I FETI DI PORTAPIANA

È la mattina del 3 maggio 1916 e il Delegato di P.S. Francesco Cilento sta controllando la posta chiuso nel suo ufficio, quando il piantone bussa e gli annuncia la visita di una donna che deve fare una denuncia e che si rifiuta assolutamente di parlare con altri funzionari all’infuori di lui. Con un cenno sconsolato del capo, Cilento acconsente e il piantone fa entrare la donna, Teresa Malerba di 52 anni, che attacca subito con una serie di salamelecchi, subito interrotti dal Delegato che la invita a raccontare i fatti che vuole denunciare:
– Eccellenza, a Portapiana non si parla d’altro… mia nuora… quella svergognata! – attacca con il suo forte accento della provincia di Reggio Calabria.
– Che ha fatto? Come si chiama?
– Ecco… ho un figlio a nome Romualdi Vittorio sposato a tale Scarpelli Rosina che ora abita con sua madre a Portapiana… detto mio figliuolo trovasi da quattro anni sotto le armi e mai è venuto in licenza durante tale periodo
– E quindi…  – la interrompe Cilento agitando la mano destra col segno delle corna.
– Eh! Però ora sono venuta a conoscenza, per averlo appreso da tale Riccelli Giuseppe, che la moglie di mio figlio si è in questi giorni sgravata di un bambino di sette mesi e che lo abbia nascosto… il fatto è in conoscenza di tutto il quartiere ed anche la sorella della partorita, Fortunata Scarpelli, ne è informata
L’espressione di Cilento si fa seria e, rassicurata la donna che sarà fatto il possibile per scoprire la verità, la invita ad andarsene.
– Arcadi! Vacirca! – urla il Delegato.
– Comandi! – esclamano i due Agenti scattando sugli attenti.
– Rintracciatemi questo tale Giuseppe Riccelli a Portapiana e fatelo venire qui immediatamente – ordina loro.
Trovare l’ex muratore Giuseppe Riccelli è un gioco da ragazzi perché, da quando la caduta da una impalcatura lo ha reso zoppo e inabile al lavoro, sta sempre vicino al gabbiotto del dazio di Portapiana a chiedere l’elemosina.
– Conosco Rosina Scarpelli e ricordo bene che lunedì primo maggio l’ho vista passare davanti alla mia casa senza più mostrare la pancia grossa come l’avevo vista fino ad un tre o quattro giorni prima, pancia che sembrava arrotondata per gravidanza e ben visibile da tre o quattro mesi prima. Fu perciò che pensai che la Scarpelli si fosse sgravata ed allora, stamattina, dissi alla di lei suocera i rilievi da me fatti e quindi la convinzione certa che avevo che la di lei nuora si era sgravata
– Avete detto voi alla Malerba che la nuora era incinta di sette mesi e che il bambino è sparito?
Null’altro potevo dire di più preciso tanto sul che era avvenuto del neonato, né se fosse nato a sette mesi o a nove mesi, perché tutto ciò non sapevo… mi limitai a dire che indubbiamente la Scarpelli aveva dovuto nascondere il nato
I due Agenti, in abito borghese, raccolgono anche le voci di molti vicini di casa di Rosina. Ritenendo fondate le accuse, rassicurano Cilento che non disperano di venire subito in conoscenza del luogo ove il frutto degli illeciti amori della Scarpelli fosse nascosto, cioè seppellito, perché come accade sempre in questi casi, nessuno scommetterebbe un soldo sulla permanenza in vita del bambino.
Passano tre giorni durante i quali i due Agenti non riescono a scoprire niente che li porti alla creaturina, poi il 7 maggio sembra arrivare la svolta alle indagini: alcuni ragazzi avevano, in un buco del muro della chiesa di Santa Maria in Portapiana, ora Caserma, rinvenuto un feto!
Sicuri di trovarsi di fronte al reato denunziato dalla Malerba, gli Agenti avvisano il Delegato il quale, insieme al Pretore, si precipita sul posto, non prima, però, di aver disposto il fermo di Rosina Scarpelli.
Ma le cose non sono così come appaiono e il feto ritrovato non può essere quello del bambino di Rosina perché si tratta di un feto di circa quattro mesi in istato di avanzato essiccamento, contenuto nei resti di una scatola di cartone: una massa informe di colore grigio che al tatto pare assorbito. Facilmente si rilevano le vestigia degli arti inferiori nonché quelle degli arti superiori e la forma del tronco, però il sesso non è dato rilevarlo. La lunghezza è di cinque a sette centimetri, la larghezza di quattro. si vede il gonfiamento cefalico e l’apertura boccale. La carne e le ossa non si possono distinguere, così pure gli organi interni, perché in avanzata putrefazione e la massa si presenta informe nella sua costituzione intima.
Le cose si complicano: adesso bisogna trovare anche chi ha partorito e chi ha nascosto questo feto.
Per il bambino che manca non resta che interrogare Rosina, magari torchiandola a dovere se non confesserà subito, e farsi dire dove lo ha seppellito. La ragazza, come previsto, prova a negare ma dopo un abile interrogatorio teso a sfruttare le condizioni di spirito di naturale debolezza e sugestionabilità pel recente puerperio e di spavento e dolore per l’incalzare e l’investigare del Delegato inquirente, è costretta a parlare:
Fui resa incinta nel mese di ottobre da un soldato di Bari. Nascosi a tutti il mio nuovo stato, meno che a mia madre Spadafora Maria, che informai poco tempo prima di partorire. Domenica ultima 30 aprile, verso le ore di mattina fui assalita dai dolori e dopo avvertito mia madre mi sgravai di un bambino. Il neonato venne raccolto da mia madre e deposto sopra a dei panni senza che si praticasse la legatura del cordone ombelicale e poi dentro una botte per bucato. Dal letto sentii piangere il bambino e ricordo che mia madre mi disse che era vivo. Il giorno appresso fu da me messo entro un buco posto in direzione del secondo gradino di accesso alla mia abitazione
– Aspetta, aspetta… se lo hai nascosto in un buco, vuole dire che il giorno dopo era morto… l’hai ammazzato tu o tua madre? O forse lo avete fatto insieme? E come lo avete ammazzato? Parla!
Non so spiegare come è avvenuta la morte del bambino… ricordo solo che lo sentii piangere una sola volta, tanto che non avendolo più sentito, pensai che fosse morto… io… io… – farfuglia – nascosi il bambino per salvare il mio onore
– Quindi sarebbe morto da solo? Uhm… non ci credo, non ci credo perché hai appena ammesso che non gli avete legato il cordone ombelicale… l’avete fatto morire dissanguato! – urla, picchiando violentemente un pugno sulla scrivania.
Dopo le dichiarazioni di Rosina è nei guai anche sua madre.
Cilento e i suoi uomini vanno in via Cavarella 135 a cercare il cadaverino nel posto indicato da Rosina. Alla base della porta vi è, in linea al primo gradino, un buco chiuso in modo rudimentale con alcune pietre. Toltele, trovano ciò che stanno cercando: avvolto in luridi panni giace il cadavere di un neonato in stato di avanzata putrefazione.
Solo una sbirciata e Cilento ritiene necessario avvisare il Pretore della scoperta e chiedere di fare intervenire un medico per le incombenze necessarie.
Quando il dottor Bruno De Simone apre quei luridi stracci ha un moto di ribrezzo. Le persone che sono intorno a lui si coprono la bocca per soffocare i conati di vomito.
I tessuti molli erosi dai vermi che brulicano su tutto il corpicino. Il feto è di sesso mascolino e dalla costruzione scheletrica dà l’idea di un feto a termine, partorito approssimativamente da dieci giorni – assicura il medico.
– È nato vivo e vitale? – gli chiede Cilento.
Non posso dire se sia nato vivo o morto in quanto, tenuto conto dell’avanzata putrefazione, non posso, né potrei, mediante l’esame dei polmoni stabilire più o meno se sia nato vivo.
Richiuso frettolosamente l’involto, De Simone se ne lava le mani e il Pretore decide di affidare la perizia autoptica ai dottori Adolfo Tafuri e Alberto Cerrito che, crudamente, relazionano così:
Il capo è mancante di pelle, la faccia non esiste, si vede la mascella inferiore pendere in mezzo ad un verminaio. Le ossa del cranio, scoperte, sono allontanate le une dalle altre; non esistono fontanelle e suture. Attraverso queste ossa, che si accavallano una sull’altra, si vede la cavità cranica mancante di cervello e divisa ancora dal setto falciforme. La testa è unita al tronco ancora per mezzo delle vertebre cervicali non ancora distaccate, ma scoperte. Al torace è ancora attaccato il braccio destro, che conserva fino all’articolazione del pugno la pelle di colore rosso fosco; la mano è completamente nera con il corion macerato. Il braccio sinistro è spolpato, si vedono la scapola, l’omero, l’ulna e radio, uniti ancora dai legamenti. La mano è nelle stesse condizioni ma ancora le ossa che la compongono non sono completamente scoperte. La pelle del torace è distrutta e si vedono le costole scoperte insieme allo sterno ed addossate alla parte posteriore; le costole sono, per così dire, immerse in una poltiglia verminosa e si vede un entrare ed uscire di questi vermi dalla cavità toracica. Sollevato e reciso lo sterno abbiamo trovato le cavità prive di organi e sostituite da ammasso di vermi. Il diaframma è ancora esistente. L’addome è distrutto: esiste ancora un disegno di qualche ansa intestinale sopra le vertebre; non esiste la vescica; gli organi genitali rimangono sufficientemente conservati, esistendo non solo il pene ma anche i testicoli nella borsa macerata. esiste una porzione delle natiche con pelle quasi intatta di colore roseo. Degli arti inferiori non esistono che le sole ossa, collegate ancora dai legamenti.
I due medici, dalla lunghezza del corpo da loro riscontrata, 45 centimetri (alla quale deve necessariamente aggiungersi qualche altro centimetro sottratto alla cifra segnata dall’assoluta mancanza di tessuti molli, stimando che potesse essere stata, in vita, compresa tra i 48 e i 50 centimetri), valutano l’età del feto, secondo quel che attesta il maggior numero dei medici legali, dovrebbe essere di nove mesi (stabilendo che per gli ultimi mesi il numero di essi corrisponde alla lunghezza del feto divisa per cinque). Non solo: anche la lunghezza e il diametro dei femori, la presenza dei testicoli nello scroto, nonché di altri parametri confermerebbe che il feto era nato a termine e non di sette mesi, come dichiarato da Rosina. Se, però, fosse nato vivo o già morto è impossibile da stabilire. C’è un altro aspetto molto importante nella relazione di Tafuri e Cerrito: ammesso che il bambino fosse nato vivo, non è affatto automatica la morte per la mancata legatura del cordone ombelicale, che è raccomandata principalmente come misura di precauzione per impedire un’emorragia del moncone fetale, ma tale emorragia non è da temere mai in bambini che respirano bene e ciò per la contrattilità delle arterie ombelicali che produce una rapida occlusione del lume dei vasi.
Ma da quanti giorni è avvenuta la morte? È la risposta a questa domanda che scatena un putiferio, rischiando di far crollare tutta l’indagine. Tafuri e Cerrito ammettono che la questione è molto difficile da risolvere, variando di molto la successione dei fenomeni putrefattivi all’esterno così come all’interno, a seconda delle circostanze individuali (età, modo di vestire, robustezza fisica, ecc.) e generali (stagione, località, temperatura dell’ambiente), però ci provano confrontando il caso in esame con alcuni famosi casi illustrati nella letteratura medica e, studiando i processi di sviluppo delle larve degli insetti trovati, considerati il medium in cui fu ritrovato il cadaverino, lo stato di calore approssimativo e quello di umidità, nonché lo stato di dissoluzione delle parti molli e l’invasione di parecchie specie di crisalidi,  giungono alla conclusione, sempre in linea di approssimazione, che la morte rimonta a parecchi mesi, non meno di cinque.
È il 16 maggio 1916 e sembra che tutto debba ricominciare.
Il Giudice Istruttore, però, non vuole buttare a mare la confessione di Rosina, nel frattempo smentita da sua madre, così convoca tutti e tre i medici che hanno esaminato il corpicino e li mette a confronto. De Simone conferma la sua dichiarazione che la morte risalirebbe a massimo 10 giorni prima del ritrovamento del corpo e lo stesso fanno Tafuri e Cerrito che sostengono le proprie tesi. Ma sono ben presto costretti a cedere e adesso ammettono di non potere escludere che la morte del detto feto potette verificarsi un 10 o 16 giorni prima di quello in cui rendemmo la nostra relazione di perizia (collocandola così alla data fatidica del 30 aprile) e ammettono anche che, oltre lo sviluppo di vermi, possa essere intervenuta un’altra causa esterna come per esempio rosicchiamento di topi di campagna (arvicole) che ebbe a produrre quella quasi completa distruzione di tessuti molli e che ci portò a quel reciso concetto di maggior termine di decorrenza circa il decesso del neonato, concetto che oggi sentiamo il dovere di modificare col non escludere la possibilità che il parto ed il decesso si fossero verificati il giorno 30 aprile scorso. Resta da capire come mai non hanno verbalizzato i segni del rosicchiamento sulle ossa del bambino.
Tutto è salvo: Rosina ha detto la verità, la suocera e il mendicante hanno detto la verità, il Delegato Cilento non ha mai estorto la confessione a Rosina, l’indagine è limpida e cristallina e l’unica a mentire è Maria Spadafora quando dice di essere all’oscuro di tutto.
In tutto questo c’è un piccolo particolare che pare essere stato dimenticato: chi ha lasciato l’altro feto nel buco della chiesa di Santa Maria a Portapiana?
Se ne ricorda il Pubblico Ministero il 5 luglio 1916 quando scrive al Giudice Istruttore:
Con rapporto 7-5-1916 della P.S. fu denunciato il rinvenimento di un feto; le indagini per la scoperta degli autori non hanno dato fino all’8-V-1916 esito positivo e sinora il fatto è rimasto nell’ombra e non è stato elevato neppure in rubrica, mentre è ovvio che deve essere istruito processo. Laonde si richiede il Sig. Giudice Istruttore in linea principale di elevare rubrica per infanticidio a carico di ignoti o, quantomeno, ordinare lo stralcio riguardante quel fatto, non avendo esso alcuna connessione col presente procedimento (contro Rosina Scarpelli e sua madre. Nda). Il 13 luglio successivo il Giudice Istruttore risponde che non è necessario iscrivere il reato in rubrica e non è possibile nemmeno stralciare gli atti dal procedimento principale per l’intima connessione esistente fra i fatti delittuosi denunziati ed i richiami da verbale a verbale che si vennero facendo. Chi ha lasciato lo scatolo di cartone nel buco può dormire sonni tranquilli, tutti restano concentrati su Rosina Scarpelli e Maria Spadafora.
Noi riteniamo che la Scarpelli e la Spadafora debbano essere rinviate al giudizio della Assise per avere, a fine di uccidere, in correità tra loro, il 30 aprile 1916, cagionato la morte di un infante non ancora iscritto nei registri dello stato civile, nei primi cinque giorni dalla nascita, per salvare la Scarpelli il proprio onore e la Spadafora l’onore della propria figlia. In ordine all’altro infanticidio a carico di Ignoti (e che si riferisce al primo feto rinvenuto nel buco della caserma  Santa Maria) deve dichiararsi non doversi procedere per insufficienza di prove, essendo rimaste vane le indagini per scoprire gli autori. Così scrive il Pubblico Ministero il 10 agosto 1916, quattro mesi dopo il presunto parto di Rosina.
La difesa delle due donne fa notare un particolare molto evidente, ma non considerato, che scagionerebbe la madre della ragazza: se è stato scelto un nascondiglio così inadatto a nascondere, vicino alla casa, dove era facile da un momento all’altro potere essere scoperto o dai monelli (come avvenne dell’altro feto) o da cani o da qualsiasi altro passante per le esalazioni della putrefazione, rivela che chi lo scelse non poteva recarsi più lontano in cerca di luogo più adatto. Se la Spadafora fosse stata consapevole non si sarebbe certamente scelto quel buco vicino la casa. Già, le esalazioni della putrefazione. Possibile che nessuno si sia insospettito passando lì davanti? Possibile che si sia dovuto aspettare che Rosina indicasse quel buco? Possibile che nemmeno gli Agenti della P.S. hanno sentito l’odore nauseabondo della carne putrefatta quando sono andati ad arrestare Rosina? Un mistero, o forse l’abitudine alle mefitiche esalazioni degli escrementi rovesciati per strada.
In attesa del pronunciamento della Sezione d’Accusa scadono i termini della custodia cautelare e le due donne vengono rimesse in libertà provvisoria.
Il 14 ottobre 1916 la Sezione d’Accusa sposa la tesi del Pubblico Ministero e della Procura Generale del re e rinvia le due donne al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza e nello stesso tempo dichiara il non luogo a procedere in ordine al delitto di procurato aborto, relativo al ritrovamento dell’altro feto, per essere rimasti ignoti gli autori.
Durante il dibattimento, cominciato il 14 febbraio 1918, si scopre che il marito di Rosina, tornato dalla Libia per una breve licenza, è andato in carcere tre volte a farle visita e l’ha perdonata.
Il Delegato Cilento, ascoltato come testimone, a sorpresa dichiara che Rosina, durante l’abile interrogatorio, sostenne che il bambino era nato morto. Come sia finito nei verbali il contrario è un altro mistero.
Il 15 febbraio 1918, dopo sole due udienze, la Giuria emette la sentenza: assoluzione per entrambe le imputate per non aver commesso il fatto.[1]
Il bambino era nato morto e l’onore è salvo.

 

[1] ASCS, Processi Penali.

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