FRITTOLE E SANGUE

T’è piaciutu fare ‘a puttana ccù niputimma?
E mò vavatinni!
– urla Raffaele Manna in faccia a sua moglie Teresa mentre
le butta fuori dalla porta di casa i suoi quattro stracci. È un’afosa mattina
del mese di agosto 1898.
La donna, piangendo
e urlando in mezzo alla strada la sua innocenza, raccatta la roba sparsa per
terra e comincia a scendere la strada che dal fondo Spada, sopra la chiesetta
di Santa Teresa, scende fino al carcere di Cosenza. Il marito, sbuffando, la
segue con lo sguardo fino a che, girato l’angolo del palazzo del barone Luigi
Mollo, scompare dalla sua vista. Non la vedrà mai più.
Ma ch’è successu compà Rafè?
L’è cacciata‘un putìa ammazzà a niputimma
Raffaele
Manna, cinquantatreenne contadino affittuario insieme a suo fratello Domenico
del fondo agricolo dei signori Spada, nel quale abita, ha costruito nella sua
mente il tradimento per il semplice fatto che Teresa è più giovane di lui di
ben 25 anni e spesso risponde ridendo a qualche battuta scherzosa del venticinquenne
Francesco Manna, nipote diretto di suo marito. A confortarlo nei sospetti c’è
solo la voce pubblica, ma i
pettegolezzi sono partiti proprio dalle sensazioni che Domenico ha confidato ad
un suo amico. E si sa benissimo che fine fanno le confidenze!
Ma il fatto
che Raffaele non abbia sporto querela per adulterio nei confronti di sua moglie
e di suo nipote o, peggio, che non abbia ammazzato suo nipote, è solo una
trovata ad uso e consumo della voce
pubblica
, per dare a intendere che cacciando la moglie fedifraga ha salvato
l’onore suo e non ammazzando il nipote ha salvato tutta la famiglia Manna dal
disonore e sé stesso dalla galera. Le cose, però, non stanno affatto così
perché dal giorno che Raffaele ha messo alla porta Teresa, i rapporti con la
famiglia di suo fratello Domenico sono sempre più tesi, apparentemente per
questioni di interesse. Di scaramuccia in scaramuccia si arriva al pomeriggio
del 9 febbraio 1899 quando Raffaele, appena finito di festeggiare l’uccisione
del maiale mangiano le frittole, esce a fare due passi davanti casa.
Antonio
Ferragina fa la guardia daziaria e il pomeriggio del 9 febbraio 1899 è di
servizio nel gabiotto del dazio
vicino alla filanda Rendano, proprio all’ingresso del fondo Spada. L’odore
delle frittole proveniente dalla casa poco distante lo ha tormentato durante
tutto il turno di lavoro, ma adesso sua attenzione viene attirata da due
persone, una più anziana e l’altra più giovane, che stanno discutendo
animatamente nella campagna soprastante, interrotti di tanto in tanto dal
passaggio di un carro che trasporta
legname dal palazzo Mollo ad una cisterna che si trova dentro il fondo Spada
.
Quelle due persone sono Raffaele Manna e suo nipote Giuseppe. La guardia non
capisce tutte le parole che i due si dicono, ma ad un certo punto sente questo
scambio di battute
Domani, se mi fate inquietare, vengo a
dividere la robba
– dice Raffaele
Te l’ho detto più volte: innanzi a me non
parlare di robba
! – gli risponde il nipote, piuttosto adirato
Poi altre parole
incomprensibili di Raffaele e Giuseppe che risponde mordendosi il pugno
Mi rosicchierei il cuore di Cristo per la
rabbia
!
Intanto
arrivano sul posto il padre di Giuseppe e il fratello Francesco che tirano via
il giovanotto, il quale continua a urlare epiteti irripetibili contro lo zio, quindi
si incamminano verso la loro casetta rurale. Raffaele li segue a brevissima
distanza. Giuseppe si volta, lo vede e dice
Vavatinni sinnò ti rumpu ‘u culu!
– Ah! Giacchè mi vuoi menare, tè! – urla lo
zio tirando fuori dalla tasca una piccola rivoltella e sparando, a bruciapelo,
un colpo contro il nipote
Giuseppe
sente come un pugno al petto che lo fa vacillare per qualche secondo, poi si
lancia sullo zio con il padre e il fratello per disarmarlo. Ne nasce una violenta
colluttazione e alla fine la rivoltella è nelle mani di Giuseppe. Ansimando,
lui e i suoi familiari si allontanano, ma Raffaele è sempre dietro di loro.
Fatto solo
qualche metro, Giuseppe sente una fitta al torace, vi pone la mano sopra e la
sente bagnata di un liquido caldo. Si guarda la mano e la vede grondante di
sangue. Si guarda il torace e gli indumenti sono inzuppati di sangue. Allora
capisce. Quel colpo, come di un pugno, che ha sentito sul torace era il
proiettile sparato da suo zio che gli si conficcava nelle carni. Gli occhi gli
si fanno rossi e comincia a sbuffare come un toro. Si gira verso lo zio e gli
punta la rivoltella verso la testa. Poi fa fuoco due volte. Raffaele lancia un
grido di dolore, si mette le mani sulla faccia e corre verso casa.
Anche
Giuseppe, sorretto dal padre e dal fratello, va a casa e si mette a letto.
Il Brigadiere
Carlo Zanardi e il Carabiniere Giovanbattista Giannini sono di servizio
nell’aula della Corte d’Assise al primo piano del fabbricato che ospita anche il
carcere cittadino quando due uomini li avvisano di quanto è appena accaduto a
pochi metri da loro. Si precipitano sul posto insieme al Pretore ma non trovano
altro che abbondanti tracce di sangue che si dirigono verso due abitazioni
vicine tra loro.
Entrano nella
prima dove abita Domenico Manna con la sua famiglia e trovano Giuseppe semiseduto alla sponda del letto essendo
impossibilitato di fare altrimenti perché sente venirsi meno il respiro
.
Subito mandano a chiamare un medico e, nell’attesa del suo arrivo, interrogano
il ferito che, a stento, racconta
Stavo zappando quando intesi che mio padre
parlava animatamente con mio zio Raffaele. Mi avvicinai e dissi loro che
fossero stati zitti, ma mio zio rispose che egli era padrone della robba, che
era uomo e che in faccia a lui nessuno era buono. Aggiunsi che tra zio e nipote
non era il caso di dire queste parole e che gli affari d’interesse potevano
aggiustarsi con le buone e siccome continuava a parlare di robba
, bestemmiai.
Intanto mio padre cercava di allontanarmi
ma mio zio mi esplose contro un colpo di rivoltella
– dice indicando
l’arma, che viene subito presa in custodia dal Brigadiere, poi continua –. Lo disarmai e mi incamminai verso la torre,
ma mio zio mi veniva dietro ed io, fatti pochi passi, mi voltai e gli sparai
due colpi con la stessa arma che a lui avevo tolta
Il dottor
Eugenio Barbieri arriva in pochi minuti e constata che il giovane fa sessanta respirazioni al minuto e ha 140
battiti; il volto è pallidissimo e spesso avverte dei tremiti nervosi. Presenta
una ferita circolare di sette millimetri dalla quale fuoriesce qualche goccia
di sangue, tre dita sotto il capezzolo destro. La ferita ha margini pesti e
nelle vicinanze si scorgono tracce di recente scottatura
. Non c’è foro di
uscita, ma nella parte posteriore del torace, alla stessa altezza del foro
d’entrata, si nota un piccolo corpo duro che giace nel tessuto connettivo
sottocutaneo. È il proiettile che si è fermato lì.
– Meglio
lasciarlo stare dov’è, almeno per il momento, il paziente è in imminente pericolo di vita… – decide il
medico mentre si lava le mani in un bacile. Poi, con il Brigadiere ed il
Pretore va a verificare le condizioni dell’altro ferito
Il viso di
Raffaele Manna sembra una maschera dell’orrore. Ha una ferita da arma da fuoco nella regione orbito-oculare sinistra e
propriamente in corrispondenza dell’arcata orbitaria inferiore
. L’occhio è
pesto e al tatto il medico constata la frattura
dell’osso mascellare inferiore. Dalla bocca fuoriesce una discreta quantità di
sangue ed osservandola diligentemente si scorge la parete del palato, nella sua
parte mediana, interessata da due ferite longitudinali
rispettivamente di 2
e 1 centimetro. Palpando con un dito in
questo sito si nota anche qui la frattura dell’osso mascellare. Tali ferite
,
annota il medico, o sono l’effetto del
proiettile che uscendo dal cavo orale si è diviso in due, ovvero possono essere
prodotte da frammenti dell’osso fratturato, essendo ancor dentro il proiettile
.  Raffaele ha un’altra ferita, questa superficiale,
al sopracciglio destro, prodotta da un proiettile che lo ha soltanto
strisciato. Salvo complicazioni dovrebbe guarire in meno di un mese.
Nonostante le
condizioni del viso e della bocca, il Pretore prova a fargli qualche domanda.
Raffaele, con parole interrotte per la
sofferenza continua, riesce a fare la seguente dichiarazione
Mio nipote Francesco ha attaccato il mio
onore ed io per non ucciderlo cacciai di casa mia moglie che mi aveva tradito

da mio fratello fui avvertito più volte
di guardarmi dai figli che si erano dispiaciuti per aver mandato via di casa
mia moglie
Oggi con lui, col
fratello Giuseppe e col padre venni a quistioni per affari d’interesse e tutti
e tre si avventarono contro di me. per difendermi estrassi una piccola
rivoltella col manico di osso bianco, ma essendosi adoperati per disarmarmi,
partì un colpo. In seguito mio nipote Giuseppe mi esplose due colpi con la
stessa mia rivoltella, ferendomi come vedete
– Sapete che quel colpo lo ha quasi ammazzato?
Non so se quel colpo abbia ferito Giuseppe
C’è stata una
sparatoria e ci sono due feriti gravi e c’è un testimone oculare attendibile
sulla dinamica dei fatti, ma che non è in grado di precisare chi abbia
cominciato o provocato per primo. In attesa di stabilire le esatte responsabilità
di ognuno dei partecipanti alla rissa, Raffaele, il quale sicuramente ha
mentito su molti aspetti, e Giuseppe vengono dichiarati in arresto e piantonati
nei loro letti.
La mattina
del 10 febbraio il dottor Battista Molezzi viene chiamato d’urgenza al
capezzale di Giuseppe: il punto dove si è fermata la pallottola si è gonfiato a
dismisura e il paziente non sopporta più il dolore. Bisogna operare subito
sperando che non sia sopraggiunta una brutta infezione. Tolto il proiettile
calibro 9 sembra che Giuseppe trovi un po’ di sollievo, ma è un sollievo solo
temporaneo. Le sue condizioni vanno sempre peggiorando.
Dopo qualche
giorno, Raffaele modifica la sua prima dichiarazione
Il giorno 9, dopo aver mangiato e bevuto
parecchio per aver fatto le frittole, sono uscito fino a poca distanza dalla
mia casa dove trovai mio fratello coi figli. Avendo detto che avrei diviso la
robba che essi tenevano in fitto, volendo alludere che ero stato io in tempo
remoto a prenderla in fitto dai signori Spada, affitto che avevo lasciato per
intero a mio fratello per essermi dato ad altra industria, i figli di ciò si
dispiacquero ed uno di essi, cioè Giuseppe, mi minacciò di morte dicendo che
avrebbe polverizzato le ossa del mio cranio e le avrebbe sparse per l’aria. Ciò
dicendo si avventarono contro di me. fu allora che estrassi la rivoltella e
tirai un colpo contro mio nipote. Dopo mi furono tutti sopra, mi gettarono a
terra, mi disarmarono e contro di me furono sparati due colpi e non potrei
indicare da chi
Raffaele fa un
passo avanti ammettendo che il colpo contro suo nipote non è partito
accidentalmente ma è stato volontariamente esploso da lui, ma ne fa due
indietro perché continua a mentire sulla successiva dinamica dei fatti e adesso
nega addirittura che sia stato ferito da Giuseppe.
La
spiegazione è semplice: se da un lato sa che non può più negare di avere
sparato volontariamente perché c’è un testimone oculare, dall’altro tenta di
coinvolgere nel suo ferimento il fratello oppure il nipote Francesco perché nel
frattempo gli è arrivata la notizia che per Giuseppe è solo questione di ore,
forse qualche giorno, poi morirà.
Ma le ore o i
pochi giorni preventivati diventano due mesi. Il 7 aprile Giuseppe muore per la pulmonite e la pleurite adesiva
provocate dal proiettile che ha trapassato il polmone destro da parte a parte. Consecutive e contemporanee a queste
patologie si svolsero la periepatite e la
peritonite adesiva la quale, quando giunse a tal grado da rendere impossibile
la circolazione del contenuto intestinale
, ha determinato la morte del
paziente.
Adesso si
tratta di omicidio volontario.
Ed è con
questa imputazione che, il 19 giugno 1899, la Sezione d’Accusa rinvia
Raffaele Manna al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza.
Il 7
settembre successivo, nell’unica udienza dibattimentale, l’imputato viene
riconosciuto colpevole e, concessagli l’attenuante della grave provocazione,
viene condannato a 9 anni e 10 giorni di detenzione, più pene accessorie.
Il 6 gennaio
1900 la Suprema Corte
di Cassazione rigetta il ricorso proposto dall’imputato.[1]
DAL 26 OTTOBRE ALL’OFFICINA DELLE ARTI
[1] ASCS, Processi Penali.

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