perdere il lavoro, dall’altra il vino che viene fornito è bevuto durante tutto l’orario di lavoro, servendo a mitigare la fatica, e ha ragione Martirano a dire che poco meno di un litro bevuto durante una decina di ore mentre si zappa non ubriacherebbe nessuno. Antonio Re è davvero nei guai.

Il 20 gennaio 1893, la Sezione d’Accusa rinvia Antonio Re al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza con l’accusa di omicidio volontario. Alle 11,00 del 7 marzo successivo comincia la prima e unica udienza del dibattimento che si conclude con la condanna dell’imputato, concesse le attenuanti generiche, a 15 anni di reclusione, più pene accessorie.

Questa assurda vicenda si concluderà definitivamente il 24 maggio 1893 quando la Suprema Corte di Cassazione rigetterà il ricorso di Antonio Re. [1]


[1] ASCS, Processi Penali.

Lascia il primo commento

Lascia un commento